Van Gogh in questo periodo è in voga più che mai. Dopo lo spettacolare film d’animazione Loving Vincent e l’ancor più recente Sulla soglia dell’eternità, anche il grande pubblico ha iniziato a interessarsi in maniera crescente alla vita tormentata del pittore olandese. Un’esistenza triste – come i film mettono bene in luce – di sofferenza e di dedizione, totale e totalizzante, alla propria arte.
Le cose, però, come sempre, sono più complesse di come appaiano nelle produzioni destinate alla massa. Per quanto i film sopracitati siano un tributo intenso e apprezzabile, spesso tendono a essere presi troppo sul serio dagli inesperti che, colti (giustamente) dall’entusiasmo, si creano idee sbagliate. Un esempio? Basti pensare al finale di entrambe le pellicole: omicidio. In realtà, non ci sono prove che avvalorino tale tesi perché, in generale, scarseggiano i documenti sulla vita e sulla morte di Van Gogh. È proprio da questa mancanza di riscontri effettivi che nascono chiacchiere e fraintendimenti. Essi, però, non devono portarci sulla cattiva strada, ossia sulla via dell’arbitrarietà.
Per allontanarsi da questo percorso, che procede accanto a quello della pseudoscienza, è più opportuno accogliere l’idea sostenuta dalla maggior parte degli studiosi, ossia che Van Gogh si sia suicidato.
Oltre all’ipotesi non provata di omicidio, anche per quanto riguarda il famoso episodio di automutilazione dell’orecchio, alcuni hanno finito con lo “scagionare” Vincent, attribuendone la colpa a Gauguin. In entrambe le storie, si vuole far apparire Van Gogh come un totale incompreso, come la vittima di una società sbagliata perché non alla sua altezza, come un martire della propria arte. Sì, in parte può essere vero, ma questa esasperazione non è l’unico elemento che rende avvincente il “Caso di Van Gogh”, il quale lo resta ugualmente se si legge il taglio dell’orecchio come un’azione autolesiva e la morte come un suicidio. Perché? Perché per trovare i motivi di questi gesti, ci si immerge in un mondo di ricerca particolarmente “misterioso”, ma più rispettoso della memoria del pittore olandese.
A questo punto entra in gioco la medicina. Sì, perché forse non tutti sanno che numerosi clinici hanno approfondito quella vita tormentata e quella morte tanto affascinanti e misteriose e, da abitudine, hanno formulato diagnosi. Come molti immagineranno, tra le ipotesi mediche ci sono malattie psichiatriche come il disturbo bipolare o il disordine borderline di personalità, ma anche tesi molto più sorprendenti. Patologie neurologiche, metaboliche, ereditarie, sessuali, disturbi agli occhi o alle orecchie.
Ma come ebbe inizio tutto ciò? La prima diagnosi compiuta a Vincent fu formulata quando egli era ancora in vita. Il comportamento del pittore è sempre stato bizzarro, tanto che fu a volte isolato e, anche a livello artistico, non fu particolarmente compreso dai suoi contemporanei. Si vestiva in modo strano, non badava ai beni materiali, era appassionato, ma anche imprevedibile e violento. Nonostante ciò, Van Gogh finisce sotto l’occhio clinico dei medici abbastanza tardi, ossia in seguito al già citato episodio del taglio dell’orecchio. Per chi non lo ricordasse, il 24 dicembre 1888, in seguito a un feroce litigio con Gauguin – trasferitosi ad Arles nella Casa Gialla assieme al pittore olandese – Van Gogh si taglia l’orecchio sinistro (o una parte di esso) e lo fa recapitare a Gaby, una prostituta o presunta tale. Vincent viene trovato svenuto da un amico del posto e passa qualche tempo nell’Ospedale di Arles curato dal giovane Dottor Rey, che formula la sua diagnosi, la prima ufficialmente espressa, cioè quella di epilessia. Tale ipotesi sarà poi ripresa dall’altro medico che tratterà Van Gogh durante il ricovero a Saint-Remy, cioè il Dottor Peyron. Soppiantata da altre tesi, ritorna in voga in tempi più recenti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, tramite l’eminente neurologo francese Gastaut. Lo studioso, grazie alla strumentazione più precisa e in seguito a numerosi studi, trova una somiglianza tra i sintomi e i comportamenti di Vincent e quelli dei propri pazienti.
