La stagione che sta per finire potrebbe rivelarsi come una delle più complicate del ventennale potere di Vladimir Putin in Russia, perlomeno perché dopo molto tempo le attenzioni degli esperti e dell’opinione pubblica internazionale si sono concentrate maggiormente sulla politica interna e non sull’influenza geopolitica ed economica dell’orso russo; cosa, quest’ultima, sulla quale Putin ha sempre puntato per dare meno risalto a ciò che avveniva all’interno dei confini della Federazione Russa, sia nei confronti del suo elettorato che agli occhi del mondo occidentale.
Dopo un decennio nel quale la popolazione – o comunque la maggioranza di essa – si è “allegramente” distratta dai problemi quotidiani (soprattutto la parte che non vive a Mosca o San Pietroburgo) seguendo con furore le guerre in Georgia prima e Siria e Ucraina orientale poi, i problemi più gravi del Paese non sono affatto spariti. Il sentimento di patriottismo della gran parte dei russi aveva per lungo tempo nascosto problemi economici di una buona fetta della popolazione (ancora oggi il 14,3 per cento vive sotto la soglia della povertà, fissata a centocinquanta euro mensili) e la mancanza di una forma democratica trasparente e di libertà di espressione.
Ora che il peso di questi conflitti sembra essersi ridimensionato e la loro narrazione affievolita anche da parte delle televisioni di stato russe (che comunque non mancano di aggiornare quotidianamente sui nemici, reali o immaginari, della Russia), Putin si trova dopo tempo ad affrontare un’opposizione, seppur sempre debole e costantemente decimata da omicidi di Stato e arresti, che sembra non scomparire mai, rivendicando le proteste di quella parte della società russa che non ancora non vede cambiamenti sul versante della corruzione e della libertà economico-sociale. E le recentissime elezioni amministrative sembrano confermare la notevole flessione che alcuni sondaggi avevano previsto per la Russia Unita di Putin, nonostante le tantissime proteste per brogli filo-governativi e la mancanza addirittura degli exit poll.
Cataclismi naturali (e umani)
Indubbiamente l’estate appena trascorsa verrà ricordata per la drammatica epigrafe «il pianeta brucia»: nonostante taluni scienziati giurino che il tenore e la frequenza degli incendi nel 2019 non differisca di molto rispetto agli anni precedenti, l’eco mediatico che hanno avuto i roghi in Amazzonia, Africa Centrale e Siberia ha messo al centro del dibattito un argomento per anni sottovalutato ma che già da ora sembra poter diventare il tema centrale del prossimo futuro.
Nessuno si aspettava certamente la Russia come trascinatrice e simpatizzante della svolta ecologista e ambientalista che sembra trovare ultimamente approvazione in Occidente, che improvvisamente ha preso coscienza dei disastri naturali perpetrati dall’uomo, ma nella gestione dell’immenso incendio delle regioni di Krasnojarsk e Irkutsk dello scorso luglio il governo centrale russo ha mostrato una lentezza e avversione all’intervento – classico vizio di mamma URSS – che hanno provocato quello che molti già definiscono come il disastro più grande della storia, interessando un’area di oltre sei milioni di ettari (per intenderci, la grandezza di un paese come la Grecia). Pur ammettendo le cause dolose dell’incendio, secondo gli esperti del Ministero dell’Ambiente russo i fuochi sarebbero stati alzati dalla cosiddetta mafia del legname, contrabbandieri che radono al suolo intere aree di foresta siberiana per poi nascondere il loro passaggio facendone terra bruciata. Forti venti e la secchezza del terreno dovuta ai cambiamenti climatici hanno contribuito a moltiplicare in pochi giorni l’area del rogo.
Gli elementi sicuramente più sorprendenti sono state le dichiarazioni iniziali dell’amministrazione russa, che sosteneva che non avesse alcun senso intervenire per spegnere i fuochi poiché ciò non era economicamente vantaggioso, dato che le spese per procedere avrebbero ecceduto i potenziali danni. Una legge del 2015 approvata dal Ministero dell’Ambiente definisce le aree remote e difficilmente accessibili del Paese, quindi il novanta per cento delle foreste siberiane, come zone di controllo dove non è obbligatorio spegnere gli incendi poiché non ledono persone né imprese. Questi calcoli costi-benefici non sono piaciuti agli abitanti siberiani (i quali, nel frattempo, nelle città intorno all’area dell’incendio sono stati invasi per settimane da nubi di fumo per cui era impossibile respirare), che si sono sentiti per l’ennesima volta cittadini di seconda categoria e insieme alla pressione dei movimenti ecologisti hanno spinto il governo a intraprendere deboli e inefficaci manovre tramite centinaia di aerei cisterna che non hanno però avuto grossi risultati, non spegnendo alcuno dei trecento incendi in atto.
