La fine dell’estate è come sempre il periodo d’oro dell’industria discografica e l’ultima grande sequenza di nuove uscite prima delle tipiche classifiche di fine anno. In questa rubrica mensile andremo ad analizzare alcune fra le uscite discografiche più interessanti, deludenti e curiose che hanno segnato il mese appena trascorso. Quali sono i dischi che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato questo settembre 2019? Andiamo a scoprirlo.
Ventiseienne di Philadelphia con già dieci anni di carriera sulle spalle, (Sandy) Alex G, pseudonimo di Alex Giannascoli, è il tipico esempio di musicista formatosi da sé tramite una sequela di EP DIY rilasciati su Bandcamp che hanno contribuito a suo tempo al crearsi una nicchia valida nel calderone del bedroom pop, fino a permettergli di cementarsi come artista di culto nell’ambiente grazie anche a importanti collaborazioni (sue le chitarre nell’album Blonde di Frank Ocean). Con House of Sugar, sua settima fatica discografica (la terza per Domino Records), Alex G decide di aprire il proprio mondo, fatto di fiabe sbilenche e suoni distorti e dissonanti, resi accoglienti dalle immancabili chitarre, alle masse, fornendo una versione di sé meno casalinga, più polished, grazie alla migliore resa di arrangiamenti e melodie. Resta l’effetto nineties, ma l’impianto fiabesco (fatto di accoglienti melodie e improvvise e oscure dissonanze) da l’impressione di entrare in un mondo parallelo: così anche brani in apparenza difficili, come Hope, dedicato ad una ragazza morta per overdose da Fentanyl, o semplicemente stralunati (Cow), riescono ad acquisire vita propria e una presenza importante.
Alex G, pur puntando ancora su una scrittura folk potente ed evocativa, con House of Sugar preferisce cementare il proprio sound e le proprie abilità produttive piuttosto che stupire sulla lunga distanza (similmente a quanto fatto lo scorso anno da Car Seat Headrest col rifacimento full band del loro primo album cult), godendo del maggiore budget concessogli dalla propria etichetta: il risultato è una raccolta di canzoni che resta meno impressa nella mente rispetto a brani passati, ma che stupisce per la capacità di trascinare l’ascoltatore in un mondo a parte e per la presenza di sfumature e spunti sonori variamente più ricchi rispetto allo standard del genere. 8/10
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Titolo bizzarro per un album di debutto: The Return è infatti il primo disco di Sampa the Great, musicista zambiana di stanza a Melbourne. Un’opera prima, sì, ma già con una grandissima consapevolezza e maturità per quella che è una delle più gradite sorprese musicali di queste 2019.
Diciannove brani per 78 densissimi minuti, in cui Sampa Tembo (questo il suo vero nome) si immerge nella tradizione della musica black per proporre un disco estremamente fresco e coinvolgente. Troviamo infatti il sontuoso arrangiamento jazzistico di Freedom(con tanto di coretti gospel e deviazioni dal sapore Motown), sample che richiamano direttamente l’hip-hop anni Novanta in Final Forme ritmiche fra l’afrobeat e il funk in Dare to Fly, solo per citare alcuni esempi: The Return è un articolato ed entusiasmante viaggio attraverso le varie evoluzioni della musica afro, dove Sampa dimostra di aver trovato la sua dimensione nonostante le preoccupazioni della amica di cui si può sentire la voce nell’intermezzo Wake Up. The Return è il frutto di quattro lunghi anni di lavoro, in cui la ricerca musicale si è mossa di pari passo con quella personale, in cui Sampa ha potuto indagare le proprie radici africane. Da questo percorso, Sampa ritrova le origini della sua cultura e, allo stesso tempo, affronta un viaggio emotivo molto variegato ma da cui esce a testa altissima. Un esordio assolutamente convincente, che lascia ben sperare per il futuro artistico di questa giovane musicista che, come suggerisce il nome d’arte, è già grande. 7,5/10
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Titolo, copertina, tutto lasciava presagire per Chelsea Wolfe un proseguimento nella spirale di violenza, questa si, sonora affrontata nei precedenti Abyss e Hiss Spun, entrambi acclamati dalla critica per la sorprendente capacità di fondere liriche folk ed enormi wall of sound di chitarre densissime e distorte, tra doom e industrial metal. La cantautrice di Sacramento, però, decide di stupire e con Birth of Violence ci regala un ritorno a quel folk intensamente oscuro delle proprie origini.
Le nuove coordinate di Chelsea Wolfe ci portano direttamente sulle strade americane. Non sono, però, strade soleggiate e distese, quanto oscure traversate notturne in deserti desolati. Sparite le chitarre elettriche, con qualche concessione nei due singoli Deranged to rock and roll, tra le migliori del disco, e The Motherload, relegate a parti ambientali ed evocative. Tracce come le precedenti, o come American Darkness e Preface to a Dream Play hanno l’importante pregio di collocarsi tra la ballad meditativa e sognante e una straniante, ma sensuale soundtrack da film horror. Picchi simili non reggono lungo tutto l’album, probabilmente rinforzati da una sensazione di straniamento dovuta alle precedenti incarnazioni della cantautrice e all’attesa di esplosioni che non avverranno (quasi) mai, se non in maniera controllata.
