Dopo otto anni dall’ultimo film Poetry, il regista sudcoreano Lee Chang-dong torna con Burning. Ha conquistato molti alla 71° edizione del Festival di Cannes, tenutasi nel 2018, pur non vincendo nessuno dei premi principali (era l’anno, però, di Shoplifters come Palma d’Oro). Burning non è stato dimenticato neanche qui, nonostante la strada della distribuzione di varie opere asiatiche nel territorio italiano sia impervia: arriva infatti dopo più di un anno nei nostri cinema. Ironicamente, una conquista lenta è anche la visione di Burning stesso: giocando su numerose ambiguità, il film amplifica passo dopo passo diversi livelli di interpretazione, complice la parte thriller dell’intreccio.
Burning inizia con un’inquadratura al dettaglio su una porta: bianca, chiusa. Una porta che è all’angolo di una strada in contesto urbano, trafficato. E poco dopo il protagonista, Jong-su (Yoo Ah-in) si palesa: ancora prima che compaia dall’angolo, è annunciato dal fumo di una sigaretta. L’immagine di una porta chiusa come avvio del film è simbolica: quello che si delineerà sempre più fittamente nel corso delle successive due ore e mezza è un mistero, un’enigma, una serie di possibili spiegazioni senza che ci sia la chiave d’accesso per una risoluzione definitiva. Lo dice lo stesso Jong-su nel momento di una confessione: «Il mondo è un mistero per me». Sarà per questo, infatti, che il giovane, ormai laureatosi, non riesce ancora a incanalarsi in una via di realizzazione personale e professionale: si dà alla scrittura, ma non riesce a scrivere né ha ancora prodotto nulla. Scrittore (per intenzione), ma anche personaggio di una storia; una storia che sempre più lo possiederà. Occorre tuttavia procedere per gradi, considerando la fitta rete di significati compresenti nel film.
Jong-su svolta la strada e incontra Hae-mi, vecchia conoscenza d’infanzia. Hae-mi (interpretata da Jeon Jong-seo) lo riconosce subito, posa il suo sguardo su di lui a lungo, ma lui non la vede. Un primo momento rappresentativo per un personaggio come lei, rimasto nell’ombra a lungo e destinato a non essere mai pienamente illuminato dagli altri. Deve attirare l’attenzione su di lui, da promoter durante il turno di lavoro qual è, perché Jong-su la guardi meglio e possa rendersi conto di chi sia la sua interlocutrice. Al reciproco riconoscimento e a una pausa dal lavoro passata insieme seguirà una serie di incontri, talvolta surreali, che legheranno Jong-su a Hae-mi. Hae-mi, nello stesso giorno del primo incontro con il suo vecchio amico, gli annuncia di essere in partenza per il Kenya, ma ha bisogno di qualcuno che badi al suo gatto mentre lei non c’è. Jong-su, capitato per caso, fa proprio al caso suo. Pare una fortuna nell’attuale deserto di affetti di Hae-mi. Dopo un rapporto sessuale fugace, Jong-su attende con partecipazione il ritorno di Hae-mi, credendo che tra i due sia iniziato qualcosa di più: Hae-mi tuttavia torna dal suo viaggio con un altro uomo, Ben (Steven Yeun), un giovane ricco, un poco più grande di Jong-su. Quella che si prospetta dunque sembra la dinamica di un triangolo amoroso, ma in realtà è ben di più.
È utile non tardare a dire che Burning di Lee Chang-dong è tratto da un racconto di Haruki Murakami, Barn Burning, a sua volta un titolo che omaggia un racconto di William Faulkner. Lee Chang-dong trovò la storia di Murakami molto feconda per un progetto cinematografico: nel giro di una decina di pagine, l’autore giapponese creava un mistero la cui ambiguità rimaneva tale fino alla fine. L’intenzione del regista sudcoreano era di poter rendere giustizia a questa sospensione e alle ragioni del suo fascino, dilatandone la durata (il racconto originale conterà una decina di pagine) e rielaborandolo per le sue preoccupazioni e per il contesto del suo Paese. La fase di preparazione iniziale, infatti, era intitolata Project Rage. Lee Chang-dong voleva distaccare Jong-su dal ruolo di scrittore ormai affermato e borghese che gli aveva dato Murakami, per gettarlo in prima persona nelle profonde incertezze della generazione più giovane della Corea del Sud. La generazione dei cosiddetti millennials; coloro per cui un posto nel mondo, una realizzazione personale sono le necessità più comuni e impellenti, trovandosi nella terra di mezzo tra gli studi appena conclusi e l’esigenza di iniziare a rendersi indipendenti nel lavoro, con tutte le instabilità e precarietà del caso. «The millenials living in Korea today will be the first generation that are worse off than their parents’ generation. They feel that the future will not change significantly. Not able to find the object to direct their rage at, they fill a sense of debilitation» dice il cineasta a Variety. Non a caso in una scena – che potrebbe in effetti sfiorare il didascalico – Jong-su ascolta il notiziario alla televisione, dove si riportano dati sulla crescente disoccupazione giovanile nel Paese.
