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Sudan: la primavera di Karthoum ha molti fiori e molte spine

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Simone Manda

Il 21 agosto di quest’anno, Abdallah Hamdok ha prestato giuramento come Primo Ministro del Sudan. Incaricato di formare un governo civile dopo la caduta di Omar al-Bashīr, il suo è il primo governo a maggioranza civile da trent’anni a questa parte. Il suo compito dovrà essere svolto per trentanove mesi di transizione verso nuove elezioni, finalmente democratiche.

Cresciuto nel Kordofan del Sud, Abdallah Hamdok ha una carriera nelle istituzioni finanziarie internazionali, dalla Banca Africana di Sviluppo in Costa d’Avorio fino al posto di Segretario Generale del Consiglio Economico e Sociale, con sede all’ONU. Ciononostante, i suoi trascorsi di militanza comunista l’hanno sempre visto in ambienti ostili al regime di al-Bashīr. Egli faceva parte di quei movimenti studenteschi che si svilupparono nelle università dagli anni novanta, proprio perché unici luoghi in cui fosse permesso riunirsi, perentoriamente con scopi apolitici.

Le sue idee e la sua carriera l’hanno spinto, nel 2018, a rifiutare il posto offertogli dallo stesso Omar al-Bashīr come ministro delle Finanze del suo governo, preferendo mettersi al servizio del proprio paese solo in caso di nuove condizioni. Solo un anno dopo, è Primo Ministro e ha davanti a sé delle sfide colossali.

Il nuovo Primo Ministro sudanese Abdallah Hamdok ha prestato giuramento mercoledì 21 agosto 2019, a Khartoum. Foto: Ebrahim HAMID/AFP.

Il nuovo ministro dell’Economia da lui scelto, Ibrahim Ahmed Badawi, è un vecchio economista della Banca Mondiale e, con lui, è incaricato del compito di risollevare un’economia al collasso, rimettendo in piedi istituzioni finanziarie distrutte e contribuendo al rilancio dei settori industriali fermi, nonché di riattivare i meccanismi sociali di accesso alla sanità, all’educazione e allo sviluppo. Dovranno entrambi lottare con un’inflazione che ha toccato il 53% nel mese di agosto, con una moneta debole e una disoccupazione galoppante. Sarà però compito di entrambi, nel segno dello sviluppo, riportare la pace all’interno dei confini sudanesi, in regioni dilaniate economicamente e socialmente dai conflitti, come il Darfur, il Kordofan del Sud, e l’area del Nilo Blu, al confine etiope.

Non a caso, la prima uscita pubblica del Primo Ministro è stata a Juba, capitale del Sudan del Sud, il 12 settembre 2019. Lì, egli ha spiegato, a favore di telecamera, le nuove linee guida del governo per raggiungere la pace nel Paese e con la frontiera sud, rilanciando in questo modo gli scambi commerciali e la libera circolazione di persone e merci. Non è mancata la discussione riguardo ai proventi petroliferi che il Sudan ha perso nel momento in cui la regione autonoma del Sud ha ottenuto l’indipendenza, nel 2011, e che hanno contribuito alla depressione economica che ha colpito il Paese negli ultimi anni.

La fine del governo di al-Bashīr e la rivoluzione dei sit-in

Il popolo sudanese ha visto molte mobilitazioni e molte sofferenze, fin dai primi momenti democratici conquistati con l’indipendenza. Per reclamare la libertà dal controllo anglo-egiziano, i sudanesi scesero in piazza, nel 1956, portando alla formazione del primo governo civile. Dopo non appena due anni, un colpo di stato rovesciò il governo democratico e portò all’instaurazione di un regime militare. Di nuovo, nel 1964, si ritornò per un breve periodo a un regime parlamentare. Nel 1969, Gaafar al-Nimeyri, colonnello dell’esercito e fervente islamista, s’impadronì del potere e lo conservò fino al 1985, anno in cui sarà destituito e sostituito dal democraticamente eletto Sadek al-Mahdi, lasciando dietro di sé una forte influenza delle fazioni islamiste negli interessi dello Stato. Nel 1989, infine, Omar al-Bashīr, coadiuvato proprio da quegli stessi gruppi islamisti, assunse il potere e instaurò nuovamente la Sharī’a nel Sudan.

Negli anni novanta, il regime si è dichiaratamente posto a capo di una repressione profonda, procedendo alla destituzione dei partiti politici, alla chiusura dei giornali, alla criminalizzazione di ogni manifestazione di protesta, fino a imporre il coprifuoco nelle maggiori città. La selezione accurata su chi potesse, o non potesse, servire il regime era svolta in modo assolutamente elitario, concentrando il potere nelle mani di pochi individui, colpendo fisicamente ogni forma di reazione e dissenso. Dal momento del suo concepimento, la dinamica delle violenze ha portato alla dispersione di ogni forma di antagonismo politico, e un esodo di massa per i civili che sono riusciti a trovare rifugio in esilio.

