Dopo Venezuela e Perù, un’altro stato sudamericano sta facendo parlare di sé per via di violente proteste e grandi movimenti di piazza. Stiamo parlando dell’Ecuador, dove le politiche di austerity promosse dal presidente Lenín Moreno hanno risvegliato malumori così profondi da sfociare in aperta ribellione contro il governo. I tagli decisi dall’esecutivo fanno parte del piano concordato con il Fondo Monetario Internazionale, che chiede al piccolo paese latino di ridurre drasticamente la spesa pubblica entro il prossimo anno.
L’ultimo atto del braccio di ferro tra governo e manifestanti risale a ieri, con la decisione del presidente Moreno di dichiarare lo stato d’emergenza, un provvedimento d’eccezione che permette l’uso delle forze armate e una maggiore durezza nella repressione delle proteste. Per capire meglio cosa stia succedendo in Ecuador e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro abbiamo intervistato Samuele Mazzolini, ricercatore e docente di politica dell’America Latina presso l’Università di Bath, fondatore di Senso Comune e ex-consulente del precedente governo ecuadoriano.
Per iniziare, come si è arrivati alla dichiarazione dello stato d’emergenza e quali scelte del governo stanno venendo contestate?
«L’agitazione è stata indetta dai trasportatori e dai tassisti in opposizione all’eliminazione del sussidio ai combustibili. Si tratta di un sussidio storico, la cui abolizione non ha un impatto negativo solamente su coloro che hanno indetto la protesta, ma sugli strati medio-bassi più in generale. Chi circola per le strade in lussuosi Suv di certo non avrà problemi a far fronte al rincaro che subiranno benzina e diesel.
Tuttavia, sulla falsariga di quanto accaduto in Francia, la mobilitazione si è trasformata in un j’accuse generale nei confronti del presidente Lenín Moreno, coinvolgendo strati molto ampi della popolazione. Le ragioni che hanno spinto i manifestanti a riempire le strade delle città e a interrompere la viabilità di alcune grosse arterie del paese (un tradizionale metodo di lotta in Ecuador) non sono riducibili alla questione del sussidio, quella è stata la miccia che ha scoperchiato un malcontento che ormai ribolliva sotto la superficie. Quando Moreno ha constatato che la protesta montava oltre ogni previsione, è ricorso allo stato d’emergenza che gli permette di adottare misure repressive molto più pesanti».
Qual’è l’identikit dei manifestanti, quali gruppi sociali stanno scendendo in piazza contro il governo di Lenín Moreno?
«Ci sono naturalmente tassisti e trasportatori, i primi a subire le conseguenze del rincaro. Ma ormai scendono in piazza un po’ tutti: studenti, lavoratori, intellettuali. Questo è vero sia nelle grandi città sia nei centri minori. C’è la partecipazione di molti collettivi e organizzazioni sociali, dagli ecologisti alle femministe, il movimento indigeno è anch’esso tornato alla ribalta. E infine ci sono i sostenitori dell’ex presidente Correa, ormai ai ferri corti con il suo successore da parecchio tempo.
I patti con l’FMI, l’imposizione di misure di austerity e il ritorno del vecchio stato oligarchico, in parte smantellato da Correa, sono da annoverare tra le ragioni che hanno spinto moltissimi cittadini alla via della protesta di massa. Era dal 2005 che non si vedevano scene di queste proporzioni».
Il precedente governo guidato da Rafael Correa – per il quale hai lavorato come consulente politico – si era caratterizzato come uno dei più progressisti della regione, come tu stesso ricordi. Come si è arrivati allora ad un cambio così radicale?
«È stata una sorpresa per tutti. Lenín Moreno, che era stato il vicepresidente di Correa dal 2007 al 2013, era stato scelto dallo stesso Correa per concorrere alle precedenti elezioni sotto il vessillo del movimento di cui erano i due volti più visibili. Nessuno avrebbe potuto predire che Moreno avrebbe voltato faccia così velocemente e così bruscamente. Si poteva intuire che la sua linea sarebbe stata più morbida, sia nei toni, sia nelle misure, ma qui si è andati molto oltre: non solo sono tornate in piena regola le politiche neoliberiste, non solo l’Ecuador è tornato sotto l’egida degli Stati Uniti, ma al momento Correa non può rimettere piede in Ecuador per i mandati di cattura che pendono sulla sua testa. Il secondo vicepresidente di Correa (e iniziale vicepresidente dello stesso Moreno), Jorge Glas, è dietro le sbarre e dirigenti politici di ogni rango del decennio correista che non hanno fatto abiura del passato sono dei perseguitati politici. La manipolazione giudiziaria è sotto gli occhi di tutti, tanto è vero che l’Interpol ha finora totalmente ignorato le richieste dell’Ecuador di arrestare ed estradare Correa».
È legittimo pensare che parte di questa virata a destra sia imputabile a ingerenze esterne, penso in particolare alla storica inamicizia tra il governo Correa e gli Stati Uniti?
