Ritorna l’appuntamento di theWise con le uscite musicali più importanti, nel bene e nel male, dell’ultimo periodo. Questa volta, a differenza degli appuntamenti precedenti di maggio e di giugno, abbiamo unito gli album di luglio e di agosto, dedicando quindi un solo articolo alle uscite di questi due mesi estivi. Quali sono i sei dischi che ci hanno colpito di più pubblicati fra luglio e agosto?
Lana Del Rey – Norman Fucking Rockwell!
A due anni di distanza dal precedente Lust for Life, Lana Del Rey torna alla ribalta con il suo sesto album in studio, Norman Fucking Rockwell!, e lo fa con estrema grazia ed eleganza. Il Norman Rockwell a cui si fa riferimento è stato un pittore americano, fra i più importanti artefici della cultura americana popolare del secolo scorso, noto in particolare per le copertine della rivista The Saturday Evening Post. Se Rockwell ha messo in scena quell’immagine confortevole e ammorbidita degli Stati Uniti e del sogno americano, Lana Del Rey ci offre la sua visione della società americana, immergendo nel disincanto dei giorni nostri quelle copertine idilliache nel suo disco più maturo e completo fino a oggi. Norman Fucking Rockwell! è la messa a nudo dello sfarzo hollywoodiano, il crollo del mito americano per raccontare, con estrema sincerità ed efficacia, la nuova America del 2019 dal punto di vista di una donna consapevole e disillusa. Un disco che va a ripescare elementi dal rock anni Settanta, in un continuo gioco di nostalgiche citazioni evocative di quella California che per molti, ancora oggi, rappresenta l’ideale assoluto di vita e spensieratezza. Quattordici ballate minimali e malinconiche dai sobrissimi arrangiamenti, in cui Lana compie forse la definitiva evoluzione da atipica popstar a cantautrice di classe: c’è la trasposizione della tradizione folk resa grandi da musiciste come Carole King e Joni Mitchell nel panorama musicale di oggi, in un paragone che a questo punto non sembra così azzardato. Un affresco dove la nostalgia di un passato mai vissuto si scontra con la brutale realtà dei giorni nostri, ma ciò che ne scaturisce non è una violenta esplosione, quanto un delicato e tragico abbraccio. 8/10
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Bon Iver – I,I
Quarta prova per il collettivo capitanato da Justin Vernon, in un contesto che spinge sempre di più nello spostare il baricentro dell’attenzione dalla figura tormentata e complessa del cantante all’intero gruppo. Ormai fortemente distante dall’intimo e ruvido cult For Emma, Forever Ago è figlio di un’evoluzione che ha visto rimodulazioni e arricchimenti concettuali e musicali a ogni nuova uscita, I,I sembra mirare a essere una sorta di contenitore in cui far fluire ordinatamente tutte le esperienze a tratti caotiche accumulate da Vernon e i suoi colleghi nel corso degli anni: dal lussureggiante folk d’ensemble dell’omonimo secondo album (presente in Faith ed Hey, Ma), alle quasi eccessive stratificazioni glitchy del penultimo 22, a Million, album che solo due anni fa ha ampiamente diviso la critica e confuso i fan. I,I è sicuramente un progetto più coeso, un lavoro in cui la voce (mai perfetta, ma sempre espressiva) di Vernon tenta stentatamente di eliminare vocoder e sintesi e di avvolgersi del più morbido abbraccio di cori gospel, sorretta da progressioni di morbide tastiere, bassi avvolgenti, chitarre e campionamenti più disparati. Quello che è il punto di maggior interesse di I,I, la coerenza di fondo e la sintesi riuscita di più mondi sotto arrangiamenti sopraffini, va ad essere anche il maggior limite dell’album: molte delle canzoni faticano a svettare di per sé, preferendo ritagliarsi una comoda nicchia all’interno dell’intero lavoro, forse eccezion fatta per i bellissimi crescendo di Naeem e i tribalismi di Salem. I,I si prefigura maggiormente come un album da ascoltare tutto d’un fiato, una esperienza notevole, complessa, ben studiata, ma più impalpabile del solito. 7.5/10
