La Terra sopravviverà al cambiamento climatico. La crisi climatica è una crisi sociale e di sistema che vedrà milioni di persone costretti a lasciare la propria casa, terre coltivabili e riserve d’acqua farsi sempre più rare e la conseguente scarsità di risorse avrà un devastante impatto sulle fasce più povere della popolazione. Queste ammontano a 3,8 miliardi di persone e possiedono lo 0,4% della ricchezza globale netta. L’un per cento più ricco del pianeta possiede il 47,2% della stessa ricchezza globale. La lotta al cambiamento climatico è direttamente collegata alla lotta sulle disuguaglianze sociali, ci dice il Time.
Nel marzo 2019 sono stati in due milioni a reagire all’appello di Greta Thunberg, attivista svedese per il clima. Smuovendo finalmente le coscienze di tutti sul tema, Greta ha permesso la ribalta di un diritto, il diritto a manifestare per il pianeta, una responsabilità che mette ogni disuguaglianza da parte. Dall’hashtag #Fridaysforfuture è nato un movimento di protesta che accoglie più di centocinquanta Paesi e, nella settimana dal 20 al 27 settembre 2019, oltre quattromila eventi organizzati in tutto il mondo. La sedicenne svedese ha lasciato la scuola per dedicarsi alla creazione di questo movimento e il cambiamento climatico è ora al centro delle discussioni pubbliche e sulle prime pagine dei giornali.
Il capitalismo e le emissioni globali
I cambiamenti climatici sono, e sono stati, causati dall’uomo. Ormai è chiaro, dice la Nasa: i troppi studi comparati in nostro possesso ne sono la prova inconfutabile. Alcuni tra i più importanti sono il testo del programma internazionale Geosfera-Biosfera (IGBP) e il rapporto dell’Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC). Il primo, in particolare, ha individuato dieci parametri ambientali dello sviluppo umano e le rispettive soglie di sostenibilità: per quattro di questi dieci ambiti (il ciclo dell’azoto, l’erosione del suolo, la concentrazione di gas serra nell’atmosfera e la riduzione delle biodiversità) i limiti sono già stati ampiamenti superati, certificando la catastrofe in corso.
Un processo che occorre dall’alba della rivoluzione industriale, e che oggi coinvolge, con sempre maggiore apprensione per il futuro, una discussione complessa e partecipata sulle sue possibili soluzioni. Una discussione che è complicata perché deve mettere in comunicazione tutte le realtà sensibili alle condizioni del pianeta. E mentre da una parte si cerca di trovare un sistema nuovo che possa sostituirsi al capitalismo imperante, dall’altra si fatica a vedere oltre il proprio benessere, si parla di posti di lavoro inconsistenti per le energie rinnovabili e si preferisce negare l’allarmismo legato al cambiamento climatico.
Oltreoceano, un soggetto senza alcuna sensibilità verso il tema, strenuo sostenitore dei diritti degli industriali brasiliani, è Jair Bolsonaro, altrimenti noto come il Trump brasiliano. Più di ogni altro, egli ha dimostrato le storture di questo paradigma economico agli occhi del mondo intero e come esso possa essere influenzato dai cambiamenti climatici. Ogni Paese industrializzato (salvo gli Stati Uniti) che abbia preso parte al G7 di Biarritz, dal 24 al 26 agosto 2019, l’ha condannato duramente.
Per pulire i terreni agricoli e prepararli al pascolo delle mandrie e a un nuovo ciclo produttivo, gli agricoltori e allevatori brasiliani bruciano le terre nella stagione secca, denominata queimada. Lo fanno, talvolta illegalmente, anche l’industria mineraria e quella della soia, sicure che il fuoco sarà frenato dall’estrema umidità della foresta amazzonica. Quest’anno, però, il clima era più caldo e secco in tutto il mondo, la stagione ha portato nuovi fuochi e da aprile a settembre l’Amazzonia non ha smesso di bruciare.
