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Quanto pesano le nuvole? L’impatto ecologico di internet

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Alessandro Rosa

Ogni visita a questa pagina produce circa 2 grammi di CO2.

Nel corso dell’ultimo anno si è registrato un sempre maggiore interesse per le questioni legate al clima, culminato con il celebre movimento dei Fridays for Future. È auspicabile che questo si traduca in una maggiore sensibilizzazione dei cittadini e dei governi per il benessere ambientale del pianeta. Similmente ai movimenti ecologisti precedenti, il movimento dei Fridays for Future punta a convincere il singolo cittadino che ci siano tante piccole azioni quotidiane che si possono intraprendere per rallentare o evitare il declino ambientale. Si tratta di cose come preferire i mezzi pubblici alle auto, limitare i viaggi in aereo, valutare una dieta priva di carne (gli allevamenti producono una notevole quantità CO2); qualcuno propone anche di evitare di avere figli, con l’idea che se l’inquinamento pro capite non può diminuire, allora è il numero di persone a dover decrescere. L’idea generale che fa da minimo comune denominatore è quella di ridurre i propri consumi per minimizzare l’impatto ambientale e limitare il benessere personale in favore del benessere collettivo. Forse sta pian piano nascendo una generazione in grado di pensare prima al bene della comunità e solo in un secondo momento al proprio, consapevole anche del fatto che l’alternativa sembra essere una più drastica estinzione di massa. Tuttavia, c’è un elemento che sembra sfuggire alle dinamiche del discorso ambientalista odierno, qualcosa che inquina molto più di tutte le bistecche di carne del mondo. Allo stesso tempo, è qualcosa la cui rinuncia comporta una scelta ben più drastica di una dieta vegetariana. Se non lo consideriamo un ente inquinante, è principalmente perché non lo possiamo toccare fisicamente: stiamo parlando di internet e di quale impatto ecologico esso abbia oggi.

Nuvole di bit

Negli ultimi trent’anni è successa una cosa davvero curiosa. Quello che era stato inventato come uno strumento a uso esclusivamente militare, e che negli anni Novanta era diffuso al massimo tra una nicchia di nerd appassionati, si è trasformato in un elemento imprescindibile per ogni essere umano. Non solo per gli addetti al lavori, chi con i computer e la rete ci lavora, ma per qualsiasi comune cittadino, a prescindere dalla sua occupazione e, con un certo margine, a prescindere dal proprio status sociale. Quando Tim Berners-Lee lanciò il primo sito web, ormai quasi trent’anni fa, lo fece con l’idea che servisse un posto dove le persone potevano liberamente scambiarsi ogni tipo di informazione, da complicate formule di fisica quantistica alle ricette di cucina. Ed effettivamente il web, nei suoi primi anni, si sviluppò proprio con una proliferazione spropositata di pagine web concernenti una miriade di argomenti diversi (solo nel 2015 se ne contavano 863.105.652). Fino alla prima parte degli anni Duemila, però, il flusso di queste informazioni era piuttosto esiguo. Le connessioni a internet erano costose e, soprattutto, non particolarmente veloci. Trasferire file di grandi dimensioni, come per esempio film, non era un compito facilissimo; anche quando si riusciva a ottenere finalmente l’ultimo film di Steven Spielberg, in genere lo si preservava sul proprio hard disk o lo si masterizzava su un DVD. Si trattava di un’era digitale in cui l’informatica aveva ancora i piedi saldamente ancorati a terra.