«È legittimo pensare che gli Stati Uniti non abbiano mai fatto mancare il proprio appoggio e la propria consulenza in materia, non solo all’Ecuador, ma a tutti i paesi dove si è verificata una virata a destra ed è scattata immediatamente la persecuzione politica, in un’ottica di lawfare, verso gli antichi inquilini dei palazzi presidenziali, colpevoli di aver sfidato la storica egemonia statunitense nel proprio cortile di casa. Basterà attendere il riscontro che prima o poi qualche coraggioso whistleblower ci darà da qui a qualche anno.
Ma è anche giusto che i populismi di sinistra latinoamericani riflettano sui propri errori. Nel caso dell’Ecuador, vorrà pur dire qualcosa se dopo dieci anni di governo si è scelto un successore così infido che non ha atteso se non pochissimi mesi per iniziare a smontare le politiche di Correa a invertire rotta così radicalmente. È mancato il consolidamento dell’egemonia, non si sono istituzionalizzate le conquiste politiche e sociali. Questa colpa non è attribuibile agli Stati Uniti, ma a un modus operandi che ha fatto dell’eccessiva polarizzazione politica il proprio tratto distintivo e abdicato alla pedagogia e alla costruzione istituzionale».
Cosa dobbiamo aspettarci adesso e che cosa dovrebbe fare l’opposizione per cavalcare le proteste?
«Non è facile prevedere cosa accadrà. Bisogna capire se le scene di violenza gratuita di cui ieri la polizia si è già resa responsabile avranno l’effetto di dissuadere i manifestanti o se queste saranno invece la miccia per un’intensificazione della protesta. Negli anni Novanta e Duemila, le mobilitazioni sono state l’incipit della caduta di ben tre presidenti. Tuttavia, non è detto che a capitalizzare siano la sinistra e i movimenti sociali più progressisti. Le destre, che hanno appoggiato Moreno in parlamento ma che mantengono progetti diversi dal suo, potrebbero cercare di approfittarsene. A sinistra, Correa non può più essere candidato alla presidenza e non c’è una figura del suo movimento che lo possa sostituire facilmente.
C’è oltretutto il fatto che Correa, sebbene goda di uno zoccolo duro molto consistente, crea al contempo un forte rigetto in molti settori dell’elettorato: è difficile pensare che possa spingere il proprio seguito elettorale oltre il 35%. Ci vorrebbe un patto che lo veda come co-partecipante, in veste di candidato vice-presidenziale, un po’ come è successo in Argentina con Cristina Fernández de Kirchner. Lui stesso ha accennato a questa possibilità. Resta da capire con chi può raggiungere questa intesa – in Ecuador non esiste una tradizione ampia ed eterogenea a cui attingere come il peronismo in Argentina – e se saprà mantenere il profilo giusto. Tutto questo naturalmente in vista delle prossime elezioni, che secondo il calendario avverranno nel 2021».
Il socialismo sudamericano – di cui l’Ecuador era un esempio – è stato a lungo fonte d’ispirazione per molti pensatori della sinistra mondiale. Oggi che il continente sembra virare sempre più a destra, il nostro progressismo ha ancora da imparare da quel modello?
«Da imparare si ha sempre, anche fosse soltanto dagli errori: uno di essi l’ho già menzionato. Ora, sebbene ormai un po’ lontani nel tempo e per molti versi un po’ sbiaditi, ci sono ancora tanti meriti a cui guardare e da cui trarre linfa. Attenzione qui, perché c’è sempre un lavoro di traduzione da compiere, poiché ciò che è vero là può esserlo in qualche misura anche qua, ma solo se aggiustato e filtrato dall’analisi accurata delle profonde differenze che intercorrono tra i contesti politici, economici e sociali.
Cito due cose da imparare. La prima ha che vedere con il processo di incursione politica, ossia con la costruzione di una soggettività in un contesto sulla carta sfavorevole. Un discorso di sinistra che non sia ideologicamente stereotipato e percepito come velleitario, ma che tragga vigore dalla materialità, dalle condizioni di vita dei settori medio-bassi e dagli elementi di senso comune è un discorso che può fare breccia. Aggiungo anche l’importanza di un leader capace di risvegliare le passioni politiche e dotato di un certo funambolismo che lo porta a fare costante riferimento anche a elementi extra-politici: il calcio, la musica, la propria vita. Da noi, tutto ciò è considerato tabù a sinistra. La seconda è che molto spesso si è portati a sovrastimare il potere regolatore e coercitivo dei mercati e dei paesi egemonici. L’Ecuador, un paese dollarizzato, ha rifiutato di pagare un pezzo del suo debito per poi ricomprarlo sottobanco a un terzo del valore precedente, ha espulso diplomatici statunitensi e funzionari del FMI, ha dato rifugio a un tizio di nome Julian Assange nella propria ambasciata britannica. Negli anni di Correa, l’Ecuador ha modernizzato il paese e compiuto passi da gigante nella riduzione delle disuguaglianze e della povertà.
Molto spesso, bisogna andare oltre il mantra del TINA (there is no alternative) per capire che c’è vita anche oltre le colonne d’Ercole imposte dai mercati e dal neoliberismo».
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