Jair Bolsonaro ha definito bugie tutti i dati sugli incendi boschivi in aumento (+83% rispetto allo scorso anno) e ha contestualmente licenziato il presidente dell’associazione per la ricerca spaziale (INPE) che aveva prodotto queste cifre. Il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto di stanziare venti milioni di dollari per arginare la deforestazione, una delle cause dello spargersi degli incendi. Un progetto umanitario, che serva anche alla conservazione della cultura indigena, sembra però di difficile attuazione vista la caparbietà del presidente brasiliano. È importante far notare come il consumo della carne brasiliana sia per l’80% prodotto localmente, quindi boicottare la carne importata dal Brasile, come proposto da alcuni, ha ben poche speranze di fermare la deforestazione. Anche la soia prodotta in Brasile è responsabile della deforestazione selvaggia nell’Amazzonia. Sull’onda della guerra iniziata da Donald Trump, la Cina ha imposto dazi sull’approvvigionamento della soia proveniente dagli Stati Uniti, portando un enorme vantaggio ai produttori presenti in Brasile.
Contro la volontà generale di attaccare le industrie come quelle della carne in Brasile, emergono opinioni contrastanti secondo le quali adesso sia più importante collaborare con le grandi aziende, alcune delle quali si sono dimostrate, per volere degli investitori internazionali e del mercato, più sensibili alle politiche sulle emissioni zero. Nonostante gli ideali di Bolsonaro siano da combattere con ogni forza, i problemi legati all’eccessiva produzione industriale si riverberano in tutto il mondo e sono di difficile soluzione.
Quando si parla di fuochi, per esempio, è difficile non tenere conto del fatto che, nel 2019, intere aree dell’Alaska, della Siberia, della Groenlandia e dell’Artico sono state lasciate bruciare, poiché aree a bassa densità di popolazione. Nessuna ingerenza umana questa volta, ma tuoni e forti venti che hanno dato forza agli incendi e rilasciato ingenti quantità di CO2 nell’atmosfera, contribuendo al riscaldamento globale. Un riscaldamento che porterà certi fenomeni a comparire con più regolarità e più intensità in futuro.
In ultima analisi, immensi incendi in Angola e nella Repubblica Democratica del Congo (DRC) hanno attirato anche l’attenzione del presidente Macron, che ha promesso un piano di aiuti per l’Africa. Entrambi questi Stati basano la loro crescita sull’industria mineraria, ma le principali colture della DRC, che soddisfano la domanda interna, sono manioca, riso, legumi e tuberi. Ora, nell’impatto che le emissioni dei gas a effetto serra hanno globalmente, l’agricoltura (che sia per alimentare noi o le mandrie) e l’uso della terra per scopi industriali sono responsabili di circa il 20% delle emissioni totali. La sola deforestazione è responsabile per l’8% delle emissioni, mentre gli alberi e la loro capacità di catturare la CO2 potrebbero fare parte, per il 23 %, della soluzione ai cambiamenti climatici. Per questa ragione, c’è un assoluto bisogno d’invertire questa tendenza e riforestare.
Il World Resources Institute (WRI) scorpora in modo netto tutte le attività umane che hanno a che fare con la produzione di gas nocivi per l’atmosfera, come il diossido di carbonio (CO2), il metano (CH4) o il protossido di azoto (N2O), quest’ultimo generato dalla fertilizzazione e coltivazione con composti azotati. La produzione di energia, a sua volta suddivisa in elettricità e riscaldamento, trasporti e industria, produce più della metà delle emissioni totali e globali. Con la popolazione in continuo aumento, nei prossimi anni la domanda di energia su scala mondiale subirà un’impennata. La scarsità delle risorse per un futuro molto prossimo accende un faro sulle decisioni che saranno prese nell’ambito della lotta al cambiamento climatico.
Giustizia climatica ed eco-socialismo
Si parla, sempre più spesso, di giustizia climatica e di come i movimenti dal basso, come quello di Greta Thunberg, possano reindirizzare l’intero sistema verso una svolta verde, seguendo le orme del Green New Deal (GND) statunitense. È indispensabile pensare globalmente a una risposta efficace ai cambiamenti climatici, perchè i tempi stringono.
La giustizia climatica sta certamente nel domandarsi quali mezzi siano a nostra disposizione, ma soprattutto si riferisce a quali fondi, regolamenti e processi debbano essere messi in gioco dai decisori politici. Se da una parte il capitalismo cerca di indirizzare il sistema verso tecnologie che permettano di rimuovere artificialmente i gas inquinanti dall’atmosfera, tale prospettiva è di difficile attuazione se si vuole restare nei tempi previsti dall’accordo di Parigi. Tale approccio al cambiamento climatico, inoltre, è una contraddizione in termini: senza una riduzione della produzione lo sviluppo di queste tecnologie richiederebbe enormi quantità d’investimenti che consumano energia, quindi nuove emissioni di CO2.
