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Essere Ciro Immobile

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Andrea Braschayko

Nonostante il recente litigio con Simone Inzaghi, la stagione di Ciro Immobile sembra essere cominciata allo stesso livello delle sue precedenti con la Lazio, siglando nelle prime sette giornate di Serie A altrettanti gol – capocannoniere in solitaria – oltre a un gol decisivo nell’unica partita giocata in Europa League contro il Rennes. In campionato viaggia addirittura su una statistica di un gol o assist ogni 57 minuti, e ben nove dei tredici gol dei biancocelesti portano la sua firma. Alla soglia dei trent’anni, è all’apice della sua forma.
Da quando è arrivato a Roma nel 2016 sono già 93 le reti e 27 gli assist in 141 presenze; numeri da top mondiale del ruolo, eppure accostarlo ai nomi di Lewandowski, Suarez, Kane, Icardi, Aguero – con i quali negli ultimi tre anni si è conteso le posizioni alte della classifica per la Scarpa d’oro – suona come un’eresia, e probabilmente lo è, anche se spesso non si riesce spiegarne il perché. Le statistiche sono sicuramente dalla sua parte, ma a ogni buona prestazione e all’ennesimo gol segnato, paradossalmente, qualcosa spinge a definire l’attaccante di Torre Annunziata come incompleto, una promessa mancata, non consono a qualche tipo di canone tecnico-tattico, quasi un onesto mestierante da provincia italiana, in definitiva non al livello dei grandi palcoscenici. E quindi, cosa manca a Ciro Immobile?

In soli trent’anni, Immobile è già il sesto miglior marcatore della storia laziale.

I fallimenti all’estero

Dopo l’esplosione prima a Pescara con Zeman, Insigne e Verratti e poi col Torino di Ventura, la grande chiamata della carriera di Ciro Immobile arriva da Jurgen Klopp nell’estate del 2014. Guai però a definire quel Borussia Dortmund una grande squadra: dopo le partenze di Gotze e Lewandowski la squadra della Vestfalia è evidentemente alla fine di un ciclo, che culminerà col settimo posto in campionato e l’addio di Klopp dopo sette anni sulla panchina giallo-nera. Immobile è lo specchio della stagione della sua squadra; segna 4 gol in 6 presenze all’esordio in Champions League, ma in Bundesliga le cose vanno non altrettanto bene: solo 3 i gol in 23 apparizioni, la maggior parte da subentrato, e l’addio alla Germania dopo una sola stagione. «I tedeschi sono freddi, non c’è niente da fare: in 8 mesi che sono qua, nessun compagno di squadra mi ha mai invitato a casa sua a cena», è evidente come l’ex Torino abbia faticato ad ambientarsi alla prima esperienza fuori dall’Italia, in un paese la cui lingua era «troppo difficile».

A 24 anni una stagione «flop» (come definita dagli stessi quotidiani sportivi tedeschi) non è certo irrimediabile, e Immobile vola in Andalusia, nell’ottimo Siviglia di Unai Emery, che quell’anno avrebbe vinto la terza Europa League consecutiva. Nonostante una cultura e uno stile di vita più affine a quello italiano rispetto alla Germania, l’attaccante fa fatica a integrarsi in un gruppo molto coeso e per certi versi poco inclusivo nei confronti dei nuovi arrivati (anche l’ala ucraina Konoplyanka, sbarcato con enormi attese, lascerà Siviglia dopo pochi mesi) e dopo quattro mesi, poche presenze e ancora meno gol all’attivo ritorna nella Torino granata per strappare una convocazione da parte di Conte per gli Europei dell’estate 2016.

La dimensione perfetta

Di ritorno dal prestito dal Torino, il Siviglia decide subito di sbarazzarsene cedendolo alla Lazio, dove invece di trovare Marcelo Bielsa incontra l’allenatore che anche più di Zeman e Ventura influenzerà il suo gioco; l’intesa con Simone Inzaghi è istantanea, con 23 gol alla prima stagione e la sensazione finalmente di essere al centro di un progetto, ma senza il gravo delle responsabilità che ne deriverebbero. «In un anno è difficile che uno riesca a calarsi in una realtà grande come la Lazio, Ciro Immobile è stato bravissimo e ora non a caso è stato nominato come uno dei nostri tre capitani» dirà a fine anno lo stesso Inzaghi.

L’anno successivo è ancor più superlativo: 29 le reti in Serie A e 40 stagionali, nel 3-5-1-1 dei biancocelesti Immobile riesce a esprimere al meglio le sue qualità, anche grazie allo spazio – componente fondamentale del suo stile di gioco – che gli viene concesso sul campo. L’Immobile 2.0 di Inzaghi copre virtualmente una porzione di campo molto più vasta di altri attaccanti, che esalta la sua mobilità, partecipazione al gioco di squadra (9-10 assist a stagione sono numeri straordinari per una punta centrale) e falcata nel contropiede.
Nel modulo dell’allenatore emiliano, Immobile affina sempre meglio «quando e come correre, ricevere nella posizione giusta e col corpo orientato in maniera perfetta per la giocata successiva» rivela in un’intervista a Daniele Manusia per Rivista Undici spiegando il suo idealtipo di attaccante. «Con i ritmi di oggi è impensabile che tu riesca a stoppare la palla dentro l’area, a guardarti intorno e a calciare» continua, chiarendo come per lui la coordinazione e la rapidità d’esecuzione valgano molto più del gesto tecnico in sé: il gol al Verona di due anni fa non sarà la sua rete più bella, ma è un manifesto del calcio di Immobile.