Manifestanti tra le strade di Khartoum, 30 giugno 2019.  Foto: Afp.

In più, il dogmatismo islamista che accompagnava il regime di al-Bashīr, poi convogliato nel National Islamic Front(NFI), ha permesso l’entrata nel Paese a flussi di estremisti musulmani (come lo fu Osama bin Laden, che soggiornò nel Paese dal 1990 al 1996, costando al Sudan delle ingenti sanzioni economiche). Allo stesso tempo, il NFI ha lavorato verso la totale arabizzazione del regime, da Nord a Sud. In questo modo, il conflitto con il Sud del Paese, a maggioranza cristiana, è stato portato su un piano ideologico-religioso, andando a inficiare rivalità che nacquero in una complessità di ragioni storiche, economiche e sociali. Questo è vero anche negli altri casi in cui le differenze etniche e le difficoltà sociali sono state focolari per rivolte e manifestazioni di protesta al regime, come nel caso del Darfur, che dal 2003 al 2010 è stato in guerra aperta contro il governo di al-Bashīr. Per le violenze, gli stupri e le uccisioni perpetrate nel genocidio del Darfur, egli è ricercato dalla Corte Penale Internazionale (CPI), che nel 2009 ha emesso un mandato di arresto a suo nome per crimini contro l’umanità.

Dai primi anni duemila al 2010, in Sudan si assiste a una relativa liberalizzazione dei partiti politici, sempre sotto il controllo del National Security Intelligence Service (NISS), ma che riesce comunque a produrre una forte mobilitazione. Quest’ultima ha sempre trovato ampio spazio in Sudan, tra i circoli universitari e i sindacati, anche se non è mai riuscita a sfociare nei suoi intenti rivoluzionari. Nel 2012 e nel 2013, una nuova ondata di proteste investe le province e la capitale Karthoum; i movimenti sociali fanno da tramite tra i giovani sudanesi e la loro voglia di cambiamento, e attraverso i social articolano i loro messaggi. Due dei movimenti che hanno attirato più partecipazione civile sono quello di Girifna (in arabo, “Siamo stufi”) e Sudan Change Now (SCN). Se le proteste di quegli anni non hanno portato alla caduta del regime, la mobilitazione ha ricoperto un’enorme importanza perché è riuscita a realizzare dei laboratori sociali che, oltre ad attrarre manifestanti da ogni regione del Sudan, hanno permesso una radicale polarizzazione delle ideologie libertarie, in perfetta antitesi all’azione securitaria e repressiva di al-Bashīr.

Nel dicembre 2018, a fronte delle politiche economiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale per risollevare la condizione sudanese, il governo decide di aumentare il prezzo della farina e questo riunisce la compagine anti-governativa e da via alle prime manifestazioni di piazza, con migliaia di persone provenienti dalle province e dirette verso Khartoum. Tale compagine riunisce numerose organizzazioni in un’unica coalizione, la Freedom and Change Coalition (FCC), dalla quale emerge e s’impone un’associazione di professionisti sudanesi composta, per la maggiore, da medici, avvocati e giornalisti, chiamata Sudanese Professionals Association (SPA). Le manifestazioni si sviluppano dapprima a livello di quartiere e il pane, e le difficoltà economiche del Paese, sono solo alcune delle motivazioni che hanno portato tante persone a scendere in piazza.

Dopo i primi scontri tra le forze armate, la polizia e i manifestanti, i militari decidono di interrompere le violenze, anche se questa decisione si limita alle forze inter-governative, lasciando il lavoro sporco alle Rapid Support Forces (RSF), che sparano sui manifestanti. Queste ultime, secondo la Corte Penale Internazionale, sono la causa di molte delle violenze verificatesi nell’Ovest. Sono loro, infatti, l’erede di quel conglomerato di miliziani che al tempo della guerra in Darfur si faceva chiamare Janjaweed, e che dal 2013 è confluito, per volere di al-Bashīr, nell’attuale RSF.

Il 6 aprile 2019 la mobilitazione riesce a far arrivare a Khartoum quasi un milione di persone, che si riservano per le strade della città e puntano al quartier generale dell’esercito, il Qiyada. I militari, davanti alla piazza gremita, offrono ai manifestanti di restare per la notte, in un atto di solidarietà che li rende disertori del regime. Un sit-in permanente è organizzato nella piazza della Qiyada, e tra la gente in festa si attende solo l’annuncio della fine di al-Bashīr. L’11 aprile, alle prime ore del mattino, la destituzione del dittatore è annunciata al popolo della piazza. Non seguirà direttamente il passaggio a un governo democratico poiché il potere sarà conservato dal Consiglio Militare di Transizione (CMT), un elemento che infiamma le proteste, e anima i sit-in.

Murales e graffiti inneggianti alla rivoluzione compaiono come funghi in diversi luoghi di Karthoum. Foto: BBC.

