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Economia

La plastic tax: quando l’ambientalismo diventa scomodo

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Marco Maffeo

I litigi all’interno della nuova maggioranza di governo non accennano a spegnersi: il 15 ottobre è stata approvata la Legge di Bilancio 2020 “salvo intese”, ma le critiche mosse da ogni partito – dentro e fuori l’esecutivo – hanno già portato a modifiche. Per trovare le coperture necessarie per scongiurare l’aumento dell’Iva, il Governo ha deciso di introdurre diverse microtasse, una delle quali è la famigerata plastic tax che tanto fa discutere. Secondo il DDL pubblicato dal Senato, con la plastic tax verrebbero tassati i «manufatti con singolo impiego» che «hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari», e l’imposta prevista sarebbe di un euro per chilogrammo di materia plastica. La misura ha subito scatenato polemiche sia da parte di esponenti dell’esecutivo – in particolare da Italia Viva – sia da parte degli industriali. È innegabile che l’imposta vada a colpire un’ampia fetta del mercato italiano ed europeo, ma è altrettanto innegabile che qualcosa debba cambiare nella produzione e nel consumo di plastica in Europa. E fortunatamente l’Italia non è la sola a muoversi in questo campo.

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La plastic tax: una tassa made in Europe che spaventa molti

Prima di tutto, per capire l’impatto della plastic tax è bene farsi un’idea delle cifre relative al mercato della plastica in Europa. I dati forniti dall’associazione europea dei produttori di materie plastiche PlasticsEurope mostrano che quando si parla di plastica si va a toccare una grossa fetta dell’economia europea: all’interno dell’Ue ci sono circa sessantamila aziende coinvolte nella produzione di questo materiale, per un totale di più di un milione e mezzo di persone che lavora nel settore. Tradotto in termini di ritorno economico, questi numeri hanno permesso all’industria plastica dell’UE di guadagnare ben 335 miliardi di euro nel 2017. Per la sola Italia, si parla di centosessantaduemila occupati e di un fatturato da trentadue miliardi di euro. Non a caso, infatti, l’Ue è al secondo posto a livello mondiale per la produzione di plastica, dopo la Cina e prima dei Paesi del NAFTA (North American Free Trade Agreement). I Paesi dell’Ue sono anche quelli con la domanda più alta di materie plastiche, domanda di cui una grossa parte – circa il quaranta per cento – va a finire negli imballaggi.

Questo enorme mercato che ruota intorno alla plastica ha ovviamente delle ricadute ambientali piuttosto consistenti, che – almeno nelle intenzioni – la plastic tax dovrebbe in parte attenuare. Per comprendere le quantità, basti pensare che ogni anno l’Ue produce circa ventisei milioni di tonnellate di rifiuti di plastica. Ma quante di queste tonnellate vengono poi riciclate? Secondo un rapporto dell’Ue, ben poche: solo il trenta per cento circa, a fronte di una quantità altrettanto consistente che finisce in discarica (o negli oceani, che di questo passo in discariche si stanno trasformando) e di un quaranta per cento che è destinato agli inceneritori. Questo nonostante, stando ai dati forniti da PlasticsEurope, il riciclaggio della plastica sia aumentato dell’ottanta per cento tra il 2006 e il 2016. E così, tra la plastica prodotta e la plastica incenerita, la quantità di anidride carbonica che viene emessa tocca i quattrocento milioni di tonnellate annue.

Un grafico dell’Eurostat che mostra l’aumento del riciclo della plastica nell’Ue. Foto: Eurostat.

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La plastic tax prevista dal Governo è solo l’ultima stoccata di un duello contro la plastica che nell’Ue è già iniziato da un po’ di tempo. In effetti, con una direttiva europea del giugno 2019 l’Ue ha deciso che a partire dal 2021 saranno vietati numerosi oggetti in plastica monouso: piatti, posate, cannucce e via dicendo. L’Italia ha già anticipato le indicazioni dell’Ue con la famosa decisione di mettere al bando i cotton-fioc di plastica, che ora devono essere interamente compostabili, e con quella di limitare le buste per la spesa.

