Il cinema di Tarantino si nutre di cinema, dagli albori de Le iene (1992) fino all’ultimo C’era una volta..a Hollywood (2019), ora nelle sale italiane. Tarantino, prima di essere regista, lavorava infatti un videonoleggio a Los Angeles. Erano gli anni Ottanta e, come tanti altri appassionati, la maniera di essere cinefilo era peculiare ai tempi e, nel suo caso, lo porterà a fondare il cinema tarantiniano. L’avvento delle VHS infatti è una svolta: non è più la programmazione di una sala cinematografica o il palinsesto televisivo a determinare le visioni di un fruitore, decidendo il che cosa e il quando. Si apre la possibilità di perdersi, di vagare seguendo proprie traiettorie, una maniera autonoma di esplorare il cinema che parte dal videonoleggio e arriva fino all’era digitale di oggi. La passione tarantiniana infatti si nutre dei più svariati generi: dal cinema di serie A, hollywoodiano, europeo, fino all’amatissimo cinema di serie B, che d’altronde era in rivalutazione proprio nella generazione di Tarantino, fino a farne un culto che ancora oggi continua ad esistere in particolari nicchie cinefile. La chiave infatti è una possibile coesistenza di disparati elementi, un mescolamento dove l’unica regola è l’amore viscerale per il cinema, l’amore di un eterno ragazzino per la propria collezione di miti. Non è l’autoriflessività problematizzante di un Godard, ma il piacere, il divertimento di chi non può smettere di vedere il regno cinematografico come un paese dei balocchi.
1969: dal vecchio al nuovo
C’era una volta a.. Hollywood infatti apre una teca: la cultura cinematografica di un anno cruciale, il 1969, epoca di passaggio tra il vecchio e il nuovo, epoca di scombussolamenti, di movimenti di rivolta, di Woodstock, della guerra in Vietnam. La vecchia Hollywood è in declino: la sua grande macchina produttiva, fabbrica di codici, di generi si porta avanti stancamente, è una versione pallida, caricaturale di se stessa. Nuovi volti si affacciano, ventate di freschezza e nuove maniere di pensare il cinema: è la New Hollywood, quella di Easy Rider, di Sam Peckinpah, di Martin Scorsese. Ed è anche il cinema europeo, che negli anni Sessanta vive un proprio tumulto, una carica di rivoluzioni del linguaggio senza precedenti e ineguagliata, dalle nouvelle vagues agli spaghetti western. È l’arrivo anche sul suolo americano di quello che è definito ancora oggi il cinema moderno. Come in ogni momento di transizione, due generazioni sono in quella fase liminare, abitando ancora spazi simili. Infatti dall’Europa arriva a Los Angeles Roman Polanski (Rafał Zawierucha), insieme alla moglie Sharon Tate (Margot Robbie). Da abbiente, da star cinematografica – il regista di Rosemary’s Baby!, si dice nel film – compra una sfarzosa villa, che casualmente è accanto a quella di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio). Rick Dalton è un attore con una sua nomea, ma questa non splende più come un tempo, comincia a cigolare. La nomea in questione d’altronde è ancora discreta, è una gloria da piccolo schermo: Dalton infatti è il noto protagonista di una serie tv western, Bounty Law, ma il grande salto al cinema è una promessa in sospeso (un miraggio). Se C’era una volta.. a Hollywood è un termometro dell’anno di transizioni, allora Dalton ne è un buon indicatore: il peso di un inesorabile declino lo opprime, la sensazione di essere già materia obsoleta, materia di scarto gli chiude lo stomaco, con lacrime un po’ comiche, un po’ patetiche di un piccolo uomo in un momento più grande di lui, che non può comprende a fondo, ma da cui sente l’imminente esclusione. L’attore è turbolento già da tempo, d’altronde: i suoi vizi sono quelli della sua generazione, è alcolizzato, ma niente droghe, quelle sono la nuova frontiera dei giovani hippies, ad esempio. Tuttavia ha la fortuna di una spalla destra: lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt), con cui ha anche un sodalizio professionale.