Mentre i fuochi siberiani dovevano ancora spegnersi, l’8 agosto in una base navale di Nenoska, a nord-ovest di Arkhangelsk, è avvenuta un’esplosione che ha causato cinque vittime e il rilascio nell’atmosfera di isotopi radioattivi venti volte superiori ai livelli standard. Sebbene sia stato esagerato da subito il paragone con Chernobyl, dove le radiazioni si attestavano a livelli circa trecento volte superiori, è subito stato evidente come le autorità russe abbiano voluto da subito segretare l’avvenimento. Un’ennesima gatta da pelare per Putin dopo la Siberia, e l’ennesimo uso di modi di procedere tipicamente sovietici. A distanza di un mese dall’esplosione ancora tutto è praticamente avvolto nel mistero, ma secondo Nature isotopi radioattivi di stronzio-91, bario-139, bario-140 e lantanio-140 sono stati individuati nella pioggia e nell’aria dalla Roshydromet il 26 agosto. Questo tipo di isotopi vengono rilasciati, in caso di esplosione, dal nucleo di un reattore nucleare, insieme a iodio e cesio radioattivi. Inoltre, sono stati appunto trovate tracce di cesio-137 nei tessuti muscolari di alcune delle vittime, riferisce il Moscow Times. La decisione della Russia di spegnere subito dopo l’esplosione cinque delle otto stazioni che monitorano i radionuclidi conferma come le autorità non vogliano parlare delle conseguenze di questo ennesimo disastro che potrebbe avere effetti non solo per i cittadini russi e che probabilmente rimarrà fuori dalla luce della verità per ancora molto tempo.
L’economia non corre, le proteste esplodono
Nonostante un’inflazione ai minimi e l’alto prezzo del petrolio e del gas in questa fase economica, il tasso di crescita del PIL russo negli ultimi anni è stato sempre inferiore a quello auspicato dal presidente. Nemmeno i ritocchi della Rosstat, l’agenzia russa per le statistiche che nell’ultimo anno ha rilasciato dati economici così ottimistici da destare perplessità persino negli economisti della banca centrale, riescono a nascondere l’evidente rallentamento dell’economia russa, che ancora oggi non trova molte soluzioni oltre all’esportazione di combustibili fossili e gas naturale.
In un report dell’istituto Carnegie, la giornalista Alexandra Prokopenko spiega che negli ultimi cinque anni i redditi delle famiglie sono diminuiti, che il governo ha deciso di aumentare l’IVA e di continuare a consolidare la spesa di bilancio. I russi preferiscono non spendere e la riduzione della domanda si riflette sulla crescita economica. Una povertà sempre più diffusa e una disuguaglianza che rimane tra le più ampie al mondo non possono più essere giustificate dalle sanzioni occidentali dovute alla guerra in Ucraina e le recenti decisioni del governo Medvedev di alzare la soglia dell’età pensionabile hanno contribuito a incendiare il sopito malcontento.
Le proteste, organizzate e non, sono state numerose nell’ultimo anno e per una delle prime volte Putin non è sembrato in grado di arginarle e spegnerle con la stessa risoluzione del passato. A partire dalle proteste contro la corruzione dei pubblici ufficiali, e nonostante un’opposizione ridotta ormai al solo Aleksej Navalniy, lo scorso 27 luglio vittima dell’ennesimo tentativo di avvelenamento (nello stesso giorno sono stati arrestati circa mille manifestanti a Mosca), il presidente russo sembra non riuscire a zittire completamente il dissenso nel Paese. I risultati delle elezioni amministrative di settembre 2019 hanno confermato il calo della popolarità di Putin e di Russia Unita; nonostante l’esclusione dalle elezioni di gran parte dell’opposizione e le già citate accuse di brogli elettorali, RU è scesa al 31-32% di popolarità nei sondaggi – record negativo del millennio – mentre nella capitale Mosca il partito del presidente ha perso tredici dei trentotto seggi che aveva conquistato nella precedente tornata elettorale. Peraltro, la bassissima affluenza del 21% ha messo in evidenza l’indifferenza dei cittadini moscoviti nei confronti dell’attuale classe dirigente russa. Una discesa dei consensi che sicuramente non intaccherà l’inattaccabile supremazia di Putin e della sua nomenclatura per le prossime elezioni parlamentari del 2021, ma se la vertiginosa discesa delle preferenze dovesse continuare il presidente potrebbe iniziare ad avere problemi di legittimazione di fronte a una nazione che ha da sempre considerato ai suoi piedi e pendente dalle sue labbra. I quattro elettori su cinque che hanno votato Putin alle presidenziali del 2018 sembrano essere dubbiosi più che mai.