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Spettacolo

Gli ascolti di theWise: i dischi di ottobre 2019

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Vittorio Comand

Concluso anche ottobre, ci troviamo al consueto appuntamento su quelli che sono stati i dischi più interessanti usciti nello scorso mese. Ovviamente abbiamo parlato di Jesus Is King, il discussissimo ultimo disco di Kanye West dopo aver abbracciato la fede cristiana, ma ci sono stati anche altri album sui quali spendere qualche parola: dal ritorno di Nick Cave alla conferma della cantautrice Angel Olsen, ecco i nostri dischi di questo ottobre 2019.

Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen

Il percorso di Nick Cave nello sviscerare la tragica esperienza del lutto continua, a tre anni di distanza dal precedente Skeleton Tree, nel monumentale Ghosteen. Prima però, una doverosa contestualizzazione: nel corso delle realizzazione di Skeleton Tree, nel luglio del 2015, il figlio quindicenne di Cave, Arthur, muore cadendo da una scogliera. Il disco, in fase di completamento, subisce l’effetto di questo terribile episodio e viene stravolto, diventando uno degli album più cupi e incisivi nella discografia di Cave. In questo nuovo capitolo abbiamo la successiva espressione del dramma vissuto da Cave: dopo le trame oscure di Skeleton Tree, ecco le commoventi atmosfere di Ghosteen, dove Cave mette a nudo tutto il suo dolore più intimo nella sofferenza trionfale di undici tracce. Diviso in due parti rappresentanti idealmente i figli (nella prima parte) e i genitori (nella seconda), Nick Cave si spoglia dei panni di poeta maledetto del rock per indossare quelli di un padre ancora distrutto dalla perdita del figlio. C’è un richiamo ai lugubri sintetizzatori di Skeleton Tree, ma questa volta dal timbro più delicato, diventando l’intenso sfondo sonoro per il solenne rituale funebre a cui l’ascoltatore è chiamato ad assistere. L’interpretazione di Nick Cave è devastante: la voce, a tratti spezzata, è quella di un uomo messo a dura prova dalla vita che cerca di reagire al suo dolore. È nella coda del disco, Hollywood, che si innalza in un inusuale falsetto la tragedia di Cave con parole tanto semplici quanto penetranti: «It’s a long way to find peace of mind». A distanza di quarant’anni dal suo esordio, Nick Cave riesce a sfoderare uno dei suoi album migliori in assoluto. 9/10.

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Angel Olsen – All Mirrors

Che per Angel Olsen il 2019 fosse un anno di splendida forma, poteva già essere notato dalla meravigliosa True Blue, contenuta in Late Night Feelings di Mark Ronson, sicuramente tra i pezzi migliori di quest’anno. La cantautrice statunitense conferma il suo stato di grazia con All Mirrors, suo quarto lavoro, un album già dai teaser presentato come potente, elegante e sentito. All Mirrors si svolge come il doloroso resoconto di una separazione vissuta male. La genesi dell’album rispecchia la natura ambivalente dello stesso: l’intero lavoro è stato infatti registrato prima in forma ridotta, per poi essere successivamente sottoposto ad arricchimento orchestrale. Proprio questa modalità di lavoro, unita alla mano sapiente di John Congleton alla produzione, impedisce che le orchestrazioni risultino pesanti o noiose persino in un contesto in cui la ballad con rimandi eighties è ancora la forma canzone principale. Al contrario, come dimostrato già dai primi singoli, All Mirrors e Lark, archi e percussioni aggiungo un ulteriore livello di potenza e intensità andando a sostenere ancora meglio la voce della cantautrice, qui nella sua definitiva prova di maturità. Poche le eccezioni a questa regola, ma altrettanto efficaci: What it is è un omaggio alle sonorità rock e Lo-Fi della prima Olsen, mentre Summer è un brano chiaramente ispirato al revival di band come The War On Drugs con un cantato che ricorda vagamente Lana Del Rey, piccoli sprazzi di luce in un album perfettamente e piacevolmente notturno. 8/10.

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Big Thief – Two Hands

Li avevamo già segnalati a maggio con U.F.O.F., li ritroviamo già dopo appena cinque mesi: i Big Thief tornano in brevissimo tempo con Two Hands, pubblicato l’11 ottobre scorso. Se allora avevamo sottolineato come mancasse ancora qualcosa per il salto di qualità, evidentemente è bastato veramente poco per compierlo: Two Hands è il primo vero punto esclamativo nella discografia di Adrianne Lenker e compagni. La voce della cantante di Indianapolis, ancora più ammaliante e ipnotica, si stende in tutta la sua malinconica fragilità, mentre le chitarre della stessa Lenker e di Buck Meek si alternano fra ruvidi e infuocati crescendo dal vago richiamo post rock e leggeri arpeggi folk. Nella sua produzione un po’ grezza ma genuina, Two Hands riprende a piene mani da Neil Young e dal rock alternativo anni Novanta per trasportarli nel presente: l’effetto è quello di avere l’impressione di ascoltare un disco senza tempo, difficile da collocare cronologicamente e capace di incantare sin dal primo ascolto. I momenti più riflessivi, come la rassicurante ballata acustica Wolf, si contrappongono ai brani più elettrici, come lo sfogo rabbioso di Not: le due anime del disco (o le due mani del titolo) si uniscono in un continuo scambio fra calma e agitazione, fra razionalità e istinto, fra cervello e cuore. Con questa ultima fatica i Big Thief dimostrano di avere un loro posto ben consolidato nel panorama musicale pop contemporaneo, dando nuova vita a una scena folk rock troppo spesso spenta o poco energica. 8/10.