Booth e Dalton appaiono già nei primi minuti del film, subito proiettato dentro la materia filmica, dentro Bounty Law e poi nel suo backstage, dove Dalton e Booth concedono un’intervista. C’era una volta..a Hollywood è un backstage più ampio di tutto il mondo che dava luce ai film che Tarantino e tanti altri hanno amato. Se ne evocano in flashback, come un ricordo di un tempo remoto (c’era una volta..), le materia prime: la pellicola, il Technicolor. Un culto del vintage a cui il cineasta è sempre stato devoto, sin dal tuffo nel passato dei diner di Pulp Fiction, del culto del vinile nonostante l’avvento del CD di Jackie in Jackie Brown, fino alla rivisitazione storica del passato più importante della cultura occidentale e americana odierna, la Seconda Guerra Mondiale (Bastardi senza gloria), la guerra civile (The Hateful Eight) e la schiavitù dei neri (Django Unchained). I luoghi sono l’automobile, presenza iconografica fissa nei film del regista, essenziale per l’intera cultura americana, ma anche i set, che costituiscono un’altra operazione meta-cinematografica. C’era una volta..a Hollywood è un film ambientato nel mondo dei film, un set nel set, che dunque già per questo elemento dimostra di non uscire mai geograficamente dai luoghi del cinema, pure se andasse a calarsi nel domestico degli attori. La vita personale degli attori d’altronde è ancora sogno, è ancora generatrice di storie, di ricami da fan: Sharon Tate è indicata da un conoscente ad una festa, come una bambola in una casa di bambole, insieme all’ex fidanzato Jay (Emile Hirsch) e al marito. Sembrano una materia brillante appena toccata da un dito, appunto, i più fiabeschi in questo “c’era una volta..”, il futuro destinato ad affermarsi. Gli stessi personaggi tarantiniani, verso cui il loro creatore ha sempre riversato il grande talento di sceneggiatore, parlano il linguaggio del cinema: Dalton si ripete le battute nella piscina di casa, si risponde, non smette mai di essere un personaggio. Tate è come un sogno etereo e fruito, non parla quasi mai per sé, è narrata, vista, indicata, è soprattutto raggiante, ama la sua stessa carriera, va al cinema per vedersi sullo schermo, vedere il proprio lavoro e sentire le reazioni dei presenti in sala. Ancora il piacere cinematografico, che passa dalla materia prima al suo risultato, il film stesso proiettato, il suo fascio di luce che si riflette negli occhi di chi guarda e genera sensazioni, al gusto della battuta, dell’azione. La donna mitizzata, eroina, non è nuova al regista: lo è stata la Sposa di Kill Bill, Jackie di Jackie Brown, inglobando dentro di sé tanti altri miti popolari. Tate si inserisce nel filone, come materia mitica ancora più manifesta, evidente delle altre. Tuttavia la peculiarità dell’ultimo Tarantino è che pur continuando a fare un cinema “che parla cinema”, come ha detto il critico Enrico Ghezzi, sempre più acquisisce una componente di umanismo che s’adagia silenziosamente, come un velo, sui suoi attori.
Il modo d’essere icona del Tarantino degli anni Novanta e Duemila era un vortice puramente giocoso di battute a effetto, dove la morale era una possibilità innanzitutto di svolta della trama, una carta di sorpresa da tirar fuori, non un fondamento: la morte e la violenza sono performance, la visceralità della carne tramite lo splatter è passione per il basso e truculento, è sangue finto, schizzo esagerato, spettacolare; tutto in un’autoironia, tutto in esibita superficie, nient’affatto pretenziosa. La variazione nell’ultimo Tarantino, che sommariamente è ancora così, è l’entrata della Storia, e con essa il trauma: sempre più la maturità al regista ha donato un mitigamento che è anche una nuova considerazione umanistica. C’è una netta differenza tra i piccoli uomini Vincent Vega in Pulp Fiction e Rick Dalton in C’era una volta.. a Hollywood. Dalton è a metà tra la professionalità caricaturale, il modo di recitare gigione, che mostra la vecchia generazione di attori, con copioni simili, tutti con uno stile preconfezionato, reiterato, preciso, ad oggi patetico, e un’angoscia personale, dove quel patetismo in fondo già portato in scena si confonde abilmente con autentici sentimenti. Nella lacrima facile di Dalton si genera una risata da spettatore, ma anche un’inevitabile e tacita comprensione, la visione di un dramma personale esistente e più ampio. Non è più soltanto una vignetta vivente come Vega, ma è testimone scanzonato di un’epoca, un uomo del suo tempo. Lo sguardo di Tarantino ha subito un allargamento.
