Bret Easton Ellis di certo non le manda a dire. Questo già si sapeva: balzato agli onori delle cronache per una serie di tweet a dir poco provocatori, l’autore di American Psycho ha dimostrato a più riprese di non avere peli sulla lingua. E tuttavia, nella sua ultima fatica letteraria – Bianco (Einaudi 2019) – rivela una verve così irruente e spregiudicata da far sembrare i vecchi tweet infuocati degli scherzi innocenti. Ma esattamente, contro chi – o che cosa – l’autore si scaglia con tanta veemenza? È lui stesso a rivelarlo, con toni complici e al tempo stesso caustici, vagamente simili a quelli di un liceale che cerca di farsi ascoltare da tutta la classe.
Ma l’ironia tagliente – a tratti, sanguinaria – non è l’unica caratteristica dell’autore, né tanto meno dell’opera in questione. Per la prima volta nella sua carriera, Ellis si allontana da un terreno a lui familiare – quello della narrativa in senso stretto, ovvero del romanzo e (più occasionalmente) del racconto – per migrare verso un genere del tutto nuovo. “Nuovo” non soltanto per lui, ma anche in assoluto: è molto raro imbattersi in un libro che non è né un saggio, né un’autobiografia, né un memoir vero e proprio. Bianco – presentato dall’autore al Circolo dei Lettori di Torino lo scorso 21 ottobre – è tutto questo, e anche di più: è una sorta di vorticosa sarabanda di ricordi e opinioni (politicamente scorrette, ovvio) che lo rende simile a uno zibaldone di pensieri.
Pura libertà stilistica, dunque. Ma le libertà che si prende Ellis in Bianco vanno ben al di là dello stile. Uno dopo l’altro, come sagome di carta in un poligono di tiro, vanno giù tutti gli avversari; e ciascuno incarna un diverso bersaglio polemico. Il principale di questi bersagli è quella che l’autore definisce la «religione del vittimismo», ma non mancano critiche alle marionette annacquate del «post-impero» – cioè all’America post 11 settembre, ma in generale alle società occidentali degli ultimi vent’anni – e a un certo tipo di morale e di estetica che esse sembrano incarnare.
Di sicuro, osserva piccato l’autore, “un tempo” le cose andavano molto meglio. Ai bambini nati negli anni Sessanta si dava modo di cavarsela da soli, di imparare che non erano al centro del mondo – «e di sicuro non ci veniva detto quanto eravamo speciali ogni due per tre». Con una certa dose, nemmeno troppo malcelata, di nostalgia – e perché no, con un velo di retorica – Ellis rimpiange apertamente l’educazione che lui e i suoi coetanei possono fregiarsi di aver ricevuto. Tutt’altra cosa rispetto a oggi: un ragazzino degli anni Zero è vezzeggiato e incoraggiato in continuazione, quasi idolatrato dai genitori, ed è per questo che di fronte alle difficoltà della vita si trova del tutto impreparato.
E un millennial può arrivare, al limite, a suicidarsi per aver subìto atti di cyberbullismo. Una cosa del genere, secondo l’autore, trent’anni fa non sarebbe mai successa. Il punto è che un discorso simile, nell’era del politically correct, rischia di essere interpretato – e quasi sempre lo è – come una colpevolizzazione della vittima, e quindi come un abominio. In effetti, sarebbe facile liquidare le osservazioni dell’autore come la retorica spicciola di un veteroconservatore che agita il bastone rimbrottando “i giovani d’oggi”. Ma non è questo il punto.
Il punto è imparare a pensare che, forse, chi non la pensa come noi potrebbe anche avere ragione – o quantomeno che merita di essere ascoltato. È questo il punto di partenza del pamphlet – che occupa un intero capitolo – sull’«isteria della Sinistra» democratica negli Stati Uniti, successiva all’elezione del Presidente Trump. Qui, Ellis riesce a malapena a contenere il suo sdegno – tanto da cadere anch’egli, per sua stessa ammissione, in una certa isteria – nei confronti della psicosi di massa che sembra aver colpito come un virus tutti i liberal statunitensi; tanto da far accusare ad alcuni di loro malesseri fisici alla sola vista del Presidente, e tanto da essere sfociata in una campagna mediatica antisistema su tutti i social network.
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Il problema, osserva Ellis, è che questa decisa presa di posizione sembra essere sfociata in un nuovo totalitarismo: chiunque non solo appoggi Trump, ma semplicemente si limiti a non attaccarlo o a tollerarlo è mangiato vivo da una schiera di tweet e di post indignati e increduli, scagliati come dardi al mercurio dalle anime belle della sinistra figlia (e orfana) di Obama. Tutto questo, a detta dell’autore, sembra aver generato una forma di pensiero unico. Infatti, si spinge ad affermare, molti si sentono in pericolo a dire ciò che pensano pubblicamente.