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Clairo – Immunity
Dal bedroom pop stonato su Youtube a next big thing dell’indie pop con l’album d’esordio Immunity: per Clairo, pseudonimo della ventunenne Claire Cottrill, devono essere stati due anni di duro lavoro e soddisfazioni. Dal 2017 a oggi, la cantautrice statunitense è stata infatti capace di capitalizzare l’inaspettato successo di Pretty Girl (70 milioni di play su Spotify e 39 milioni di visualizzazioni su Youtube per un video girato con una webcam), caricata su internet due anni fa quasi per gioco: sicuramente merito del padre Geoff Cottrill, esperto di marketing per molte industrie, musicali e non, americane, o ancora del manager Pat Corcoran, lo stesso che ha portato enorme visibilità a Chance The Rapper senza alcun precedente accordo con le case discografiche. Per molti sarà sinonimo di successo studiato a tavolino; quel che conta, però, sono le canzoni e lo stile. E su entrambi i fronti Clairo sa farsi valere, complici l’aiuto di Danielle Haim (dell’omonimo girl trio ormai cult) e l’ex-Vampire Weekend Rostman Batmanglij alla produzione. Il risultato è una preziosa raccolta di undici brani nostalgici e frizzanti che arrivano a strizzare l’occhio allo shoegaze (North) e al soul (Sinking), pur mantenendo sempre una piacevole struttura indie pop (Sofia), malinconici il giusto per accompagnare leggermente la fine dell’estate. Punta di diamante il singolo apripista, Bags, gustoso midtempo con un alternarsi di chitarre college-rock e tastiere che ricordano la Grimes più orecchiabile di Art Angles. 7/10
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Brockhampton – GINGER
Ne hanno fatta di strada i Brockhampton, il collettivo hip hop texano nato nel 2015 ma con all’attivo già quattro dischi pubblicati a partire dal 2017: dopo la notevole trilogia di SATURATION e la conferma con Iridescence, pubblicato in concomitanza con l’uscita dal gruppo di Ameer Vann per accuse di molestie sessuali, GINGER appare meno chiaro negli intenti, pur non sfigurando e rimanendo un disco molto fresco e godibile. Forse il vero punto debole dell’album è la mancanza di singoli particolarmente forti, con diversi episodi ben congegnati ma di cui nessuno eccezionale. Detto questo, GINGER è comunque un lavoro apprezzabile: i Brockhampton rimangono uno dei progetti mainstream più interessanti in circolazione e GINGER è una buona prova che conferma quanto di buono ascoltato finora. Sicuramente non un passo indietro rispetto al resto della discografia, ma neanche questo passo avanti così grande: vi è un’atmosfera cupa che impregna tutto il disco, sia nei momenti più rallentati e riflessivi che in quelli più diretti, ma la percezione è che ci sia sempre un vuoto da colmare (forse proprio quello lasciato da Vann). Un disco lunatico, scarno, dove sembra in parte perdersi la sinergia fra i membri del gruppo. In ogni caso, ci sono anche diversi picchi, come la delicata traccia di apertura NO HALO, con un Matt Champion sugli scudi, o la introspettiva ballad dalle tinte R&B DEARLY DEPARTED, che fanno di GINGER una buona conferma per la band di San Marcos. Il percorso di crescita c’è ed è avvenuto anche molto in fretta, manca solo l’intuizione giusta per trovare la quadratura del cerchio: il timore è che le buone idee stiano però finendo. 7/10
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Chance the Rapper – The Big Day