Sicuramente una idea rischiosa, a questo punto della carriera di Chelsea Wolfe, scegliere arrangiamenti e orchestrazioni acustiche e minimalismo laddove vi erano chitarre potentissime, una idea che potrebbe alienare molti fan, ma che ci permette di apprezzare maggiormente alcune sfumature oscure e ammalianti che rischiavano di perdersi tra le precedenti vesti della cantautrice. 7/10
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Un cognome che trasuda chitarrismo e altri tempi e references importanti per la next big thing della scena britannica. Sam Fender si presenta sulla lunga distanza con Hypersonic Missiles, album in gran parte derivato dagli EP pubblicati tra lo scorso anno e gli ultimi mesi. Non molte novità per chi ha seguito questo nome dai primi avvisi stampa, ma vale la pena parlarne: la musica di Sam Fender si pone al centro di una immaginaria linea che unisce da un lato Bruce Springsteen e dall’altro Jeff Buckley, con qualche traccia della post new wave inglese (The Smiths su tutti). Il ragazzo ci sa fare, come dimostrato anche nelle prime live session: la voce potente, le capacità chitarristiche e l’ottima intesa con la band si sentono tutte lungo l’album, con pezzi come l’omonima Hypersonic Missiles (col solo di sax alla Springsteen), White Privilege, Will We Talk e That Sound che già a un primo ascolto acquisiscono un senso in contesti live, per cantabilità e resa ritmica.
Resta solo un vago sapore di “già sentito”, in un contesto in cui già band come The War On Drugs hanno bazzicato a piene mani (e alcuni pezzi di Sam Fender, come la pur ottima Dead Boys, potrebbero entrare tranquillamente nel catalogo dei The War On Drugs) arrivando allo stato di band di culto non senza qualche difficoltà, ma le speranze per questo giovane cantante e musicista britannico restano alte e di sicuro si sentirà parlare di lui. 6,5/10
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Band diventata di culto fra gli anni Ottanta e Novanta, i Pixies non sono più stati gli stessi dopo essersi sciolti nel 1993 e riuniti nel 2004: gli ultimi due album pubblicati negli anni Dieci, ossia Indie Cindy del 2014 e Head Carrier del 2016, sono stati senza dubbio i peggiori lavori della band bostoniana. Il primo assolutamente dimenticabile, il secondo tristemente mediocre, in questi due album viene a mancare del tutto la vena più grintosa e graffiante dei primi lavori di Frank Black (o Black Francis, altro nome con cui è noto) e compagni.
Finalmente, con Beneath the Eyrie, stiamo iniziando a ritrovare alcuni degli elementi che più avevano precedentemente funzionato nella musica dei Pixies. Intendiamoci, siamo ancora ben lontani dai fasti di Doolittle o Bossanova, ma è evidente come il gruppo abbia ancora qualche asso nella manica. Black si crogiola nella sua gotica cupezza, con la voce che a tratti ricorda la vena orchesca di Tom Waits, ma gli arrangiamenti più noise sembrano sempre in un qualche modo trattenuti, come se ci fosse una vaga svogliatezza di fondo. Forse è l’assenza della bassista Kim Deal, uno dei membri portanti del gruppo fino al momento della sua fuori uscita nel 2013, che ha fatto perdere la coesione e l’ispirazione a una della band che ha segnato profondamente la scena alternativa americana degli anni ’90. In ogni caso, Beneath the Eyriemostra un passo in avanti rispetto ai suoi due più recenti predecessori e ha comunque dei momenti notevoli (On Graveyard Hille Bird of Prey, su tutti), ma i Pixies come li conoscevamo sono ancora, per il momento, un lontano ricordo. 6,5/10
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Terzo album in studio per quella che è diventata, in breve tempo, una delle più note pop star americane, per quanto all’apparenza non si direbbe: Post Malone nel suo Hollywood’s Bleeding corre coraggiosamente numerosi rischi, provando ad ampliare le possibilità della sua musica, ma non riuscendo completamente nel suo intento. Hollywood’s Bleeding è infatti un album confuso, dove non bastano l’entusiasmo e le importanti collaborazioni di cui si fregia il disco: dalla strana coppia Ozzy Osbourne e Travis Scott in Take What You Want a Young Thug in Goodbyes, gli ospiti che vengono in aiuto a Posty sono estremamente variegati e generalmente efficaci, ma nulla più.
Funziona bene il connubio pop fra rock alternativo e hip-hop/trap, ma pare evidente come manchi una visione d’insieme nello sviluppo dei brani, risultando in alcune scelte che sembrano più dettate dal caso che dà un preciso intento artistico. Sicuramente tante idee, ma poche convincenti e sviluppate fino in fondo, il più delle volte viene buttata carne sul fuoco dando l’impressione di non sapere bene né quello che si sta facendo, né dove si sta andando. A salvare il disco è la vena incredibilmente pop di Post Malone: i ritornelli sono il più delle volte vincenti grazie al loro sviluppo melodico e punto di forza di praticamente ogni traccia sul disco. Piaccia o no, Post Malone è un musicista versatile e capace, ma ciò che paga in Hollywood’s Bleeding è il voler dire troppo quando forse non si ha effettivamente così tanto da dire. 6/10
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Le recensioni di The Return, Beneath the Eyrie e Hollywood’s Bleeding sono state curate da Vittorio Comand.
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