Tornando a parlare di giustizia climatica, per alcuni la transizione dovrebbe essere a carico dei più ricchi, delle classi agiate, poiché in parte ritenuti colpevoli dell’inquinamento che deriva dalla sovrapproduzione di beni. Un nuovo articolo intitolato Misurare l’impatto ecologico della ricchezza: consumi eccessivi, disorganizzazione ecologica, crimini verdi e giustizia, pubblicato dai ricercatori Michael J. Lynch, Michael A. Long, Paul B. Stretesky e Kimberly L. Barrett, analizza in profondità il ruolo delle abitudini di consumo dei ricchi nel contesto del cambiamento climatico. Nell’articolo si misura l’impatto climatico dei super-yacht, delle super-ville, delle auto di lusso e, infine, dei jet privati. L’intera flotta di jet privati statunitensi produce più del doppio delle emissioni di carbonio prodotte dall’intero Burundi, per citare un esempio del suddetto studio.
E mentre si avanza l’idea di istituire crimini verdi che possano frenare gli eccessi, alcuni collettivi provano a immaginare un futuro differente, basato su nuovi sistemi di produzione, che agiscano a livello locale. Kali Akuno, cofondatore e direttore esecutivo di Cooperation Jackson, in un’intervista a Jacobin illustra come un piccolo movimento di agricoltori si batta per un’economia solidale e dal basso nello Stato del Mississippi. Ribadendo la necessità di una disobbedienza civile di massa contro le multinazionali petrol-chimiche, è importante collaborare con il mondo dei sindacati, tradizionalmente scettici sulla possibilità di una riconversione ecologica dei rapporti lavorativi, e farlo creando un movimento internazionale che si faccia promotore del cambiamento. Egli ci ricorda come la disobbedienza civile, negli anni Sessanta e Settanta, portò movimenti ecologicamente orientati a forzare l’amministrazione Nixon ad alcune delle più importanti legislazioni in materia d’ambiente, come l’Endangered Species Act o la costruzione dell’Environmental Protection Agency (EPA). La sfida, ci spiega Kali Akuno, consiste nel capire come produrre più cibo sfruttando meno terra e senza ricorrere a modificazioni genetiche. «Per farlo dobbiamo modificare gli spazi urbani e renderli “fattorie viventi”, adatte a soddisfare i nostri bisogni calorici».
Inoltre, strutturare il lavoro in modo da essere equamente redistribuito è alla base di una radicale socializzazione delle risorse e dell’economia in generale. Idee che sono circolate anche al primo Climate Camp di Venezia, dal 4 all’8 settembre 2019, dove un capitalismo verde non viene ritenuto auspicabile. L’unica strada verso una riconversione ecologica efficace deve avvenire all’insegna della giustizia sociale, riconoscendo le responsabilità dei Paesi più inquinanti sul cambiamento climatico e la possibilità per i Paesi più poveri di accedere a fondi per l’innovazione tecnologica dei processi produttivi e la preservazione delle biodiversità.
Su un approccio più olistico al problema climatico si è discusso il 3 luglio 2019, alla Commissione di Esperti di Alto Livello (HLPE) per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione, organizzato dal Comitato per la Sicurezza Alimentare Mondiale (CFS). Si è parlato dell’agroecologia e di tutte quelle pratiche agricole innovative che possano contribuire a ridurre la fame nel mondo e la malnutrizione, lavorando parallelamente agli obiettivi a lungo termine per la riduzione delle emissioni inquinanti. L’agroecologia è innovazione e partecipazione, un approccio locale e sostenibile all’agricoltura tramite l’introduzione di principi generici a seconda delle diverse realtà, sfruttando queste diversità per preservare l’identità biologica dei paesaggi e contrastare lo spreco alimentare. Infine, l’agroecologia si pone come processo collaborativo e partecipativo che difenda i diritti dei piccoli agricoltori e dei contesti locali in questa nuova transizione ecologica.
Un Green New Deal, che sia in Italia, negli Stati Uniti o in qualunque altro Paese, dovrà affrontare questa sfida tenendo conto di come viene immagazzinato, trasportato e consumato il cibo, andando a incidere ecologicamente sulla produzione del nostro fabbisogno energetico. È importante lasciare ampio margine alla sperimentazione, una sperimentazione che rompa intenzionalmente il potere dei monopoli e crei nuovi incentivi per una produzione non orientata o legata al profitto.