Questi ultimi rappresentano uno spazio eccezionale e inedito di espressione e socializzazione politica, con altoparlanti e palchi disposti nella piazza, da dove ognuno poteva esprimere il proprio dissenso al regime, raccontare le proprie sofferenze e parlare di diritti umani a favore di tutti e tutte (soprattutto delle donne, la vera anima della rivoluzione). I sit-in sono stati terreno d’incontro e di confronto, che fosse tra ideologie politiche differenti o tra persone provenienti da diverse regioni del Paese. In poco più di due mesi, essi hanno permesso l’incontro di un popolo, che ha rivendicato la propria diversità nella capitale, luogo del potere. Non solo, i sit-in hanno permesso a personalità di spicco della FCC di farsi avanti e portare avanti le negoziazioni con il CMT.

Il 3 giugno, però, la piazza è dispersa dalle pallottole delle RSF e i sit-in sono distrutti. Quel giorno, il conteggio delle vittime è di oltre centotrenta persone, al quale si aggiungerà in seguito una ventina di corpi, che saranno recuperati dalle acque del Nilo. La comunità internazionale si dice sconvolta dal massacro e i militari presentano le proprie scuse, senza mai addossarsi la responsabilità del fatto. Una nuova ondata di proteste porta le negoziazioni a farsi più stringenti. Con l’apporto dell’Unione Africana e del Primo Ministro etiope Abiy Ahmed, le trattative riprendono progressivamente, fino ad approdare all’accordo del 17 luglio, il tassello finale verso la formazione del nuovo governo di transizione.

23 aprile 2019, il treno proveniente da Omdurman arriva a Khartoum carico di manifestanti. / Afp

Il potere di Hemedti, i gruppi ribelli e gli islamisti

Dal momento in cui Omar al-Bashīr ha fatto degli Janjaweed la sua guardia personale, le RSF, guidate dal generale Mohamed Hamdan Hemedti Dagol, sono cresciute di numero e hanno tessuto relazioni molto importanti fuori dal Paese. Quando, nel 2012, fu scoperto l’oro nel nord del Darfur, Hemedti non si fece attendere e mise le mani sui giacimenti, divenendo, in poco tempo, molto ricco e molto influente.

Con la perdita dei pozzi petroliferi siti nel Sudan del Sud, Hemedti riuscì a trattare una parte dell’oro rinvenuto nel Darfur con il governo centrale, che lo comprò abbondantemente al di sopra del prezzo di mercato, e a vendere il resto illegalmente facendolo passare oltre la frontiera. Nel 2017, il Sudan esportava oro per il 40%, soprattutto verso gli Emirati Arabi Uniti. Pochi giorni prima del massacro del 3 giugno 2019, Hemedti è sbarcato in Arabia Saudita per conferire con il principe Mohammed bin-Salman. Non a caso, le milizie di Hemedti formano il grosso delle truppe sudanesi impegnate nella guerra in Yemen, per conto dell’alleanza saudita-emiratina. Stesso discorso per la guerra in Libia, dove appoggiano il generale Haftar.

Leggi anche: Sull’orlo del disastro: la guerra civile in Yemen.

Ora, il potere di Hemedti è reso più spinoso dal sostegno conquistato in seno ai gruppi ribelli, nelle periferie del Paese. Questo perché, mentre la mobilitazione nella capitale raggiungeva il suo picco, la rappresentanza per queste regioni era flebile. Infatti, in molti hanno visto le negoziazioni con il Consiglio di Transizione Militare come dedicate alle elites di Khartoum, lasciando fuori le istanze dei ribelli della periferiaPrima di divenire parte dell’esercito nazionale, le RSF avevano combattuto i ribelli nel Darfur, nel Kordofan del Sud e nella regione del Nilo Blu, commettendo crimini indicibili, salvo poi reclutare nuovi soldati tra le file di quegli stessi ribelli e al di fuori dei confini sudanesi (alcuni provenienti dal vicino Ciad, ma anche nigeriani, centrafricani e disertori di Boko Haram).

Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, capo delle RSF, a Karthoum, il 18 maggio 2019. Foto: REUTERS/Mohamed Nureldin Abdallah.

Certamente anche gli Islamisti, nelle trattative per il nuovo governo, hanno appoggiato la figura di Hemedti, nonostante siano stati tagliati fuori da ogni compromesso. Questa era una delle condizioni principali della coalizione civile impegnata nelle negoziazioni: gli islamisti vengano tenuti fuori dalla composizione del nuovo governo. Nonostante la ferma richiesta, non è detto che questo non possa succedere, ma è soprattutto la presenza di Hemedti a fare degli islamisti una minaccia ancora reale. A breve termine, essi sperano che le mire politiche di Hemedti abbiano successo, e queste sono difficoltà con cui il Primo Ministro Abdallah Hamdok dovrà fare i conti, alla fine.

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