Le domande tra i personaggi sulle loro correnti attività, sulle proprie direzioni e occupazioni sono costanti: è una delle prime domande che Hae-mi rivolge a Jong-su, è una sottile provocazione costante di Ben. L’interessamento di Ben per l’attività intellettuale di Jong-su, per le sue intenzioni sul libro che sta scrivendo, portano sempre a smascherare l’immutato smarrimento di Jong-su in un gioco di potere. Jong-su dunque lavora solo saltuariamente, senza partecipazione e nel frattempo il suo progetto non sta andando avanti. Il tema dello smarrimento è pervasivo in Burning: è uno smarrimento esistenziale (Hae-mi ne è la più esplicita rappresentante), ma anche più essenzialmente emotivo, valoriale. Il percorso di Jong-su, del quale assumiamo il punto di vista nella narrazione, è il tentativo di orientarsi in spazi che sente sempre come estranei, esplorandoli, indagandone gli oggetti e costruendosi una sua versione dei fatti. Jong-su è fuori fuoco (in una scena, letteralmente) e fuori posto: specialmente nel confronto con il benessere materiale di Ben, partendo dal vestiario differente, passando per la gestualità, il temperamento goffo, continuamente vago e incerto. Le stesse conversazioni che tiene sono colme di esitazioni, di pause atte a riconfigurare il discorso. D’altronde Hae-mi e Ben possono ben confondere: da una parte c’è una donna, infatti, potentemente murakamiana, dall’altra un uomo che potrebbe prendersi gioco di lui. L’impossibilità di determinare la verità si ramifica sotto molti aspetti: la verità non solo sulla più profonda essenza dei personaggi, ma sulle loro stesse parole. Tante dichiarazioni fatte potrebbero essere sia veritiere che menzognere, o in fondo un misto delle due.
È tipicamente murakamiano, d’altronde, un protagonista (spesso maschile) che almeno in superficie rappresenta l’uomo ordinario in un contesto surreale, che gli pone spesso stravaganze a cui deve rispondere e che sempre più lo trascinano in particolari situazioni. Hae-mi infatti è murakamiana nella maniera in cui agisce fuori dagli schemi, creandosi un mondo per colmare il vuoto della solitudine. Lo smarrimento di Hae-mi infatti va dritto al significato della vita: il viaggio in Africa è la speranza un po’ naïf di trovare sé stessi in lande esotiche e remote. Tuttavia, com’era intenzione di Chang-dong, Burning è un racconto su un’ultima impotenza di questi personaggi giovani: Hae-mi non riesce a trovarsi e si abbandona in lacrime all’innagirabile senso di solitudine. Non riesce davvero a raggiungere Jong-su (né tantomeno l’indifferente Ben). Ogni uomo è un’isola, e persino i sentimenti che si pensa di coltivare per un altro potrebbero non essere come sembrano, ma solo parvenze momentanee di comunione con un altro, di unione illusoria. La possibilità di toccarsi veramente è un’impressione fugace, subito sostituitasi alla deriva e all’estraneità.
Ogni momento di bellezza transitoria è legato, ad esempio, alla luce solare: Hae-mi afferma che nel suo appartamento la luce solare si riflette raramente alla finestra, causando dunque un’ambiente perlopiù oscuro e freddo, tuttavia ritiene una fortuna i momenti rari in cui ha la possibilità di ricevere quel raggio di luce. Il raggio di luce sarà ripetutamente legato all’impressione di un calore relazionale ricevuto e allo stesso tempo all’esilità di esso e della possibilità di renderlo saldo, consistente. Il senso della bellezza si trova nella comunione e molto spesso è associato alla natura. È altrettanto significativo che Hae-mi, nelle sue stravaganze, mostri di star imparando e praticando l’arte della pantomima. Burning gioca molto, infatti, sull’invisibile e sul profondo desiderio creatore: è Hae-mi a dire che non conta se un dato oggetto non c’è, conta la disposizione mentale a credere che ci sia e a comportarsi, muoversi, come se questo ci fosse.
