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Cosa ne sanno a Strasburgo della mafia?

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Luigi Bonarrigo

Il 9 ottobre 2019 la Corte europea dei diritti umani (CEDU) ha invitato l’Italia a rivedere le sue norme in materia di ergastolo ostativo, dichiarando come l’istituto sia contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. Ma in cosa consiste esattamente l’ergastolo ostativo?

L’ergastolo ostativo fu istituito nel pieno della crisi mafiosa degli anni Novanta, dopo i brutali assassinii dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che minarono le fondamenta e il cuore dello Stato italiano. L’istituto è regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) e chiarisce come le persone condannate per alcuni reati particolarmente gravi, quali mafia o terrorismo, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” né alle misure alternative alla detenzione: i condannati per questi delitti non potranno usufruire dell’accesso alla liberazione condizionale, ai permessi-premio, alla semilibertà né al lavoro all’esterno.

Anche chi viene condannato all’ergastolo, per la legge italiana, ha diritto ad alcuni benefici e può godere di permessi-premio. L’ergastolo ostativo è, appunto, l’eccezione a questa norma generale, dato che vieta il concedimento al condannato di alcun tipo di beneficio a meno che non collabori con la giustizia. Proprio in questo sta il carattere eccezionale dell’istituto, caratterizzato da un profilo soggettivo particolare. L’ergastolo ostativo viene chiamato spesso “fine pena mai”: tra i casi più noti, si ricorda quello del boss di Cosa Nostra Salvatore Provenzano.

L’attentato che costò la vita al magistrato antimafia Giovanni Falcone.

Perché questa disposizione è così importante? Perché fu ciò che fece sbocciare la stagione dei pentiti e andò a demolire, assieme a tutte le disposizioni sul carcere duro dell’articolo 41-bis del codice penale, quella che era sempre stata una certezza, per la mafia: che la prigione fosse un mero periodo di villeggiatura. Il carcere di Palermo era addirittura noto come Grand Hotel Ucciardone. Don Masino Buscetta, reclusovi e ancora molto lontano dal pentimento, ottenne che il matrimonio della figlia si svolgesse nella cappella del penitenziario. Michele Catalano, figura di spicco di Cosa Nostra e del clan Lo Piccolo, festeggiò all’interno dello stesso carcere la sua festa di compleanno, con tanto di tavola imbandita nella sala della palestra. Per il catering non vi furono problemi: se ne occupò uno dei migliori ristoranti cittadini, che non mancò di procurarsi l’opulenta quantità di aragoste richieste per l’occasione.

La sentenza della Grande Chambre della Corte Europea ha puntato il dito contro la “durezza” di questo istituto, ritenuto incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo. Per la Corte, infatti, è palese la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”. Il concetto stesso di dignità umana contenuto nell’articolo vieta di privare le persone della propria libertà senza garantire loro, allo stesso tempo, la possibilità di poter riacquistare, un giorno, tale libertà.

I giudici di Strasburgo, però, hanno mai ascoltato le parole di Giovanni Falcone? Per il giudice siciliano, infatti, la mafia non è crimine, non è un qualcosa da cui si può uscire. O redimersi. «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi». La mafia è uno status, non c’è riabilitazione che tenga. E non è un caso se proprio il nostro ordinamento, l’unico, per forza di cose, così fermo e deciso nel contrasto al fenomeno mafioso, si sia scoperto utilissimo anche nell’ambito della lotta al terrorismo islamico. Perché, in fondo, mafia ed estremismo religioso condividono lo stesso terreno di coltura: non sono nient’altro che devianze ideologiche.

Ma proprio per questo motivo è impossibile uscirne ed è ancora più difficile riabilitarsi, come vorrebbe la Corte. «Un capomafia rimane tale per tutta la vita», ha affermato in un’intervista Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro in prima linea (e sotto scorta) contro la mafia dal 1989. Anche se è detenuto da decenni, anche se è vecchio e malato, anche se è paralizzato in sedia a rotelle, l’unica forza di un capomafia è la sua omertà, il suo silenzio. Silenzio che si può cercare di scalfire solamente privando il mafioso di ogni possibile scappatoia, ogni possibile via di fuga più facilmente accettabile del collaborare con lo Stato.

Non è la prima volta che l’Europa si dimostra cieca di fronte ai pericoli rappresentati dalla criminalità organizzata. E poco importa se la ‘ndrangheta è un’organizzazione criminale mostruosa facilmente paragonabile a una multinazionale, con  sessantamila affiliati in trenta Paesi al mondo, divisi in circa quattrocento ‘ndrine. Fattura, studi del Ministero dell’Interno alla mano, più di McDonald’s e Deutsche Bank messe assieme. Per la precisione, ottanta miliardi di dollari, pari a circa il 3,5% del PIL italiano.

È stata costituita la Procura europea (EPPO), ma a Bruxelles si sono colpevolmente dimenticati di aggiungere tra i suoi compiti, tra frodi e riciclaggio, le indagini sulla mafia, che ad oggi restano ferme ai confini nazionali, come se non esistesse alcuna libertà di movimento di persone o capitali. Che però esiste, come la mafia sa bene. In Germania, per esempio, non esiste il reato di associazione mafiosa. Questo ne fa un rifugio sicuro, un nido che ha dato vita a una “filiale” di sessanta locali di ’ndrangheta, citando nuovamente Gratteri.

Il ristorante italiano a Duisburg, Germania, nel cui parcheggio nell’agosto del 2007 si consumò una strage legata alla ‘ndrangheta.

Non ci si può non domandare, allora, se a Strasburgo abbiano anche una minima idea di cosa sia la mafia e di cosa comporti.
Probabilmente fuori dall’Italia la mafia è un simpatico cliché da film, uno stereotipato e divertente nome per una pizza o un panino. E non una piovra che si muove nel silenzio e tutto inghiotte e distrugge. Senza contare che combattere seriamente il fenomeno vorrebbe dire ammetterne la sua presenza. Ma occhio non vede e cuore non duole: la mafia esiste solo in Italia, lo sanno tutti. E poco importa se poi le faide nostrane all’estero si declinano in vere e proprie stragi, come quella a Duisburg nell’agosto del 2007, che ha visto la morte di sei persone. Ma la mafia dal colletto bianco e con le valigette piene di soldi forse non fa paura, non terrorizza il substrato sociale. Non esiste la paura derivante dal trovarsi una macchina, un negozio, una casa bruciata. O una famiglia distrutta.

E allora aspetteremo. Aspetteremo con ansia i permessi premio e i benefici concessi, tra gli altri, a Leoluca Bagarella (omicidio multiplo, traffico di droga, ricettazione, strage), Giovanni Riina (pluriomicida), Benedetto Santapaola (condannato a cinque ergastoli, coinvolto nella strage di Capaci), Michele Zagaria (boss del clan dei casalesi, ergastolo), Giovanni Strangio (ergastolo, esecutore e organizzatore della strage di Duisburg).

La verità è che non sapete quanto sangue è costata, questa legislazione, voi a Strasburgo.
La verità è che di mafia non sapete nulla, voi a Strasburgo.

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Luigi Bonarrigo

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