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Wilco – Ode to Joy

Nuova uscita per la band di Jeff Tweedy, ormai alla undicesima fatica discografica. Continua la svolta soft e sottrattiva intrapresa con Star Wars (2015) e continuata col quasi completamente acustico Schmilco (2016). Nonostante i Wilco siano sempre stati famosi per la potenza e l’imprevedibilità degli arrangiamenti, dovuta anche alla perizia tecnica dei membri della band, questa svolta non deve lasciar presagire una minore qualità del materiale, quanto più una esigenza di badare alla forma canzone e al sentimento lirico, più che a twist potenti. Ciò è nato in parte tra Wilco (the album) (2009) e il tentativo di approdare al pop mainstream di The Whole Love (2011), periodo che Tweedy in recenti interviste descrive efficacemente definendo la band “drogata dall’esperienza live” e col bisogno di suonare ad alto volume anche su disco. L’intuizione dei Wilco non si rivela sbagliata, in quanto nonostante a un primo ascolto sembri che l’intera band si releghi a un ruolo di accompagnamento nei confronti di Tweedy, in realtà l’intento generale è di lasciare maggior respiro a brani, strumenti e parole: si prendano, ad esempio, il lento incedere pulsante di One and a Half Stars e il crescendo di Quiet Amplifier. Nonostante la mancanza di cavalcate folk o di potenti pezzi a cavallo tra country e noise, Ode to Joy conferma l’assoluto songwriting e la compattezza come band di Tweedy e soci in un album che cresce a ogni ascolto. 7,5/10.

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Niccolò Fabi – Tradizione e tradimento

A tre anni da Una somma di piccole cose, disco che ha raggiunto lo status di culto grazie alla sua riuscita miscela di semplicità, filosofia quotidiana e sonorità acustiche ed eleganti che strizzano l’occhio al folk americano dei primi Bon Iver, Niccolò Fabi ritorna con un nuovo album. Tradizione e tradimento parte in maniera dimessa, quasi a legarsi alle tematiche del precedente lavoro, con i lenti arpeggi di pianoforte di Scotta, ma subito dopo il disco svolta verso beat moderni e quasi pop, pattern elettronici e potenti orchestrazioni che trovano il loro apice in Amori con le ali, brano che ti aspetteresti più da Riccardo Sinigallia, tra i migliori dell’intero album. Restano stabili le tematiche tipiche di Fabi, dal disagio al sentimento, al cambiamento, alle tematiche sociali che sbocciano delicatamente in Io sono l’altro, singolo di apertura del lotto, che tratta in maniera efficacissima i problemi delle migrazioni sopra sintetizzatori oceanici. Come già detto, i legami con la precedente produzione di Fabi restano stabili, venendo solo elegantemente avvolti da strumenti e partiture che si alternano tra loro, rendendo Tradizione e tradimento un album sicuramente interessante, sentito e piacevole, nonostante non sia un prodotto incisivo come il precedente, vera pietra miliare della produzione del cantautore romano, nella sua brutale e onesta semplicità. 7/10.

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Kanye West – Jesus Is King

Novello San Paolo sulla via di Damasco, ecco come si presenta al mondo Kanye West dopo la sua conversione: Jesus Is King è una dichiarazione d’amore verso Gesù. Dopo anni passati a considerarsi una divinità scesa in Terra Kanye si redime, confessa i suoi peccati e si rimette al giudizio di quello che lui individua come il vero Dio. Il tema religioso è un elemento da sempre presente nella discografia di Yeezy, ma mai prima d’ora il messaggio è stato così deciso: Kanye canta senza mezzi termini la gloria del Signore, in preda a una sorta di estasi mistica spirituale. Eppure, Jesus Is King lascia convinti a metà: siamo ancora distanti dai picchi a cui Kanye ci aveva abituato, in particolare qua il delirio religioso prende il sopravvento sulla produzione, finendo per farlo diventare un album mediocre rispetto alla sua discografia. Fanno eccezioni un paio di momenti sublimi, su tutti l’ispiratissima Use This Gospel: per quanto bizzarra sia l’unione fra i Clipse e il sax di Kenny G, il brano è una sentita ed emozionante confessione spirituale che funge da manifesto per il disco. Per il resto, l’album si sviluppa fra alti e bassi, dal convincente climax gospel di Selah alla confusa Closed on Sunday, in cui Gesù viene discutibilmente paragonato a un «Chick fil-A». Nel complesso, la sensazione è che Jesus Is King sia un sentito atto di fede a tratti anche emotivamente coinvolgente, ma spesso e volentieri ripetitivo o sconclusionato. Il messaggio è fin troppo chiaro, ma finisce col diventare più propaganda cristiana che uno spunto di riflessione sulla spiritualità e sulla religione. 5,5/10

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Le recensioni di All Mirrors, Ode to Joy e Tradizione e tradimento sono state curate da Luigi Buono.

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