Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale si è finalmente espressa su un particolare caso che ha visto coinvolto Marco Cappato. Tale fatto ha in realtà fatto molto discutere sia, appunto, per il protagonista, Marco Cappato, che non si è mai sottratto alle proprie responsabilità, sia per un altro soggetto coinvolto: Fabiano Antoniani, noto ai più come Dj Fabo. La rilevanza di una simile pronuncia e l’interesse generale che l’intera vicenda ha suscitato hanno portato la Corte a emettere un comunicato stampa nonostante, al momento, non sia ancora stata resa pubblica la sentenza completa.
L’intervento della Corte Costituzionale, a partire dal ridotto contenuto che un comunicato stampa può offrire, ha già invero tutte le caratteristiche per definirsi storico poiché lascia trasparire la determinazione o, che dir si voglia, il coraggio dei magistrati nel segnare alcuni punti fermi in un campo dove il potere legislativo arranca. Il tema centrale dell’intera vicenda infatti, quello del fine della vita, è un campo estremamente delicato che divide la pubblica opinione e rischia, da un punto di vista strettamente politico, di minare il consenso elettorale qualunque sia la posizione adottata. Tuttavia, prolungare ulteriormente l’incertezza su determinati temi rischiava di riverberarsi unicamente sui soggetti che, coscientemente, scelgono di giungere a una simile conclusione, o meglio, sui loro familiari e amici.
Al fine di comprendere meglio la presa di posizione della Corte Costituzionale occorre ripercorrere, seppur brevemente, il reato di istigazione al suicidio e l’iter della vicenda giudiziaria che ha coinvolto Marco Cappato.
Il delitto di istigazione al suicidio
L’atto del suicidio, di per sé, non costituisce una forma di reato o, meglio, è stato ormai depenalizzato in ogni Stato moderno quantomeno dal diciannovesimo secolo. Certamente, infatti, al di là del significato religioso di un simile gesto, totalmente irrilevante nella ferma laicità del diritto, diversi problemi si ponevano anche in tema di perseguibilità del colpevole, specialmente se questo era riuscito nel proprio proposito. Diverso, invece, è il delitto di istigazione al suicidio previsto attualmente all’articolo 580 del codice penale. Il bene giuridico tutelato da questa norma è, appunto, la vita. Il precetto penale in sé, invece, sanziona contemporaneamente due diverse condotte di chi interviene nella sfera giuridica altrui comportando come conseguenza di tale intrusione il suicidio della vittima. In un’unica norma, infatti, la legge sanziona chi, con il proprio intervento, instaura, incita o alimenta un proposito suicida già preesistente nella vittima. L’altra condotta rilevante, poi, è quella di chi solo materialmente facilita l’esecuzione della morte. A chiusura, sono previste particolari circostanze aggravanti che si traducono in un aumento della pena nel caso in cui la vittima sia particolarmente vulnerabile e ciò in quanto di minore età, sotto effetto di stupefacenti o alcolici o, ancora, inferma di mente. La pena prevista per le due condotte distinte è la stessa ed è qui, in particolare riferimento alle ipotesi come quella oggetto di analisi della Corte Costituzionale, che si annida il problema. L’istigazione al suicidio prevede un’intrusione nella sfera cognitiva del soggetto, alimentando o creando un proposito precedentemente inesistente o mite. L’assistenza al suicidio, invece, consiste nella facilitazione favorendo uno strumento oppure un luogo. Nei casi di assistenza al suicidio simili a quello in esame, comunque, parrebbe applicabile la seconda ipotesi anche se, in concreto, l’intervento di un soggetto esterno non dovrebbe essere valutato al pari dell’intromissione nella formazione della volontà di una persona dato che, qui, il procedimento mentale che porterà al gesto estremo è già valutato, scelto e cristallizzato.