Disco di debutto (per modo di dire, visto che arriva dopo tre mixtape) per Chance the Rapper, musicista di Chicago, che racconta un momento particolarmente lieto della sua vita: Chance si è sposato nel marzo scorso e il grande giorno che dà il titolo al disco è, per l’appunto, il giorno del suo matrimonio. The Big Day ha quindi l’intento di condividere l’incontenibile gioia di Chance, che cerca di trasmettere la sua traboccante felicità in settantasette minuti di musica. È già qua che, in realtà, il disco scricchiola: una durata eccessiva che finisce con lo stordire l’ascoltatore più che coinvolgerlo. Non basta però l’entusiasmo per conquistare il pubblico, visto che spesso diventa talmente eccessivo da essere fastidioso. Ed è un peccato, perché The Big Day non solo si fregia di contributi invidiabili (dai Death Cab for Cutie a Gucci Mane), ma arriva da un musicista che aveva già dimostrato di avere grandissime potenzialità e da cui ci si aspettava decisamente di più. Questo invece si tratta di un passo falso, seppur comunque non si possa parlare di un disco brutto: i brani sono ridondanti ma girano bene, quello che viene a mancare veramente è una tridimensionalità che dia maggiormente corpo all’album. Spesso, infatti, c’è solo la pura auto-celebrazione di Chance, certamente comprensibile, ma non si sofferma in un’analisi più approfondita della sua vita di marito e di padre. Forse eccessivamente figlio del momento, The Big Day finisce con l’ostentare il momento di assoluta felicità di Chance the Rapper, più che condividerlo. Se fosse stato maggiormente ragionato sarebbe stato un esordio scoppiettante, invece così è appena salvabile ma comunque deludente. 6/10
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Tool – Fear Inoculum
Tredici anni dopo 10000 Days, il ritorno di una band di culto come solo i Tool hanno saputo essere a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio era ormai diventato quasi solamente un meme o motivo d’ironia più che una vera e propria attesa. Tra cambiamenti stilistici (e vocali) e la varia rete di progetti paralleli che coinvolgono Maynard James Keenan (A Perfect Circle, Pushifer) e soci, l’inaspettato annuncio dell’uscita di Fear Inoculum, dopo anni di posticipazioni e fughe di notizie, liti e ritrattazioni, ha generato nei fan e negli addetti ai lavori un hype considerevole. Ritroviamo sin dalla traccia omonima, singolo apripista, i tratti comuni al sound della band, che poi si svolgeranno lungo l’intero lavoro: brani di lunghezza corposa (l’intero album copre circa 86 minuti su 10 tracce), suoni granitici e oscuri e intrecci ritmici impossibili, il tutto purtroppo penalizzato da una produzione che tende a comprimere troppo chitarre e batterie (non senza artefatti sonori). Keenan, da sempre isterica e penetrante voce del gruppo, adotta per Fear Inoculum uno stile vocale che risente del peso degli anni (e degli stravizi): voce sibilante, quasi sussurrata, mai invadente, su molti passaggi strumentali persino inesistente. Il peso dell’intero album ricade quindi sull’ispiratissimo chitarrista Adam Jones, laddove la sezione ritmica di Chancellor e Carey risulta quasi sottoutilizzata, seppur sempre pertinente. I pezzi migliori del lotto, va detto, finiscono con l’essere proprio quelli in cui le rare apparizioni vocali di Keenan si fanno più insistenti e istrioniche: Pneuma e Descending, figli di quella rabbia caustica, ma controllata, del precedente 10000 Days. In generale un album che non sorprende e non aggiunge nulla alla consapevolezza di avere a che fare con quattro musicisti, compositori, performer e sound designer mostruosi. Manca soprattutto quell’urgenza espressiva e rivoluzionaria che aveva fatto dei precedenti album dei Tool delle pietre miliari, tanto da far pericolosamente avvicinare Fear Inoculum ad un attraente e vacuo esercizio di stile. 5/10
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Le recensioni di I, I, Immunity e Fear Inoculum sono state curate da Luigi Buono.