C’è sempre stata una buona regola, o perlomeno una regola ritenuta tale, per affrontare il problema della libertà. Si tratta di una piccola massima che affonda le radici nel pensiero filosofico classico, e si estende fino ai consigli che forniscono i genitori ai figli la mattina del loro primo giorno di scuola. La regola, in genere, recita più o meno così: “la tua libertà finisce dove inizia quella altrui”. È una regola che funziona molto bene per quanto riguarda la violenza: un comportamento violento è ritenuto accettabile solo se non danneggia l’altro; cioè praticamente mai. Questa semplice equazione ci fa capire facilmente perché i comportamenti violenti sono (o andrebbero) banditi. Ma se volessimo applicare la stessa regola non alle azioni bensì alle parole, ci troveremmo immediatamente in una certa difficoltà. La limitazione della libertà di parola sembra cozzare contro il relativo diritto sancito dalla costituzione; dall’altra parte è lapalissiano che se non ci fossero dei limiti a questo diritto nessuno stato costituzionale sarebbe vivibile. Una matassa difficile da sbrogliare, che ha da sempre impegnato filosofi, intellettuali, pensatori, giornalisti; e nonostante gli sforzi della categorie sopracitate, si tratta di un problema ancora irrisolto, se non con qualche variante della massima citata in apertura. È possibile tutelare la libertà d’espressione e allo stesso tempo bandire chi, con le parole, danneggia volontariamente gli altri? Il nodo centrale del problema è capire dove porre la linea di demarcazione tra un discorso libero e un discorso che incita all’odio (cosiddetto hate speech). Una via di uscita comoda potrebbe suggerirci di appellarsi al semplice buon senso, come Cartesio si appellava alle idee chiare ed evidenti per provare l’esistenza del proprio io; ma cadremmo in un circolo vizioso come quello attribuito al filosofo francese. Sopratutto, finiremmo per fare il gioco di chi, in nome della libertà d’espressione, semina volontariamente odio tra la popolazione.
Liberi sì, dalle responsabilità
Non si tratta quindi di un problema nuovo, di per sé; i padri costituenti ne erano molto probabilmente consapevoli già all’epoca. Non potevano certo prevedere, però, gli sviluppi successivi della società globale e italiana. E sicuramente non potevano prevedere che, in un futuro non troppo remoto, la stragrande maggioranza della comunicazione politica si sarebbe sviluppata attraverso una piattaforma privata con un bacino d’utenza di circa un miliardo di individui. A dire la verità, tutto ciò non era stato previsto nemmeno da chi la rete l’aveva inventata. L’origine di internet per come lo conosciamo ora coincideva con l’idea sovversiva di uscire dagli schemi di potere novecenteschi. L’intento era staccarsi dal vertice della piramide per creare alla base una comunità di membri alla pari. Poi sono nate le varie aziende (Google, la stessa Facebook, Apple) sono cresciute così tanto da diventare a loro volta il vertice della nuova piramide. Bisogna quindi capire come questa nuova disposizione abbia influito sul tema della libertà e in particolare sul valore della libertà d’espressione. Ma sopratutto bisognerebbe capire esattamente quale sia il ruolo di questi big del mondo digitale all’interno della piramide. Perché esaminando bene la cancellazione delle pagine Facebook di CasaPound e Forza Nuova, è difficile capire se si tratta di un’azione dal valore politico o una mera mossa per salvaguardare la propria immagine. Il dubbio si solleva proprio perché non una sanzione messa in atto dallo Stato italiano, che ha il compito di difendere i propri valori costituzionali, ma da un’azienda privata che si muove nell’interessa della propria crescita economica. Le reazioni immediate della destra sono in un certo senso comprensibili, perché fondano la loro perplessità su un punto molto delicato: è Mark Zuckerberg a entrare a gamba tesa nella politica, o è la politica che non sa più far valere il suo ruolo all’interno della società?
Per analizzare meglio la questione è bene riflettere sull’influenza che hanno i social network come Facebook sulla politica, e per farlo basta pensare a quanto successo lo scorso anno. Siamo nella primavera del 2018 ed è appena scoppiato il caso di Cambridge Analytica: viene reso noto che terze parti hanno potuto comprare i dati privati di milioni di utenti ignari, e che Facebook, pur essendo a conoscenza della questione, non si è prodigata per renderne conto agli interessati. In più, l’ente in questione (Cambridge Analytica appunto) non svolge un’attività qualsiasi, ma si occupa di profilare i cittadini elettori per decidere quali messaggi a sfondo politico recapitargli. L’equazione finale è molto semplice e alla portata di tutti: Facebook vende i dati dei propri utenti per influenzare gli esiti elettorali. Quello di Cambridge Analytica non è un grosso caso solo per l’entità della violazione commessa, ma per l’enorme impatto che ha avuto nell’immaginario collettivo. Considerata la mole spaventosa di utenti, il tempo passato sulla piattaforma e la complessità delle interazioni svolte, la questione è di estrema valenza. Non sono valse a molto le scuse di Mark Zuckerberg, assieme alla promessa di avviare una politica più stringenti su questi temi. Dalla primavera del 2018 si è aperta una finestra sul motore che fino ad ora aveva continuato indisturbato a lavorare con una base di utenti pari a un miliardo. Detto per inciso, non c’erano in realtà molti dubbi sul fatto che Facebook e altri sfruttassero la vendita dei dati degli utenti per fare utili, ma in questo caso ciò che è emerso con prepotenza è l’inscindibile correlazione che c’è tra social network, utenti e comunicazione politica.