Le lenti, però, sono sempre quelle del cinema. Infatti questa svolta è in particolare nella credenza sempre più commossa del regista nel potere del suo mezzo: quella rielaborazione attiva che passava per il rimescolare i propri miti, assume sempre più anche la nuova traccia di riscrittura storica. C’era una volta..a Hollywood ha connotati fiabeschi anche in questo, nella licenza datasi da sé di ri-immaginare, di correggere: nel terreno virtuale del cinema, in fondo, può accadere, alla maniera in cui un Dalton che pareva infisso al fare l’anti-eroe, finalmente può avere il suo piccolo, accidentale momento di eroismo.
Se Tarantino ama il cinema di serie B, dunque ha una visione in fondo comprensiva di Rick Dalton, il bisogno è di non violare il fascio di luce generato dal nuovo cinema di serie A, dall’avvento del nuovo, in particolare in Sharon Tate. Il godimento non settoriale, non elitario della sua fruizione cinefila fa sì che i due mondi, idealmente, possano persino incontrarsi, “abbracciarsi”, come accennato. Serie A e serie B non sono solo conviventi nella stessa via residenziale, nel “paese dei balocchi” tarantiniano, ma è un fatto storico imminente sulla linea cronologica in questione e di cui il regista è ben cosciente. La fusione di generi è proprio una caratteristica del cinema degli anni Settanta destinato a venire, spazzando via la rigida codificazione impressa da Hollywood dagli anni Trenta in poi. Non tutto, però, può amalgamarsi, ma rimane quell’osservazione tra mondi diversi e che è occasione di confronto, per quanto perplesso. Di nuovo con piglio comico in C’era una volta..a Hollywood si mostra una bambina che pare calarsi profondamente nella propria parte sul set di un’altra serie tv, western. Si tratta di un modo di recitare che proponeva proprio la fuoriuscita dalla caricatura, dall’attore come produttore ed esecutore in serie di un certo tipo fatto e finito. Il processo di rinnovamento attoriale era già partito con i nuovi metodi di Marlon Brando, James Dean negli anni Cinquanta, che andavano delineando personalità turbolente, senza più virilità macchiettistiche, manicheismi, ma complessità psicologiche maggiori, e dove l’immedesimazione continua nel personaggio, la ricreazione di un suo mondo psicologico scavato dai recessi di sé rendeva una nuova idea di professionalità, che a Dalton rimane estranea. Sul finire degli anni Sessanta infatti arriveranno anche nuove stelle, nuovi modelli come Dustin Hoffman ne Il laureato, Jack Nicholson, arricchendo la mascolinità al cinema, rendendola ancora più viva, vicina alla vita.
La vita in Tarantino entra moderatamente filtrata: la violenza non più recitata, provata su un copione, ma dilagante in Vietnam rimane sullo sfondo, ad esempio, le implicazioni di una violenza bombardata nei media anche da personaggi come quelli di Dalton, viene accennata (un problema che lo stesso Tarantino ha vissuto nella sua carriera, tra le tante accuse di violenza gratuita) e che viene recepita dai giovani hippies, ad esempio; ma in particolare la violenza di Charles Manson, quel trauma trattato qui da Tarantino, più che manifestarsi, aleggia come un presagio, uno spettro e rappresenta l’ala più oscura, sfiorata, di ricezione del 1969 e di tutto ciò che rappresenta. Quei momenti di vuoto, di negatività silenziosa, di malinconia che già esistevano in Pulp Fiction, qui prendono striscianti forme storiche. Il cineasta è ancora rappresentate del filone di un cinema nient’affatto realista, nient’affatto come la vita. E pur integrando ombre del reale, si riserva di poter essere ancora sogno, facendo del cinema una possibilità di conservazione di un’epoca (fosse anche salvataggio), una scatola “magica” evocatrice, dove radunare i propri miti, farli interagire.