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Populisti che odiano (chiunque) su Facebook

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Stefano Urso

Le dimostrazioni di odio e discriminazione sui social sono diventate, purtroppo, un tema all’ordine del giorno. Orde di persone imbufalite si riversano sotto a post di qualunque tipo e natura a lasciare il proprio commento intriso di cattiverie e minacce – anche di morte. Personaggi del panorama politico come Laura Boldrini, Monica Cirinnà e il neo ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova sono solo i target più noti che si sono trovati al centro di questo fenomeno. Perché centinaia di migliaia di utenti social si comportano in questo modo? Si possono indirizzare queste masse verso personaggi e argomenti specifici? Si può imputare a qualcuno la responsabilità di questo comportamento?

I social network, soprattutto Facebook, sono il luogo dove maggiormente le persone si sentono libere di poter esprimere il proprio odio. Foto: unsplash.com

Il complotto dei complotti

La comunicazione populista e sovranista si è trovata troppe volte al centro di discriminazioni di massa e dimostrazione di odio sui social network. Complici senza dubbio gli spin-doctor che sono al fianco dei leader di questi movimenti, come Steve Bannon, Arthur Finkelstein, Davide Casaleggio – prima ancora il padre Gianroberto – e Luca Morisi; rispettivamente consulenti di Trump, Orbàn, del Movimento 5 Stelle e Matteo Salvini. Questi professionisti del caos e i loro leader politici sono disposti a tutto pur di ottenere consenso e diffondere ideologie conservatrici, anche seminando odio verso target di gruppi minoritari – come gli immigrati o esponenti della politica del genere femminile.

Il metodo è semplice e accomuna gran parte degli esponenti di questa visione conservatrice:

  1. Si diffondono fake news che raccontano una realtà distorta in cui gli oppositori politici hanno alleanze segrete con migranti invasori;
  2. Si manipola la percezione dei migranti. Spesso vengono raccontati come selvaggi, con un’indole violenta e aggressiva, con intenti terroristici e immorali – come lo stupro;
  3. Si ipervalorizza il proprio gruppo di riferimento. Viene trasmessa la sensazione di essere vittima di popolazioni pronte a invadere e a deprivare i bisogni e delle necessità del popolo nativo;
  4. Si creano gruppi di supporto sui social – soprattutto facebook – dove far fluire e diffondere fake news;
  5. Si utilizzano strategie di microtargeting sui social. In questo modo si possono raggiungere elettori di ogni appartenenza politica senza apparire incoerenti;
  6. Si costruisce l’immagine del leader di riferimento per essere la fonte di una realtà ostile e – contemporaneamente – il salvatore di una guerra sociale inesistente.

Questi spin-doctor rimangono spesso nell’ombra, nascosti tra gli algoritmi e le percentuali di engagement delle piattaforme social. La loro responsabilità è ambigua, com’è ambiguo il linguaggio usato per innescare l’odio a partire proprio dai gruppi di sostegno dei leader. Nei gruppi pro-Salvini, per esempio, membri della comunicazione della famigerata “Bestia”, e Luca Morisi stesso, pubblicano post in cui si invitano i simpatizzanti a “sostenere il Matteo giusto” o ad “affilare gli artigli”. In nessuno di questi post è scritto chiaramente un invito a minacciare qualcuno di morte. Infatti una comunicazione ambigua non basta. È necessario, infatti, che ai supporter si faccia percepire la propria identità sociale, forte emozioni, e che si approfitti dell’illusione di anonimato e di mancanza di sanzioni tipico dell’ambiente social.

Da sinistra, due esempi di post pubblicati nel gruppo di sostegno ufficiale di Salvini e nella pagina di Luca Morisi.

Ladri immaginari

La chiamata alle armi sui social non basta ma è la fiamma che accende una dinamite già pronta a esplodere. Gli argomenti principali che riguardano i post pubblicati e condivisi dal team di comunicazione di questi leader spesso contengono un messaggio che riguarda l’accostamento – per nulla casuale – di personaggi di una particolare appartenenza etnica coinvolti in comportamenti percepibili come immorali e ingiusti. Possiamo avere immigrati clandestini che aggrediscono anziani fuori dalla posta, immigrati clandestini che entrano a far parte della mafia nigeriana, che bivaccano e aspettano il reddito di cittadinanza, eccetera. Le fake news, in generale, hanno il potere di raccontare una visione della realtà in cui il lettore si sente parte di un gruppo che, per colpa di un gruppo esterno, rischia di perdere i propri privilegi che si sentono propri per diritto, come, per esempio, il diritto al lavoro. Questo innesca nel lettore una forte identificazione e un’emozione fondamentale: l’indignazione.