Una simile degenerazione, osserva l’autore, non può che trovare spiegazione nella già citata epidemia di vittimismo radical chic. Un nuovo delirio che ci porta a pestare i piedi solo perché le cose non sono andate come volevamo. Anche qui, va detto, l’impulso di scagliare il libro contro il muro è forte: ed è forte la tentazione di interpretare le parole di Ellis come un endorsement a Trump (proprio come ha fatto la sinistra americana, che si straccia le vesti a ogni nuova uscita controversa dell’autore), nonostante egli stesso chiarisca di non averlo mai votato. Ma, anche qui: non è questo il punto.
Il punto è chiedersi: si tratta davvero soltanto di un’estremizzazione? Di una provocazione, e nient’altro? O magari questo quadro a tinte fosche della società contemporanea ha una sua ragion d’essere? In effetti, basta avere un po’ di dimestichezza con Facebook, Instagram o Twitter per rendersi conto che le enclave ideologiche esistono davvero. Note come filter bubble, queste Disneyland del consenso sono chiuse in sé stesse, filtrano gli individui in entrata e in uscita e avvolgono come una bolla chiunque ne faccia parte.
A ben guardare, si tratta dell’evoluzione digitale della cara, vecchia comfort zone: chiunque voglia avere a che fare soltanto con gente che la pensa come lui non deve fare altro che scegliersi la bolla giusta e galleggiare al suo interno come in una specie di liquido amniotico. La metafora non è casuale: è lo stesso autore a dire che l’uomo contemporaneo sembra un bambino troppo cresciuto – e che, anzi, non ha nessuna intenzione di crescere.
La conclusione di Ellis è che la prassi delle filter bubble – e quindi della caccia alle streghe nei confronti dei dissenzienti – finisce per cristallizzare le opinioni, rendendole simili a giganteschi monoliti: al posto di individui pensanti, eserciti di marionette con la casacca dell’uno o dell’altro colore. Anzi, di un colore solo: il bianco, appunto. Il colore dell’innocenza: ma è un’innocenza fittizia, che tutti cercano di autoattribuirsi facendo a gara a chi è più virtuoso. E il nero? Non esiste più: è stato messo a tacere, tanto nella politica quanto – ancora peggio – nelle arti. Tutto questo non può che produrre adulti infantili, privi degli strumenti necessari per confrontarsi con chi la pensa in modo diverso. E, in ultima istanza, incapaci di provare empatia. Con tutto ciò che ne consegue in termini personali, ideologici e soprattutto sociali.
Anche questo è un bel pugno nello stomaco. E anche stavolta è difficile tracciare una linea netta: se da un lato non si può fare a meno di notare come Bianco riesca a fotografare con spietata lucidità – e, va detto, con una buona dose di autoreferenzialità e di narcisismo – la società di oggi, dall’altro non si può fare a meno di chiedersi esattamente dove voglia andare a parare – e soprattutto, se il suo discorso possa prendere o meno una china scivolosa, o se non l’abbia già fatto. Di sicuro Ellis ha diversi punti a suo favore.
Per esempio, non si può non essere d’accordo quando, nelle pagine dedicate all’estetica (cinematografica, ma non solo) l’autore osserva come l’immediata fruibilità dei prodotti artistici – film, musica, letteratura, persino pornografia – sia di fatto sfociata in una indifferenza nei confronti dell’arte stessa. «Se tutto è a disposizione senza alcuno sforzo o narrazione drammatica di sorta, che importa se ti piace oppure no?». Un altro bersaglio ben centrato è il discorso sull’epidemia di narcisismo da social network: tutti mettiamo in mostra il profilo migliore, tutti vogliamo piacere, e questo porta infine a essere sempre meno autentici e sempre più “costruiti”. Nell’epoca dei filtri Instagram e delle scaramucce a chi fa più like, come si fa a dargli torto?
Eppure, l’amaro in bocca rimane. Bianco, in più punti, sembra toccare vette di contraddittorietà assai elevate e indulge spesso all’autocelebrazione – la stessa autocelebrazione che rimprovera negli altri. È un libro ben scritto – e ben tradotto: in fatto di Bret Easton Ellis, Giuseppe Culicchia è una garanzia – e con cui, a patto di aver mantenuto una certa onestà intellettuale, è impossibile essere totalmente d’accordo o in disaccordo. Per questo è divisivo, e per questo merita una lettura.