Le cose cambiarono drasticamente una decina di anni fa, ed è possibile conoscere data e ora precise del punto di svolta. È il 9 gennaio 2007, il giorno in cui Steve Jobs presenta il primo iPhone. Il merito di Apple è stato di aver rivoluzionato il concetto stesso di telefono, in primo luogo grazie alla semplicità di utilizzo, ma sopratutto averlo fatto in un modo che fosse divertente e di intrattenimento, rendendo le telefonate una specie di gioco. Internet non era più quel luogo lontano dove qualche gruppo sparso di nerd si scambiava versioni modificate di Doom, ma era ormai una porta che chiunque poteva aprire. La serratura era uno strumento che poteva stare nelle tasche dei pantaloni. Tutto quello che è venuto dopo è stato il semplice sviluppo della tecnologia sulla base di questa incredibile rivoluzione mentale. Oggi buona parte della popolazione mondiale accede a internet per i motivi più disparati: controllare i propri profili sui social network, caricare i file più importanti sul cloud per usarli su più dispositivi in parallelo, guardare tonnellate di gigabyte di film e serie TV in streaming, cercare immagini di gattini per rallegrarsi, scriversi centinaia di messaggi al giorno. Anche i gruppi nerd ormai si sono ampliati e praticamente ogni telefono odierno viene utilizzato anche per giocare; presto, poi, lo streaming investirà persino il mercato videoludico. Il tutto accade senza che siano più necessari enormi hard disk per contenere tutto ciò che facciamo, vediamo o sentiamo; sono spariti anche i cavi con cui ci collegavamo alla presa del modem, annullando quel senso di analogico che per un po’ aveva pervaso la tecnologia della rete. Quando compriamo un computer possiamo smettere di preoccuparci delle dimensioni dell’hard disk, ben consci che saranno ben pochi i file che ci salveremo dentro. Che cos’è successo? Sembrerebbe quasi un trucco di magia: qualcuno è riuscito a far scomparire tutti quegli oggetti che l’informatica ci aveva abituato a pensare soggiacenti all’interno dei nostri computer. Dal mondo degli atomi eravamo passati a quello dei bit, e ora siamo riusciti a rendere questi bit immateriali e leggeri, facendoli volteggiare liberamente sopra le nostre teste.

Steve Jobs alla presentazione del primo iPhone alla MacWorld Conference & Expo del 2007. Foto: Wikipedia.

Purtroppo però le cose non stanno così. A guardare meglio, quel magnifico trucco di magia si rivela per quello che è: nient’altro che un trucco. Internet non è un’entità mistica che aleggia nell’iperuranio; piuttosto, è la somma di enormi gruppi di computer che lavorano assieme notte e giorno, e tutto ciò viene trasmesso agli angoli del globo attraverso poderosi cavi nascosti sotto gli oceani. Le nuvole di cui è fatto il cloud sono sempre costituite da circuiti in silicio, che in quanto tali hanno una consistenza non indifferente. Ora, fin qui potremmo dire che tutto sommato si tratta di una mera forma di semplificazione: all’uomo della strada non interessa sapere come funziona la rete, basta potervi accedere. Se poi il segnale del wifi arriva da un modem collegato tramite fibra ottica a un data-center o semplicemente proviene dal cielo, poco gli importa. Sennonché ci stiamo accorgendo che anche l’etereo internet e le tecnologie digitali hanno un impatto consistente sull’ecosistema. Stando a un articolo scientifico uscito a gennaio 2019, l’addestramento di una rete neurale danneggia l’ambiente circa cinque volte più del consumo medio di una macchina in tutto il suo ciclo di vita e ha un impatto diciassette volte più dannoso dello stile di vita che conduce un cittadino americano ogni anno. Sono numeri che dovrebbero subito farci riflettere perché, per aziende che puntano sulle intelligenze artificiali come Google, Microsoft e Amazon, addestramenti di questo genere sono piuttosto frequenti.  Certo, dato che si tratta di energia elettrica è sempre possibile utilizzare le energie rinnovabili, ma allo stato attuale Google, Microsoft e Amazon utilizzano rispettivamente solo 56%, il 32% e il 17% di energia rinnovabile per i loro scopi. Possiamo davvero permetterci di avere data-center grandi come intere città per affinare le nostre tecnologie, se la richiesta energetica è di questa entità? Qualcuno pensa che sì, il gioco vale la candela perché saranno proprio le intelligenze artificiali a diminuire il nostro impatto sull’ambiente, avviando un circolo virtuoso per cui un maggiore investimento oggi significa minore inquinamento ambientale domani. Ma bisognerebbe capire quale sia la soglia sotto cui è possibile premere l’acceleratore senza ritrovarci a un punto di non ritorno in termini di impatto ambientale.