Torniamo ora ai giorni nostri. È piuttosto chiaro che formazioni politiche come CasaPound e Forza Nuova occupino una zona grigia della legislazione italiana (oltre uno stabilimento, abusivamente), sottoscrivendo a un’ideologia apertamente vicina a quella fascista, che è bandita dalla costituzione. Ciononostante, i due partiti (anche se di fatto CasaPound è da poco diventato un movimento) si fanno propaganda ogni giorno e partecipano regolarmente alle elezioni, comprese le ultime nazionali ed europee. Le critiche riguardo la legittimità di queste due forze politiche non sono certe nuove, e vengono reiterate continuamente. Viene naturale chiedersi, dunque, come mai lo stato italiano non intervenga. Facebook ha dichiarato di aver chiuso le pagine Facebook di CasaPound e Forza Nuova per “odio organizzato”, un’accusa non certo leggera. La vera domanda è: era dovere di Facebook denunciare lo stato di cose, assumendosi la responsabilità di un gesto tanto clamoroso? A prima vista la chiusura definitiva dei canali di comunicazione di un partito fascista dovrebbe essere una grande vittoria per la costituzione italiana. Invece è probabilmente una delle sconfitte più cocenti che il nostro testo costituzionale potesse mai subire. Quello iato tra teoria e prassi non è stato colmato da una volontà politica forte, spinta dal desiderio di eliminare una volta per tutte ideologie violente e razziste. È stata un’azienda privata a farlo. Senza nulla togliere ai termini e condizioni di Facebook, che giustamente bandiscono simili comportamenti, sarebbe ingenuo credere che la volontà di bloccare il dilagante odio in rete provenga da un trasparente desiderio di ordine. Più probabile che sia spinto dalla necessità di evitare eccessivi danni d’immagine, impegnandosi quindi a spegnere tempestivamente i focolai più pericolosi.
La politica ha taciuto e le imprese del nuovo millennio hanno preso parola. Non si tratta solo di un segno dello strapotere che le più grandi aziende del settore tecnologico hanno oggigiorno. Si tratta anche di un’evidente laissez faire della classe politica italiana che ha voluto chiudere entrambi gli occhi per troppo tempo. E scaricando le proprie responsabilità ad altri attori, il risultato è quello di aprire una nuova spaccatura all’interno della zona grigia del permesso e del vietato. Il problema, alla radice, può anche essere stato un fraintendimento. Siamo stati abituati a pensare Facebook (ma un po’ tutta la rete) come un luogo dove tutto è concesso, dove non ci son divieti e quando ci sono possono essere facilmente aggirati. La comunicazione politica ha imparato ben presto a sfruttare questa libertà illimitata e si è aperta spazi sempre più ampi all’interno della comunicazione tramite i social network. Facebook, però, rimane comunque l’unico proprietario della propria piazza virtuale, e in quanto tale ha tutto il diritto di chiudere gli account di chi vuole se questi violano il loro regolamento. Ma se Mark Zuckerberg è seriamente intenzionato a combattere una crociata contro i diffusori di odio e fake news, non può certo limitarsi a un paio di movimenti di estrema destra appartenenti alla politica italiana. Senza una netta divisione tra il concesso e il proibito il rischio è che si coinvolgano troppe o troppo poche persone; una volta stabilito tale confine, inoltre, per non perder coerenza, la piattaforma americana dovrebbe curarsi di eliminare ogni utente che lo valichi. Altrimenti si finisce per dare ragione a chi, come l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, considera un’azione simile una censura da parte dell’attuale governo (una sorta di 1984 ai danni dell’estrema destra). Si ritorna quindi al problema iniziale, con un’aggravante: chi decide dove porre la linea di demarcazione non è un complesso sistema giudiziario basato su pesi e contrappesi, ma una multinazionale privata che segue quasi esclusivamente il suo tornaconto. Se le cose stanno così, la politica deve scegliere se continuare in questa fusione con il mondo della rete o tornare ad assumere maggiore indipendenza, fermo restando che il processo ormai avviatosi è il primo e potrebbe essere irreversibile.