Sembra scivolare e perdere il controllo della palla, ma anche nel momento di difficoltà sa già cosa fare per massimizzare l’azione offensiva. «Se perdi forza nelle gambe al contatto con l’avversario, non è facile giocare». Quando gli avversari lasciano spazio alle progressioni della Lazio, pochi attaccanti al mondo si esaltano come fa il 17 dei biancocelesti. Nonostante l’ultima stagione lievemente sotto le precedenti dal punto di vista realizzativo, Immobile rimane uno degli attaccanti più prolifici dei cinque migliori campionati europei, ma sembra non ancora aver superato quell’aura da “top del fantacalcio” e non del calcio reale.

Le difficoltà in Nazionale

A Roma Immobile ha dimostrato di saper rendere al meglio – come a Pescara e Torino – in un contesto di gioco costruito attorno a lui, senza però caricarlo di aspettative eccessive, in un clima il più possibile umano (perfino la sfuriata “amichevole” di Inzaghi dopo Lazio-Parma ne è un esempio) e attento alla sua individualità. Alla Lazio ha sviluppato una dipendenza oltre che tattica soprattutto emotiva rispetto all’ambiente circostante, una simbiosi che gli ha consentito con tranquillità di superare momenti difficili senza le pressioni mediatiche da grande squadra; nella Nazionale italiana, ciò, ovviamente è molto difficile.

Ciro Immobile, come Belotti, Balotelli e i vari Inglese e Lasagna, eredita in partenza il peso sulle spalle di aver “tradito” rispetto alla grande generazione di attaccanti italiani. Ridurre però le difficoltà dell’attaccante laziale in azzurro alla sola nostalgia di Vieri e Inzaghi è però parziale: il rendimento dell’attaccante in Nazionale è davvero misero se paragonato a quello in bianco-celeste. Sono solo 8 i gol in 37 presenze azzurre, l’ultimo con la Finlandia a settembre è arrivato dopo un digiuno di 2 anni e 3 giorni. Troppo, per un attaccante come l’Immobile della Lazio. Effettivamente, Immobile della Lazio è giocatore diverso rispetto all’Immobile dell’Italia.

Basta guardare al rendimento delle ultime due stagioni per capire quanto Immobile dipenda anche dalla forma e dalle intenzioni dei giocatori della sua stessa squadra. La migliore stagione (i 29 gol del 2017/2018) e la peggiore (i 15 dell’ultima) corrispondono all’ascesa e al calo di Milinkovic-Savic e soprattutto di Luis Alberto, nettamente sottotono la scorsa stagione. E ora che lo spagnolo sembra tornare ai livelli con i quali aveva sorpreso due anni fa, quattro dei sette gol realizzati da Immobile in Serie A quest’anno provengano da passaggi dell’ex Liverpool.

Con la maglia azzurra, Ciro Immobile sembra quasi un altro giocatore rispetto alla Lazio.

Nel modulo di Mancini, Immobile soffre di una claustrofobica riduzione dello spazio d’azione in campo, che limita la sua forza in progressione e contropiede, in un contesto di gioco improntato al possesso e al dominio. Oltre all’ovvia mancanza di Luis Alberto e Milinkovic in Nazionale – che fa saltare molti degli automatismi che esegue alla perfezione alla Lazio – è proprio il fatto di non essere il fulcro della squadra ciò che limita, e quasi azzera, le prestazioni di Immobile con l’Italia. Con gli azzurri è solo “uno degli” attaccanti a disposizione di Mancini, che infatti sceglie di usarlo solo contro determinati avversari, per lo più quelle che hanno un sistema difensivo più statico (le uniche quattro presenze da titolare con Mancini c.t. infatti, sono rispettivamente le due partite contro il Portogallo in Nations League e le due contro la Finlandia nel girone di qualificazione ad Euro 2020).

Nonostante alla Lazio segni più degli ExG che in teoria ha a disposizione (indice che ci troviamo comunque di fronte ad un ottimo attaccante), Immobile non è e probabilmente mai sarà per la Nazionale Italiana la punta che realizza l’unica occasione che gli viene messa di fronte (Italia-Svezia del 2017 ne è un fulgido esempio), ed è questa licenza di sbagliare e non avere troppe pressioni attorno che gli ha permesso di entrare in pochi anni nella storia della Lazio, e non di qualche top club europeo e italiano. E forse, visti i risultati, va bene a tutti così.

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