Fonte: E. Strubell, et. al, 2019.

Se quanto descritto sopra rappresenta un caso molto specifico (ben poche aziende possono permettersi lo sviluppo di reti neurali di questa entità) , dobbiamo ricordarci che gli enormi data-center utilizzati dai colossi tech sono anche la spina dorsale dei sistemi che utilizziamo ogni giorno. Stanze piene di server attivi giorno e notte alimentano tutti i siti che visitiamo ogni giorno, e i più grandi di essi (Amazon, Facebook, eBay per dirne qualcuno) devono sostenere un flusso di utenti incessante. Partendo da questo assunto, la ricercatrice e artista Joana Moll ha cercato di calcolare il costo in termini di CO2 di una semplice ricerca su Google. Nonostante l’accuratezza solo parziale dei dati ci costringa a prendere i risultati (che possono essere visualizzati in tempo reale qui) con le pinze, l’effetto è piuttosto sorprendente. Facendo un calcolo basato sul consumo di CO2 per ogni singola ricerca di Google (che equivale a circa 2 grammi per ricerca), la stima proposta da Joana Moll è che le sole ricerche su Google ci costino circa cinquecento kilogrammi di CO2 al secondo. Anche se lo considerassimo un dato eccessivamente puntato verso l’alto, si tratta di una quantità non indifferente che ci costringe a riflettere sull’effettiva immaterialità di ciò che riteniamo appartenere alla sfera del virtuale. Inoltre, si tratta di un consumo legato esclusivamente a una semplice ricerca su Google, una delle attività meno pesanti in termini di banda che svolgiamo ogni giorno. Proviamo a immaginare l’ammontare di consumo di banda per lo streaming e moltiplichiamolo per tutte le persone che passano il tempo libero a guardarsi una serie TV su Netflix (senza tralasciare un’altra industria dello streaming ancora più diffusa). Provare a sommare la quantità di dati (e quindi il consumo energetico) anche solo dei principali siti internet sarebbe un’impresa al di là delle capacità umane; per farlo ci servirebbe forse un algoritmo specifico e qui sta il cuore del problema: è un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Una decrescita infelice

La decrescita felice è davvero auspicabile? Siamo pronti a mettere da parte il benessere ottenuto con fatica durante tutto il secolo scorso? Qualcuno pensa di sì, qualcuno di no, ma non siamo più nella condizione di poter scegliere. Le risorse del pianeta così come le conosciamo stanno finendo e fare affidamento solo alla tecnologia, sperando che ci fornisca una specie di arca di Noè dell’energia rinnovabile, non basta. La decrescita felice sembra palesarsi come un’opzione necessaria, ma fino a che punto sarà davvero felice? Possiamo continuare a vivere nella società moderna anche senza mangiare carne o decidendo appositamente di non fare figli. Ma possiamo rinunciare a strumenti come internet? Non si tratta solo di fare a meno del proprio smartphone o computer, ma di reinventare un nuovo stile di vita, che vada oltre le dinamiche culturali e sociali radicate nel mondo occidentale. Considerato che a nessuno piace vivere peggio degli altri, sembra che il conflitto stia diventando sempre più inevitabile. Forse è perfino troppo tardi per chiedersi quale sia l’impatto ecologico di internet: piuttosto, dovremmo cominciare a pensare a cosa fare quando il mondo come lo conosciamo non sarà più. La decrescita si preannuncia infelice e anche le classi sociali più agiate si stanno ormai erodendo, consumate dal loro status; l’unica possibilità è quella di imparare a rinunciare per non rimanere schiacciati sotto il proprio peso.

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