La vicenda di Cappato e Dj Fabo
La sentenza in oggetto deriva dalla vicenda di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, e di Marco Cappato, esponente dell’associazione Luca Coscioni. In un tragico incidente stradale, avvenuto durante un rientro in Italia, Dj Fabo rimane tetraplegico e cieco e, nonostante diversi anni di terapie senza alcun risultato, matura in lui l’idea di non poter continuare così la propria vita coerentemente al proprio pensiero e al proprio stile di vita prima del tragico evento. Così, dopo diversi appelli allo Stato italiano e, conseguentemente, a tre rinvii sulla legge del testamento biologico, l’unica strada percorribile fu quella di recarsi in Svizzera dove, dopo la sottoposizione a una specifica visita per confermarne la volontà, Dj Fabo ha trovato pace in una clinica il 27 febbraio 2017. Ad accompagnarlo in quest’ultimo viaggio fu Marco Cappato, da sempre sostenitore dell’importanza e della necessità di normare tali situazioni anche in Italia. Il 1 marzo 2017 Marco Cappato si autodenuncia alle autorità e viene accusato, appunto, del reato previsto dall’articolo 580 c.p. di istigazione ed aiuto al suicidio. La richiesta di archiviazione da parte dei pubblici ministeri, legata alla già citata rigidità del reato rispetto alle diverse condotte e, in particolare, all’assenza di qualsivoglia valutazione circa la volontà del malato, viene respinta dal giudice per le indagini preliminari. Successivamente lo stesso imputato chiede un giudizio immediato e ciò al fine di “accelerare” i tempi circa la decisione sulla punibilità di simili condotte e sulla valenza dell’articolo 580 c.p. così come formulato attualmente. A conclusione del lungo processo svoltosi presso la Corte d’Assise di Milano, la procura richiede l’assoluzione per Marco Cappato, in quanto il suo intervento non ha influito in alcun modo nella formazione della volontà del proposito di Fabio Antoniani e, in subordine, di eccepire l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580. In questo caso la Corte d’Assise, con una lungimiranza apprezzabile, decide di rinviare la questione alla Corte Costituzionale al fine di ottenere un punto fermo in materia. In questa fase la stessa Consulta ha fissato un rinvio di un anno in modo da consentire al governo di adottare una specifica legislazione in materia; cosa che, tuttavia, non è avvenuta.
La sentenza della Corte Costituzionale
Decorso inutilmente il termine concesso al governo per intervenire direttamente con una legge ad hoc, la Corte Costituzionale si è espressa in data 25 settembre 2019 sulla punibilità della condotta del caso. Come già anticipato, non vi è ancora stata la pubblicazione della sentenza completa. Tuttavia, è possibile leggere le statuizioni della Corte Costituzionale nel dispositivo e nel noto comunicato stampa che l’ha accompagnato. La Corte, in merito alla condotta di chi assiste al suicidio un soggetto già determinato nel suo intento, ha ritenuto sussista la non punibilità ai sensi dell’articolo 580 del codice penale purché sussistano determinate condizioni. Tali elementi, dato il vuoto normativo, dovranno ricercarsi nelle disposizioni già esistenti e in particolare nella disciplina del testamento biologico prevista dalla legge n. 219 del 2017. Pertanto, non vi sarà punibilità nel caso di chi agevoli un soggetto la cui volontà si è autonomamente formata, tenuto in vita unicamente da trattamenti di sostegno vitale e la cui patologia sia irreversibile. La patologia, inoltre, dovrà essere fonte di sofferenze fisiche o psicologiche e che il soggetto reputi intollerabili. Il soggetto, chiaramente, dovrà essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Corte Costituzionale ha quindi ritenuto di subordinare la non punibilità ai sensi dell’articolo 580 al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua e alla verifica tanto delle condizioni richieste quanto delle modalità di esecuzione da parte di una struttura del sistema sanitario, sentito il parere del comitato etico territoriale. La legge 219, infatti, riconosce a ogni persona il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi assistenza sanitaria, comprese idratazione e alimentazione artificiale, sottoponendosi a sedazione continua. Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per collidere con la libertà di scelta e autodeterminazione su cui fonda tale legge, in particolare in quei casi dove, per le condizioni del malato, l’assistenza di un terzo costituisce l’unico strumento per sottrarsi, nel rispetto della propria concezione di dignità, a un mantenimento in vita lecitamente rifiutabile dal malato stesso.
La scelta di un simile rinvio, a detta della stessa Corte, si è resa necessaria per evitare possibili abusi nei confronti di persone particolarmente vulnerabili. Pertanto il giudice chiamato a decidere su casi simili dovrà in primo luogo valutare la sussistenza di condizioni equivalenti a quelle indicate dalla predetta normativa al fine di determinare se, nel caso concreto, vi sia stata o meno una lesione del bene giuridico tutelato e in particolare se la condotta dell’agente possa considerarsi offensiva della stesso.
La posizione del Giudice poteva dirsi intuibile data la natura dello specifico reato di cui all’articolo 580 c.p. che, nel complesso dell’attuale codice penale, è anch’esso una norma di ormai quasi un secolo e necessita di un adeguamento al comune sentire e ai livelli attuali della scienza medica. In merito, infatti, è opportuno sottolineare come al momento della previsione della norma penale alcune situazioni, come il mantenimento in vita di soggetti estremamente compromessi ma con funzioni vitali insufficienti, non fossero nemmeno lontanamente ipotizzabili. Occorre, ancora una volta, interrogarsi su questi particolari casi e non limitare la propria attenzione nell’empatia verso il soggetto malato come un essere “delicato” e incapace di pensare. Qualora la mente sia ancora attiva e, in piena coscienza e determinazione, la scelta sia quella di porre fine alla propria vita non è accettabile, in nessun caso, l’intrusione in un simile momento intimo e privato.
Tanto detto, si condivide in pieno quanto precisato dalla Corte in conclusione del proprio intervento: con l’auspicio di uno specifico intervento del legislatore resosi, ormai, indispensabile.