Dallo scorso 25 settembre 2019, grazie a una storica sentenza della Corte Costituzionale, in Italia non è più reato aiutare a morire una persona che, in determinate condizioni fisiche, voglia togliersi la vita. La pronuncia della Corte ha fatto tornare nel dibattito pubblico italiano le questioni del cosiddetto suicidio assistito, del fine vita e del testamento biologico.
Il caso
La Corte si è espressa in merito al caso di Marco Cappato, esponente dei Radicali e dell’Associazione Luca Coscioni, accusato del reato di aiuto al suicidio. Cappato, infatti, nel febbraio 2017, aveva accompagnato Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, in una clinica in Svizzera per procedere al suicidio assistito, pratica illegale in Italia. Fabiano Antoniani era rimasto tetraplegico e cieco in seguito a un incidente d’auto. Dopo una lunga malattia e dopo aver maturato la consapevolezza che la sua condizione non sarebbe potuta migliorare, aveva ripetutamente chiesto alle autorità dello Stato italiano, primo tra tutti il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di essere aiutato a porre fine alla sua vita. Ricevendo solo risposte negative, aveva deciso di recarsi nella clinica dell’associazione Dignitas in Svizzera per procedere al suicidio assistito, legale nella Confederazione Elvetica. La mattina del 27 febbraio 2017, Dj Fabo con un post sul suo profilo Facebook aveva annunciato: «Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco, grazie mille».
Era stato poi Cappato stesso a recarsi alla Procura di Milano per autodenunciarsi: così, accusato di reato di aiuto al suicidio, il 1 marzo 2017 era iniziato il procedimento penale a suo carico. Si parlava di violazione dell’articolo 580 del codice penale italiano, che prevede tra i cinque e i dodici anni di reclusione per chiunque determini altri al suicidio o rafforzi l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione. Dopo una prima fase del processo, nel febbraio 2018 la Corte d’Assise di Milano decise di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte Costituzionale il giudizio di legittimità costituzionale sull’articolo 580. In quell’occasione, la Consulta aveva però rinviato il suo parere, rimettendo la questione in mano al Parlamento che avrebbe avuto un anno di tempo per colmare il vuoto normativo in materia. Dato l’immobilismo del mondo politico e dell’organo legislativo nazionale, lo scorso 25 settembre la Corte Costituzionale ha ribadito il suo invito al Parlamento a legiferare in materia ma ha anche, nel frattempo, dato il suo parere.
La sentenza
Nel comunicato stampa – che precede il deposito della sentenza – rilasciato dalla Corte, si legge: «La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La non punibilità dell’aiuto al suicidio è però subordinata, sottolineano i giudici, al rispetto delle leggi sul testamento biologico (consenso informato, cure palliative, sedazione profonda e continua), ma soprattutto alla verifica «delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN».
Il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale
Viene chiamato in causa, quindi, il Servizio Sanitario Nazionale. Questo lascia intendere che la prestazione di aiuto al suicidio sia da considerare come una normale prestazione sanitaria a cui tutti i cittadini potranno accedere. Dunque, non dovranno nascere per forza delle cliniche private specializzate, ma tutti i cittadini avranno lo stesso diritto senza dover pagare. Il coinvolgimento del SSN potrebbe però creare anche dei problemi: saranno infatti i medici a dover verificare la sussistenza delle condizioni di salute di cui parla la sentenza e in cui sarebbe ammissibile l’aiuto al suicidio. La figura del medico svolgerebbe un ruolo di primo piano, anche se non importante come nel caso dell’eutanasia, in cui si è di fronte a una situazione diversa. Infatti, nel suicidio assistito, è lo stesso paziente a doversi auto-somministrate il farmaco letale, prescritto dal medico. Nel caso dell’eutanasia, invece, il professionista gioca un ruolo da protagonista, essendo lui stesso a somministrare il farmaco (eutanasia attiva) o a interrompere i trattamenti a cui è sottoposto il paziente (eutanasia passiva). Dunque, dato il coinvolgimento nella questione di migliaia di professionisti, le reazioni alla sentenza sono state diverse e non si sono fatte attendere. Un tema che è subito entrato in campo nel dibattito è quello dell’obiezione di coscienza. Infatti, diversi esponenti vicini al mondo cattolico hanno dichiarato la necessità per il Parlamento di prevedere delle misure che permettano agli operatori sanitari di avere libertà di scelta sul tema.
L’obiezione di coscienza in Italia
L’obiezione di coscienza è il diritto dei medici di non somministrare determinate cure ai pazienti, se esse vanno contro i loro dettami etici. Riguardando il campo dell’etica e della morale, questo concetto risulta essere assai vago e ambiguo: la stessa parola “coscienza” non permette di capire quanto un determinato comportamento sia dettato da nobili ragioni o quanto dalla convenienza del momento. Negli anni, in Italia sono state create delle vere e proprie leggi sull’obiezione di coscienza che fanno sì che, in determinati ambiti, gli obiettori non mettano più in atto un comportamento contro la legge, ma siano completamente allineati a essa. L’ordinamento italiano prevede due forme di obiezione di coscienza: per la sperimentazione sugli animali e in campo medico (per la fecondazione medicalmente assistita e, soprattutto, per l’interruzione volontaria di gravidanza).
Legge 194/78
Nel caso delle IVG, chi sceglie la disobbedienza civile non subisce alcuna conseguenza, né ha obblighi di compensazione: gli effetti della sua scelta ricadono invece sulle pazienti che decidono di interrompere la loro gravidanza. Negli anni, la possibilità da parte dei medici di violare la legge senza nessuna ricaduta personale o professionale ha fatto sì che si creassero delle gravi situazioni di abuso e diseguaglianza. Troppo spesso l’obiezione di coscienza viene utilizzata dal personale sanitario per fini puramente personali, con il rischio di limitare in modo significativo un diritto garantito per legge. Secondo i dati del Ministero della Salute riferiti al 2017, i ginecologi obiettori di coscienza sono il 68,4%, mentre gli anestesisti il 45,6%. Cifre significative, se si considera anche il fatto che la distribuzione geografica dei dati non è affatto omogenea: in Molise la percentuale di ginecologi obiettori sale addirittura al 96,4%. Non sono di certo numeri con cui si può parlare di totale godimento del diritto previsto dalla legge 194, con il rischio che spesso ci siano casi di aborti non sicuri o perfino clandestini.
Nel caso del fine vita e del suicidio assistito, è necessario dunque che, seguendo le sollecitazioni della Consulta, il Parlamento legiferi sulla questione per renderla più chiara. Inoltre, se sarà prevista la possibilità per il personale sanitario di dichiararsi obiettore, il legislatore dovrà porre in essere delle misure compensative efficaci e sufficienti a garantire a tutti un uguale diritto.