Il desiderio cerca riscontri nella realtà, a partire dai bisogni affettivi dei due fino agli elementi thriller nel rapporto tra Jong-su e Ben. Un altro livello di ambiguità infatti è sul piano narrativo. Non solo in alcune determinate scene il punto di vista di Jong-su potrebbe minare l’oggettività della scena, ma gli stessi personaggi, come accennato prima, potrebbero star tessendo piccole storie senza che lui se ne renda conto. Un forte esempio di ciò è il passato condiviso tra Hae-mi e Jong-su, dove Hae-mi potrebbe star deliberatemente inventando eventi, di cui infatti Jong-su non conserva memoria. È tuttavia quel senso di condivisione, fomentato da illusioni, che fa nascere brucianti sentimenti in Jong-su; e allo stesso tempo un’inquietante confessione (o storiella) di Ben attiva incubi, ricordi modificati in Jong-su che gli sconvolgono la psiche.
Lee Chang-dong presenta sempre l’elemento dell’invisibilità negli spazi esplorati da Jong-su: ricorrente è l’assenza di tracce, una letterale sparizione, ma anche un gatto che non c’è, la prova di un evento accaduto introvabile, persino delle lacrime che non ci sono (dice Ben: «Per me è affascinante quando qualcuno piange, perché non ho mai versato una lacrima in vita mia»; e alla domanda se abbia mai provato tristezza si sposta proprio sull’assenza di tracce nell’esteriore: «Non ci sono lacrime, per cui non puoi provare che sia tristezza»), così delle fonti assenti. È invisibile la fonte di tanto benessere economico di Ben, ad esempio. Non a caso i personaggi letterari a cui è paragonabile Ben possono essere due: uno è menzionato dallo stesso Jong-su, mentre soffre invidioso nel confronto con Ben, ed è proprio Jay Gatsby de Il grande Gatsby di Fitzgerald («Lui è il grande Gatsby. [..] Ci sono tanti Gatsby in Corea. Persone misteriose che sono giovani e ricche, ma non sai mai che facciano davvero»).
Un’altra analogia con Gatsby è proprio nell’atteggiamento di Ben: una simpatia indifferenziata, una sorta di diffusa, conciliante benevolenza, ma allo stesso tempo un’irraggiungibilità di fondo. Tuttavia il mistero di Gatsby celava pur dei sentimenti nascosti, come l’amore per Daisy, ma è qui che il personaggio di Ben è diverso. Infatti il secondo paragone possibile è con Patrick Bateman dal romanzo American Psycho di Bret Easton Ellis. Dietro alla maschera di Ben forse non c’è nulla, perché è pura superficie. Il senso più forte del paragone è proprio nella comune perdita di autenticità affettiva, la suprema indifferenza a tutto travolta dal materialismo, da un culto dell’esteriore e da una personalità (forse) spostata. «Farei di tutto per divertirmi», dice Ben: tutto è disponibile, non ci sono limiti («Io sono qui e sono anche in Africa») né dunque reali valori. Lo smarrimento della generazione ritratta da Lee Chang-dong è anche il nichilismo di Ben: non solo offre una visione della natura sostanzialmente neutra e al di là di ogni morale, contraria al rispecchiamento emotivo e affettivo degli altri due ragazzi (e che, in fondo, potrebbe prevalere), ma la diversità è ben più lampante nel contesto economico. Da una parte vi è l’impotenza di chi è in condizione economica svantaggiata, dall’altra un senso di onnipotenza di chi gode invece di tanti privilegi.
Ben gode nell’appropriarsi di ciò che non è suo alla maniera dell’accumulo consumista: i rapporti con le donne sono seriali e superficiali, una assomiglia all’altra e per Ben sono ben interscambiabili (l’interscambiabilità era un tema fondamentale di American Psycho). Conserva anche (forse) per ognuna di loro un accessorio. Ben forse è persino un simbolo del capitalismo stesso: tant’è che si auto-paragona a un dio che si reca offerte sacrificali da sé. L’intento di Ben potrebbe essere distruttivo: invade gli spazi altrui, gode del rovinarli e questo si estende alla natura. Jong-su, in fondo, si sente usurpato da Ben, perché gli ha soffiato il suo interesse amoroso. E non è un caso che si possa suggerire una concezione della donna come possesso, che è comune sia a Ben che a Jong-su. Il tema della condizione femminile e del sessismo in Corea del Sud è altrettanto sentito in Burning (a dimostrazione che davvero è problematico esaurire in poco tempo tutta la significatività del film) ed è legato al concetto del corpo e dell’esteriorità.