Nel frattempo altre diagnosi sono state formulate e tra i promotori di una di esse c’è il grandissimo filosofo e psichiatra Jaspers. Lo studioso tedesco, infatti, scrive una serie di patografie dedicate alla schizofrenia, dai risvolti metafisici, raccolte in Genio e follia e, in una di esse, si occupa, in maniera intensa e appassionata, del pittore olandese. A livello medico, forse, la tesi di Jaspers non è tra le più potenti e, in effetti, si esaurisce in fretta, ma è comunque interessante perché dimostra come un problema “medico” possa portare a risvolti filosofici e di ampissimo respiro.
Restando sul fronte psichiatrico, nel momento in cui iniziano a diffondersi a macchia d’olio i disturbi dell’umore, ecco che Van Gogh sembra rientrare perfettamente nel quadro dell’antica psicosi maniaco-depressiva (oggi disturbo bipolare). Allo stesso modo, in tempi più recenti, si è giunti a collegare il comportamento bizzarro di Van Gogh con uno dei disturbi di personalità, quello borderline.
Forse tali ipotesi non sorprenderanno, come anche quella per cui Vincent potesse aver avuto la sifilide: è risaputo che il pittore fosse “folle” e che si dedicasse a una vita bohemienne. Immergendosi, però, negli studi sulla malattia dell’artista, si finisce con l’incontrare tesi decisamente più imprevedibili e spaesanti, che sottolineano la presenza di disturbi principalmente fisici, come il glaucoma o la Sindrome di Ménière. Le due diagnosi sono state assimilate, nonostante la differenza, perché, oltre a essere entrambe legate a un organo sensoriale, sono, di frequente, basate su alcune particolarità dello stile del pittore olandese. Insomma, per questi medici, quel tratto così originale non era del tutto voluto, ma era frutto o, per meglio dire “sintomo”, di qualche problema organico. E se Vincent avesse avuto una visione oscurata dovuta al glaucoma e avesse usato per tale motivo quei colori estremamente luminosi? E se, invece, quelle particolari linee curve che sembrano fremere sulla tela fossero dovute a vertigini causate dall’invalidante patologia dell’orecchio conosciuta come Sindrome di Meniére?
L’elenco delle diagnosi non finisce qui, ma include anche avvelenamenti e intossicazioni: ci sono quelle da alcool o da terpeni, legate al grande uso che Vincent faceva dell’assenzio, bevanda che allora veniva considerata “letale”; quella da piombo, che lo accomunerebbe a molti altri artisti come Michelangelo o Goya; ma anche quella da digitale, forse somministrata dall’ultimo medico, il dottor Gachet, per il suo largo impiego in omeopatia.
Infine, troviamo tra le ipotesi anche la porfiria acuta intermittente, una malattia metabolica piuttosto rara e ereditaria che causa anche problemi neurologici e psichiatrici.
Il parziale elenco di ipotesi qui riportato non serve per tediare chi non è interessato all’argomento, né per scontentare studiosi e medici che vorrebbero invece saperne di più, ma solo per dare un’idea di quanto possa essere complesso il cosiddetto “Caso di Van Gogh”, che, come spesso accade, è stato preso di mira da chiacchieroni e faciloni, cioè da coloro che parlano troppo e a vanvera o da quelli che, invece, tendono a ragionare tramite facili slogan. Questi ultimi riducono e volgarizzano i problemi di Vincent con la classica frase “Van Gogh era pazzo”, che, di per sé, significa tutto e niente. Questo perché le malattie mentali, ad esempio, non sono considerate alla stregua delle altre e sono spesso viste come capricci o stranezze. Accanto a queste banalizzazioni, allo stesso tempo, si sono diffuse storie di ogni tipo, che hanno reso la figura di Vincent sempre più sfumata e lontana.
Lo sforzo dei medici nel diagnosticare la malattia del pittore olandese, invece, è stato un passo importante per restituire a chi entra all’interno di questi studi – che sia da “profano” o da “esperto” – l’uomo Van Gogh nella sua concretezza. Sì, le singole ipotesi tendono, spesso, al riduzionismo, ma l’insieme della letteratura medica che si è occupata del caso, invece, ha il merito di farci intravedere davvero questa figura oramai leggendaria attraverso un’inaspettata e appassionata analisi.
Ad ogni modo, come fa capire uno dei clinici coinvolti in tali ricerche, il “genio” di Van Gogh è qualcosa di più complesso: non è legato solo all’influenza di una sostanza chimica o a lesioni dei lobi; non c’entra esclusivamente col carattere, il comportamento e l’eccentricità preesistente sbandierata da psicologi o psichiatri. L’arte è straordinaria proprio perché “sfugge”: per sua stessa essenza sfida la morte. E, se ci si riflette, è quello che fa anche la medicina stessa.
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