L’impatto dell’Atalanta con la Champions League è stato traumatico: tre sconfitte su tre, due soli gol fatti e ben undici subiti. Un’esagerazione, almeno per quello che siamo abituati a vedere in campionato. Basti pensare che, dopo i sorteggi, tutti avevamo creduto che la Dea in questo girone avrebbe quanto meno potuto dire la sua e che, a fronte delle due partite impossibili contro il Manchester City, avrebbe provato a raggiungere la qualificazione agli ottavi giocandosela con Dinamo Zagabria e Shakhtar Donetsk. Così non è stato, l’Atalanta ha replicato in Champions League la stessa attitudine che l’ha resa grande in campionato, ma è andata a sbattere contro un muro, e si ritrova ultima nel girone senza aver fatto nemmeno un punto. La squadra, però, non sembra risentirne in campionato: durante la settimana scorsa, ad esempio, è passata con naturalezza dal 5-1 subito a Manchester al 7-1 inflitto all’Udinese (vittoria più ampia della storia dei nerazzurri in Serie A). Sembrerebbe un paradosso, ma così non è. I nerazzurri hanno patito fino ad ora nel contesto europeo gli stessi difetti che invece, spesso, si trasformano in virtù in Serie A. L’Atalanta ha scelto di rimanere fedele a sé stessa anche in Champions League, e ne sta pagando il prezzo.
L’assimilazione e il funzionamento di un sistema
Secondo Niklas Luhmann, sociologo tedesco del Novecento, un sistema è un insieme di elementi collegati tra loro, autoreferenti, e funzionali ad uno scopo comune. Ogni sistema ha un insieme di regole proprie che lo costituiscono e che lo regolano: un sistema infatti non subisce modificazioni dall’ambiente esterno, al contrario è autonomo e non cambia a seconda del contesto. La teoria dei sistemi sociali di Luhmann può essere applicata – lasciando consapevolmente da parte qualsiasi pretesa di analisi filosofica – anche nel mondo del calcio, per prendere in considerazione quelle squadre che hanno costruito i propri successi sulla forza di un sistema collaudato, impermeabile agli stimoli del mondo esterno. Alcuni esempi possono essere il Brasile dei cinque numeri 10, il Milan di Sacchi, il Barça di Guardiola e, da ultimo, l’Atalanta di Gasperini.
Proprio come un sistema luhmaniano, il gruppo nerazzurro raggiunge il proprio obiettivo grazie alla messa in moto di meccanismi ben precisi, funzionali all’esaltazione del collettivo e, quindi, del sistema stesso. I movimenti di ogni elemento del sistema avvengono in modo automatico, e sono strettamente collegati gli uni con gli altri. L’aggressione con il baricentro alto a palla scoperta è funzionale al recupero palla nella metà campo avversaria, l’impostazione della manovra a turno da parte dei due trequartisti produce dinamicità in fase offensiva: uno si abbassa, l’altro dà la profondità. O ancora la scalata di uno dei due centrocampisti in posizione di difensore centrale quando la squadra attacca, che favorisce la conseguente avanzata di uno dei due marcatori nel ruolo di terzino, e tanto altro. Il sistema Atalanta risponde solo a meccanismi propri e, come detto, preserva la propria interezza anche quando cambia il contesto. Così come, in questi anni, la squadra di Gasperini ci ha dimostrato di non cambiare atteggiamento a seconda dell’avversario, inevitabilmente il gruppo ha mantenuto gli stessi meccanismi anche in Champions. In questo caso però qualcosa non ha funzionato: la partita di Manchester non si può giudicare, ma le due gare con Dinamo Zagabria e Shakhtar Donetsk hanno evidenziato alcuni difetti della macchina di Gasperini, che nemmeno lo strapotere di un sistema efficiente ha saputo attenuare.
Quando il sistema non funziona
La prima difficoltà evidente nelle tre gare europee è stata quella di non riuscire a gestire i momenti della partita. Soprattutto nella seconda gara: dopo un ottimo primo tempo in cui l’Atalanta non è riuscita a concretizzare le tante occasioni avute (sbagliando anche un rigore), nella seconda frazione i nerazzurri hanno permesso all’avversario pian piano di rientrare in partita, concedendogli prima il pareggio e, nel finale, addirittura il gol vittoria. Quando i ritmi calano, l’Atalanta stecca: lo si è visto spesso in campionato, ad esempio nella partita contro la Lazio (da 3-0 a 3-3).
In secondo luogo è bene sottolineare anche la difficoltà di questa squadra nel rispondere con personalità ai momenti decisivi. Era successo due anni fa contro il Borussia Dortmund in Europa League, a causa di un errore grossolano del portiere Berisha; poi la squadra si è ripetuta nella passata stagione prima ai preliminari contro il Copenaghen e, poi, in finale di Coppa Italia contro la Lazio. Infine la batosta rimediata all’esordio in Champions contro la modesta Dinamo Zagabria. Quando la posta in palio è diventata davvero alta, quando cioè il livello della partita – che sia stata una gara a eliminazione diretta o una finale – si è spostato su un piano di tensione superiore, i ragazzi di Gasperini hanno subito la pressione, le gambe hanno un po’ tremato e il sistema è andato in crisi. Questo perché quando è il collettivo a soffrire e i meccanismi di squadra non funzionano, c’è bisogno di individualità che facciano la differenza e delle quali l’Atalanta è carente. I nerazzurri hanno dimostrato più volte che, quando non riescono a mettere sotto pressione l’avversario e anzi subiscono il gioco altrui, se sfidati nell’uno contro uno spesso escono sconfitti. Se si analizza infatti la costruzione della squadra bergamasca, emergono evidenti carenze anche sul piano della rosa. Il reparto avanzato (esterni e attaccanti) infatti non ha nulla da invidiare agli attacchi di molte squadre europee, ma è costretto a dipendere dalla forma fisica e mentale di giocatori storicamente in bilico tra la condizione di mediocrità e quella di straordinarietà, Ilicic e Muriel su tutti. Per quanto riguarda invece la fase difensiva, la rosa dell’Atalanta ha invece evidenti lacune, colmate solo a tratti forse da De Roon e Toloi, unici baluardi di un reparto che per il resto si colloca nella media generale.
L’automazione dei movimenti, che esalta il collettivo e nasconde i difetti dei singoli in campionato, è venuta meno in Champions League, e la squadra non ha trovato nella forza dei suoi uomini la capacità di emergere. Semplicemente perché, nei singoli, l’Atalanta non è una squadra che dovrebbe stare dove sta. Proprio per questo motivo continuiamo ad ammirarla e a sorprenderci dei suoi risultati in campionato, riconoscendo la meravigliosa intesa di diversi elementi che collaborano a un obiettivo comune. Questi elementi non hanno tradito loro stessi nemmeno in Champions League, sono rimasti fedeli ai propri meccanismi invece che speculare sull’avversario. Forse, però, nel contesto europeo è necessario scendere a compromessi, adattarsi al gioco degli avversari per cercare di ottenere il risultato, soprattutto se sei all’esordio nella competizione.
L’Atalanta però non sembra esserne capace, il sistema è autonomo, impermeabile al contesto esterno. E, forse, l’unica cosa da fare è continuare ad apprezzarne la sua espressione.