Molto importante è anche il tema, accennato dalla dichiarazione a Variety del regista, dell’eredità dei padri. Qui entra in gioco la comunanza anche con Faulkner nel racconto Barn Burning, dove c’era un rapporto tra un figlio e un padre piromane, ma volendo anche in L’urlo e il furore, dove il sentimento della rabbia era ancora riferibile ad un discorso sull’eredità genitoriale, sullo stesso DNA (sarà un caso che Ben allora dica proprio alla madre per telefono scherzando: «Nessun problema di salute, grazia al DNA superiore»?). «Mio padre ha un problema di gestione della rabbia» dice Jong-su a Ben, e la comunanza tra padre e figlio è rintracciabile in più punti. La condizione economica precaria passa da padre a figlio: è il padre che ha rifiutato lavori più sicuri per darsi all’agricoltura in un terreno abbandonato, ed è il figlio che invece di cercare un’occupazione fissa cerca un futuro in un campo tanto incerto come quello della scrittura creativa.
La famiglia di Jong-su è chiaramente disfunzionale, con una madre assente da sedici anni e un padre con problemi relazionali. L’eredità del padre è, anche, una casa in campagna: un terreno lasciato completamente in disordine, abbandonato. E se il confronto tra classi si specifica proprio nella disparità tra Ben e Jong-su, questo passa chiaramente per il confronto tra i beni materiali, toccando un simbolo della mascolinità materialistica: sempre più frequente diventerà il confronto visivo tra la Porsche di Ben e il furgoncino vecchio e sporco di Jong-su. Più centrale però è il ritorno alla casa del padre, all’infanzia, come un ritorno in campagna: tornare alle proprie origini è un modo per abitare proprio il terreno dei genitori, finché non si palesa sul piano emotivo, quello della rabbia di Jong-su e della sua impotenza, qualcosa di impulsivo e non pienamente conscio. Jong-su torna al naturale, Ben abita lussuosamente nell’urbano.
Se l’invidia di Jong-su verso Ben è alimentata e importante, non è un caso che si palesi anche sul piano delle rispettive famiglie. Le capacità relazionali di Ben, pur potendo essere totalmente frutto di abilità di affabile mascheramento, danno sempre occasione di confronti per Jong-su: il protagonista infatti è non meno solo di Hae-mi, una solitudine coltivata nella trascuratezza, mentre l’estremo ordine di Ben non è soltanto negli spazi domestici, ma è anche nella capacità di avere una rete di relazioni senza evidenti sforzi. La sua pare davvero una vita, in sintesi, ben presentabile e ordinata. Jong-su spia Ben e guarda da lontano i suoi incontri familiari, cordiali, amichevoli: si mantiene in contatto con la madre al telefono, mentre Hae-mi e Jong-su non hanno ormai contatti significativi con i genitori.
La capacità di avere una rete di relazioni si estende anche a riferimenti politici. Ben non è chiaramente un nome coreano, ma americano. Lee Chang-dong aggiunge un livello meta-cinematografico: mentre l’attore di Jong-su (Yoo Ah-in) è una star perlopiù nazionale, non troppo conosciuto (ancora) al di fuori almeno prima di Burning, Steven Yeun, l’attore di Ben, si è fatto una carriera proprio nel cinema occidentale e perlopiù americano. Rappresenta dunque il legame del cinema coreano con quello americano, il successo crescente del primo per via dell’integrazione dei canoni del secondo, della sua capacità di perdere qualcosa della propria identità nazionale per diventare affabilmente internazionale. È un tema sentito molto, ad esempio, dal regista Bong Joon-ho, che ne ha parlato diffusamente nel monster-movie The Host.
La prima apparizione di Ben è proprio in aeroporto, di ritorno dall’estero. Così la contrapposizione tra i due personaggi e tra la campagna e città si arricchisce anche con il tema geografico, considerando che la metropoli è spesso il cuore degli affari di un Paese, mentre la campagna è associata al persistere di un carattere più remoto, di tradizioni locali. È in campagna che i tre ragazzi sentono, ad un certo punto, delle frequenze radio di propaganda nord-coreana, visto che la casa di Jong-su è proprio al confine con la Corea del Nord, un paese notoriamente isolazionista. E se Ben è l’invasore degli spazi di Jong-su, potrebbe essere interessante far presente il concetto tutto coreano di han: è una parola con cui si indica l’intensa emozione generata dalla memoria collettiva della secolare storia di invasioni e occupazioni straniere della Corea.
Com’è stato detto anche da altri, la forza di Burning sta nel contenere così tante strade interpretative e allo stesso tempo godere della sospensione di ogni cosa con estrema eleganza.
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