Un esempio di discriminazione la cui comunicazione ambigua rimarca delle differenze etniche non direttamente espresse. Foto: Panorama.it

Le fake news hanno il potere di dividere il mondo in chi ci crede e chi no. Chi si trova a condividere questi contenuti si sente parte di una comunità di persone che pensano fuori dal coro, senza l’influenza di poteri forti occulti, che hanno un immenso potere e che vogliono utilizzarlo per manipolare l’opinione pubblica e distruggere il mondo giusto e nostalgico che è sempre stato.

L’indignazione – molto in voga da quando è apparso il Movimento 5 Stelle sui social – è un’emozione complessa che porta con se rabbia e vergogna. Rabbia per l’ingiustizia provata nel percepire che un gruppo “alieno” stia portando via qualcosa che appartiene di diritto; vergogna nell’immaginarsi con meno privilegi e certezze del mondo economico e sociale.

La protesta dell’odio

Quando un individuo percepisce ingiustizia per sé prova rabbia, come quando un lavoratore sente di avere uno stipendio più basso dei propri colleghi. Quando un individuo, invece, percepisce ingiustizia per il proprio gruppo di appartenenza, prova un’emozione chiamata “rabbia collettiva”. Secondo Bert Klandermans, professore di psicologia sociale applicata alla Vrije Universiteit di Amsterdam, la rabbia collettiva – scaturita dall’ingiustizia – è l’emozione specifica che guida l’azione collettiva. Vedere l’atto discriminatorio sui social network come forma di protesta può essere la chiave di lettura adeguata per comprendere il fenomeno.

Klandermans sostiene che siano indispensabili altre tre variabili da aggiungere alla rabbia collettiva: la forte identità con il proprio gruppo di appartenenza, la percezione di essere in grado di cambiare le cose come individuo – chiamata “efficacia interna” – e la fiducia nel sistema – chiamata “efficacia esterna”.

Chi sfoga il proprio odio sui social potrebbe vedere la propria azione come una forma di protesta. Foto: unsplash.com

È tutto un magna-magna

Nicoletta Cavazza, professore ordinario di Psicologia sociale presso il Dipartimento di Comunicazione ed Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, in una ricerca del 2006 individua quattro gruppi di elettori suddivisi in base alla propria percezione di efficacia interna ed esterna: i partecipanti, i conformisti, gli ostili e gli allienati. Potrebbero essere questi ultimi due gruppi i principali target dell’odio sui social. Gli “ostili” e gli “allienati” sono i due gruppi che hanno una bassa fiducia nel sistema e credono che difficilmente questo possa cambiare. È un esempio di bassa fiducia nel sistema credere che i politici, una volta giunti in parlamento, perdano il contatto con gli elettori o che esista un’élite fortemente motivata affinché non cambi nulla. Gli ostili, nello specifico, hanno la particolarità di percepire di avere le capacità per cambiare un sistema in cui non hanno alcuna speranza che possa cambiare. Ecco perché potrebbero avere più probabilità di riversare la propria frustrazione sui social.

Boom!

La crisi economica ha portato con sé la visione che il mondo in cui viviamo sia fragile, insicuro e imprevedibile. I grandi leader conservatori – e il loro spin-doctor – approfittano di questa percezione di instabilità per diffondere narrazioni di caos e disordine in cui orde di migranti sono pronti a deprivarci di ciò che abbiamo di più caro, come i valori, il lavoro e le tradizioni. Accanto propongono programmi elettorali in cui appaiono come eroi disposti a tutto pur di soddisfare la voglia di “normalità” e “buon senso” di un popolo che si sente oppresso, ma che in realtà non lo è. Innescano ciò che il popolo tiene latente – come odio, risentimento e razzismo – sui social per aumentare coinvolgimento, engagement, alimentare la teatralità e saturare l’opinione pubblica.

Utilizzando le leve giuste, questi professionisti della comunicazione tossica non rispondono a nessun codice deontologico o etico, fatturano alle spalle di una guerra percettiva che hanno causato e di cui non si prenderanno mai la responsabilità.

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Stefano Urso

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