Con la nascita del governo Conte II, sono cambiate quasi tutte le personalità legate ai ministeri. Confermato all’Ambiente il generale dei Carabinieri Sergio Costa, mentre il deputato dei Cinque Stelle Alfonso Bonafede rimane guardasigilli. Il capo politico del MoVimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, si reinventa invece come ministro degli Esteri. Poche, dunque, le conferme. Anche perché un governo in continuità col precedente sarebbe stato inaccettabile per gli altri due partiti coinvolti nella formazione di questo esecutivo. Spiccano, perciò, le novità. La nomina di Roberto Gualtieri al MEF è soprattutto una scelta coraggiosa, dal momento che per quasi un decennio in via XX Settembre si sono avvicendati solo tecnici. Ma il vero elemento di discontinuità è senza dubbio il Viminale. Reduci infatti dalla parentesi “social” di Salvini, i tre partiti che compongono la coalizione di governo hanno effettuato un’inversione di rotta, nominando il prefetto di Milano Luciana Lamorgese.
66 anni l’11 settembre, è il membro più anziano del nuovo governo e una dei due ministri provenienti dalla Basilicata, insieme a Roberto Speranza. Si è laureata in giurisprudenza e da quarant’anni lavora al Viminale. Nel 2013 è entrata a far parte della squadra del ministro Alfano, diventando capo di gabinetto. Con la caduta del governo Renzi, Lamorgese è stata nominata prefetto di Milano, sostituendo Alessandro Marangoni. Tutt’altro che una novellina, dunque. Molti si stanno domandando cosa cambierà rispetto al suo predecessore Matteo Salvini, che ha lasciato un’eredità pesante da gestire. Ma proviamo a capire come siamo arrivati a questa nomina e cosa ci sarà di diverso ora che il Viminale avrà una nuova inquilina.
Uno dei temi più discussi da PD e MoVimento Cinque Stelle in queste settimane di trattative sul programma di governo è stato quello della sicurezza. Il segretario dem Nicola Zingaretti ha più volte dato l’aut-aut sui Decreti sicurezza, rifacendosi alle preoccupazioni fatte presenti dallo stesso Capo dello Stato prima di firmare le due leggi volute particolarmente dal ministro Salvini. Allarmante, lamentano le opposizioni, l’eliminazione della protezione umanitaria (croce e delizia del primo decreto sicurezza), e addirittura “incostituzionale” vietare alle navi delle ONG straniere di entrare nei porti italiani in barba alle convenzioni internazionali. Misure pesanti, duramente criticate perfino dalle cancellerie europee.
Eppure, se si dà uno sguardo retrospettivo alla situazione, si scorgono notevoli analogie tra il modello Salvini e quello del predecessore del leader della Lega, Marco Minniti. Pur essendo due soggetti provenienti da aree politiche quasi inconciliabili, Salvini e Minniti hanno raggiunto obiettivi molto simili: gli sbarchi sono diminuiti, le ONG criminalizzate (da ricordare il famoso “codice di condotta delle ONG” lanciato dallo stesso Minniti) e la partnership con il governo libico di al-Sarraj è stata rafforzata. Ovviamente sono tante – e piuttosto rilevanti – le differenze tra i due.
Laddove Minniti ha potuto vantare un approccio programmatico, mirato e certosino, Salvini ha lavorato poco e in maniera confusa. Una confusione non solo nei fatti, ma anche nelle parole. Lo slogan “chiudiamo i porti”, diventato poi un hashtag, è stato uno dei cardini del modello Salvini. Una frase anzitutto fuorviante e in secondo luogo demagogica, poiché a disporre la chiusura dei porti italiani è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) e non il Viminale. Inoltre, come risulta da una verifica dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non è stato approvato alcun provvedimento formale di chiusura dei porti. Tutto ciò è stato promosso con una martellante campagna social che ha decisamente caratterizzato i 14 mesi di vita del governo gialloverde.
Se c’è una cosa che Minniti e Lamorgese hanno in comune, invece, è proprio la totale assenza dai social network. Personaggi politici di un certo rilievo completamente avulsi da ciò che accade sull’etere. Per fare l’anti-Salvini, come molti l’hanno descritta, la neoministra non avrà certamente bisogno di Twitter o di Facebook. «L’immigrazione non comporta di per sé un rischio, la mancata integrazione invece sì», ha detto Lamorgese poco tempo fa. Parole che rappresentano una significativa presa di posizione rispetto a chi ha fatto della lotta all’immigrazione clandestina la propria bandiera. Ma Lamorgese non fa nessun ragionamento politico. È stata definita un tecnico e ai tecnici, si sa, spesso non importa granché del consenso.
Uno dei principali errori imputati al Partito Democratico è stato infatti quello di rincorrere la propaganda dei partiti contrari all’immigrazione incontrollata. Giustificati dai preoccupanti dati sugli sbarchi e appesantiti da un enorme senso di responsabilità, gli esponenti del PD hanno lasciato carta bianca a Marco Minniti. Il timore di perdere troppi voti era reale e, alla fine, gli elettori non hanno premiato questa linea dura, come abbiamo visto alle ultime elezioni politiche.
L’ultimo raffronto sugli sbarchi pubblicati dal ministero dell’Interno. Fonte: interno.gov
Aver stretto accordi con le varie e inaffidabili entità libiche per fermare in extremis i flussi migratori non ha sortito gli effetti sperati, dopo anni in cui la politica è stata inetta di fronte a un fenomeno che si stava trasformando in emergenza. E le accuse di collusione coi trafficanti di esseri umani arrivate addirittura dall’Associated Press, ma puntualmente smentite dal governo italiano, non hanno di certo deposto a favore del modello Minniti.
L’arrivo di Matteo Salvini al Viminale in questo senso non ha aiutato. Per questo motivo, Luciana Lamorgese deve adesso fronteggiare un problema che vede inevitabilmente la collaborazione della Farnesina, se si vuole trovare una soluzione definitiva. Perché non si tratta soltanto di una questione nazionale, ma di un problema locale che ha assunto caratteri internazionali, prima con lo scoppio della guerra civile libica e in ultima analisi con il boom dei flussi.
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