Abbiamo già parlato dei motivi della protesta contro le autorità di Pechino. Eppure, nonostante la governatrice Carrie Lam abbia formalmente ritirato la proposta di legge sull’estradizione in Cina, fiamme, gas lacrimogeni e spray al peperoncino sono tornati nelle strade di Hong Kong. Un chiaro segno che le proteste che stanno agitando la città da più di tre mesi non si fermeranno.
La legge sull’estradizione, profondamente impopolare, è stata la causa scatenante del dissenso, ma rappresenta solo una delle cinque richieste dei manifestanti. Le dimissioni del capo dell’esecutivo, la creazione di una commissione indipendente che indaghi sulle violenze politiche, la cancellazione dell’accusa di sommossa per i manifestanti arrestati e, infine, riforme politiche ed elezioni democratiche: «Cinque richieste, non una di meno», questo è lo slogan che risuona nelle strade.
Nonostante il dietrofront della governatrice Carrie Lam, i sostenitori della democrazia sono tornati a esprimere il proprio dissenso e a scontrarsi con la brutalità repressiva della polizia. I cittadini di Hong Kong continuano a vedere il proprio governo come un fedele e obbediente esecutore degli ordini emessi da Pechino: la ritirata sull’estradizione non è abbastanza per allontanare i demoni dell’asservimento alla Cina.
Hong Kong, di fatto, appartiene alla Cina, ma è stata una colonia britannica per centocinquant’anni e il suo sistema giuridico rispecchia ancora i principi del Common Law. Dal 1997, la formula speciale “una Cina, due sistemi” assicura a Hong Kong il funzionamento indipendente della magistratura, il diritto di protestare, la libertà di pensiero e di stampa e altri diritti fondamentali in tutti i campi – eccetto la politica estera e la difesa – ma questa garanzia vale solo fino al 2047, termine ultimo per riconsegnare ufficialmente la città nelle mani della Cina.
La sensazione è però che Pechino stia già iniziando a “cinesizzare” Hong Kong, violando in modo più o meno percepibile i diritti assicurati dalla costituzione, la Basic Law. La disfunzionalità del sistema politico di Hong Kong è una delle cause profonde di queste proteste: la chief executive Carrie Lam occupa uno spazio politico molto limitato e l’invadenza del governo cinese nei processi decisionali dell’ex colonia britannica riaccende il timore di vedersi concretizzare uno scenario estremamente restrittivo dell’autonomia della regione, repressivo e anti-democratico.
Da Pechino i toni sono aspri: quelli dei manifestanti pro-democrazia sono stati definiti e condannati duramente come «atti quasi terroristici». È infatti inverosimile confermare senza esclusioni quella narrativa per cui a scendere in piazza siano solo giovani eroi pronti a sfidare il totalitarismo cinese per difendere la democrazia e i diritti umani. Le ragioni che motivano l’adesione dei manifestanti alla protesta hanno anche, se non principalmente, radici economiche – il costo della vita è superiore a quello della Cina continentale, il costo degli affitti è proibitivo, l’alto tasso di densità abitativo per chilometro provoca problemi di sovraffollamento – e non è possibile ignorare che, come in quasi ogni movimento di protesta, esistano le frange più violente in testa al corteo che si scontrano con la polizia, con caschi e vestiti rinforzati. È per questo che gli ufficiali di polizia hanno difeso il loro uso della forza come necessaria risposta a quello che hanno identificato come comportamento violento e criminale da parte dei dimostranti, giustificando la forza eccessiva che stanno usando per reprimere le manifestazioni, gli spray al peperoncino e i gas lacrimogeni sparati sulla folla.
I comandanti della polizia hanno ammesso, tuttavia, che la reputazione della polizia di Hong Kong –- una volta soprannominata “Asia’s Finest” – è stata ferita. Anche la FCC, l’associazione dei corrispondenti stranieri, ha condannato i crescenti atti di violenza della polizia contro i giornalisti che si occupano delle proteste. «Gli assalti ai giornalisti stanno diventando più gravi, minando la capacità dei media di svolgere il proprio lavoro e l’impegno di Hong Kong nei confronti della libertà di stampa», scrive l’associazione in una dichiarazione sul suo sito ufficiale. «La FCC esprime grave preoccupazione per i numerosi resoconti di testimoni oculari e riprese video ampiamente diffuse che sembrano mostrare agenti di polizia che spruzzano spray al peperoncino a distanza ravvicinata su numerosi giornalisti e fotografi, a due giornalisti direttamente negli occhi».
Le ripetute segnalazioni di violenze da parte della polizia su manifestanti e giornalisti sono diventate troppe per essere ignorate dal governo di Hong Kong e dalla comunità internazionale. Con l’intensificarsi delle proteste, la polizia ha sempre più usato cannoni ad acqua, lacrimogeni, proiettili di gomma, praticato gravi percosse per reprimere le proteste e inseguito i manifestanti in aree residenziali, stazioni della metropolitana e persino moli dei traghetti. È vero, allo stesso modo alcuni dimostranti hanno lanciato bombe molotov contro la polizia, vandalizzato e incendiato strutture pubbliche, ma ciò in nessun modo può autorizzare le autorità di polizia, che rappresentano lo Stato, a esercitare abusi e violenze sui cittadini che, in ogni caso, godono di un certo stato di diritto. Lo Stato deve essere superiore al cittadino, sempre. Eppure il leader di Hong Kong e il governo centrale della Cina continentale non accennano a sanzionare questi abusi in difesa della libertà di stampa e di espressione.
Hong Kong è fragile e, al momento, non sicura. I disordini hanno ulteriormente scosso il debole equilibrio di un territorio fortemente instabile. I giovani che oggi stanno protestando per non perdere le autonomie democratiche ereditate dal lungo periodo di colonialismo britannico saranno la futura classe dirigente che assisterà al passaggio definitivo in mani cinesi e dovranno dunque farsi carico di sopportare il grande balzo all’indietro da regime semi-democratico a regime autoritario. La legge sull’estradizione, condannata perché avrebbe facilitato il trasferimento dei criminali e dei dissidenti politici da Hong Kong alla Cina, ha accresciuto il disagio psicologico e mentale dei giovani ragazzi di Hong Kong, innalzando sensibilmente il numero di suicidi. La fine della vita può sembrare un’alternativa ben più sopportabile dell’autoritarismo cinese, ma a turbare la gioventù dell’ex colonia non è solo la riconsegna alla Cina: sono anche i motivi personali, relazionali, accademici e soprattutto economici ad aumentare il senso di frustrazione e rabbia nei giovani. La protesta non ha fatto altro che acuire questa sensazione di insicurezza e impotenza sociale. I giovani manifestanti si stanno appellando alla comunità internazionale, in cerca di un supporto che in un governo non eletto e a loro ostile non possono trovare. Una richiesta d’aiuto alla democrazia occidentale, che oltre a commuoversi, dovrà saper dimostrare il proprio appoggio a chi sta lottando per la propria libertà. La protesta sta avendo un critico impatto sulla vita politica e psicologica dei giovani manifestanti di Hong Kong, i figli della crisi. Che ne sarà di loro nel 2047?