La plastic tax non è nemmeno un’invenzione italiana: una simile misura – almeno per quanto riguarda determinati tipi e usi della plastica – è già applicata in altri Stati membri dell’Ue, come Belgio e Danimarca. Oltretutto, nel maggio 2018 la Commissione europea aveva già proposto un’imposta nazionale di ottanta centesimi per chilogrammo di plastica presente negli imballaggi non riciclati, misura utile per avere nuove entrate e compensare economicamente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Insomma, in qualche modo la plastica sarebbe prima o poi dovuta venire sacrificata alle necessità ambientali e soprattutto economiche. In Italia, però, il PD emiliano e Stefano Bonaccini – governatore dem dell’Emilia-Romagna – vorrebbero attenuare o almeno ritardare di qualche mese i propositi ecologisti, spaventati dalle ripercussioni che la plastic tax potrebbe avere sull’esito delle elezioni regionali di gennaio. L’Emilia-Romagna, infatti, è una delle quattro regioni che producono la maggior parte della plastica in Italia, insieme a Lombardia, Veneto e Piemonte.

Stefano Bonaccini, presidente dem della regione Emilia-Romagna. Foto: LaPresse.

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Non è stata solo la politica a lamentarsi della misura: alle critiche si è aggiunta paradossalmente Legambiente, che se da un lato ritiene insufficiente che la tassa colpisca solo gli imballaggi, dall’altro critica l’assenza di un occhio di riguardo per le plastiche riciclate. E proprio nell’importanza di valorizzare il riciclaggio trova l’appoggio degli industriali, che non vedono spinte o incentivi per sostenere l’economia circolare ed evitare effetti negativi sul settore.

Per tutte queste ragioni, è molto probabile che la plastic tax subisca ancora delle modifiche. Innanzitutto cambierebbe l’imposta: si passerebbe dall’euro per chilogrammo previsto ai sessanta o quaranta centesimi al massimo. Verrebbe inoltre dato ascolto alle lamentele degli industriali, con l’introduzione di bonus e incentivi per le aziende che investono nel riciclaggio e con la limitazione dell’imposta a quei prodotti che non raggiungono una determinata percentuale di plastica riciclata.

Una plastic tax per un’Italia tutt’altro che plastica

Oltre a tutti i numeri e i dati sulla produzione e sul consumo di plastica, c’è da dire che il dibattito politico ed economico sulla plastic tax insegna – o meglio, ricorda – due cose. La prima, molto banale, è una sorta di trasformazione dell’ecologia in profitto: il Governo ha presentato la misura come un modo efficace per combattere l’inquinamento dei mari e per mantenere le promesse ambientaliste, ma è evidente a tutti che sotto al tendone da circo ecologista ci siano i soliti motivi economici. L’esecutivo ha bisogno di recuperare in fretta dei soldi, e l’unico modo per farlo è introdurre tasse facilmente giustificabili – se così si può dire – davanti all’opinione pubblica: ecco perché torna utile il tema ecologico, ed ecco perché è stata studiata la plastic tax. È inutile illuderci: perché si realizzi la svolta ambientalista, serve che l’ambiente diventi economicamente conveniente.

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Una manifestazione del movimento Fridays for Future a Roma. Foto: dinamopress.it.

La seconda cosa che ci insegna la vicenda della plastic tax, invece, è evidente nelle polemiche che sono seguite: non saremo bravi a riciclare i rifiuti, ma in compenso non abbiamo problemi nel riciclare sempre la solita Italia. Un’Italia che applaude i ragazzi dei Fridays for Future e che fa grandi proclami sull’importanza di una svolta ecologista del Paese, ma che quando arriva al momento di agire sul serio preferisce fare un passo indietro. Un’Italia, la solita Italia, che annuncia con toni roboanti di voler spiccare il volo, ma che invece alla fine si trova sempre ad arrancare, schiacciata a terra dalla zavorra degli interessi di parte.

La plastic tax ha certamente delle conseguenze negative, in particolare per chi lavora nel settore, e trovare delle soluzioni sarà compito del Governo. Ma in un mondo che cambia – dal punto di vista climatico e non solo – anche il resto è obbligato a cambiare, e più che aggrapparsi al “come si è sempre fatto” converrebbe piuttosto pensare a come adattarsi. E converrebbe anche che l’Italia diventasse un po’ più plastica, in un mondo in cui di un’altra plastica inizia a essercene davvero troppa.

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