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Sememeotica, parte settima: Pepe the Frog è morto, viva Pepe!

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Laura Valentini

Questo è il settimo articolo di “Sememeotica: perché il meme dominerà la politica”. Un viaggio nella storia dei meme, dalla rivoluzione comunicativa di Internet al loro impatto sulla politica e sulla nostra vita. L’autrice, Laura Valentini, è laureata in Scienze della Comunicazione – curriculum politico-istituzionale all’Università di Roma Tor Vergata. La presente serie prende spunto dalla sua tesi di laurea.

Gli articoli precedenti:
Parte prima: la rivoluzione Internet
Parte seconda: l’epidemia social
Parte terza: il meme, linguaggio della Rete
Parte quarta: il Meme Politico
– Parte quinta: l’Alt-Right e la politica online
Parte sesta: il fenomeno Gamergate


La nostra narrazione della Great Meme War prosegue con il momento in cui l’Alt-Right comincia ad affilare le sue armi cibernetiche e a prepararsi a sostenere il suo beniamino Donald J. Trump. Con il senno di poi, possiamo certamente dire che le primarie americane del 2016 sono state un evento senza precedenti, in termini di partecipazione (sia nella real life che online) e soprattutto in termini di comunicazione politica e di uso del linguaggio.

Esse sono state soprattutto caratterizzate da un eccesso di quella che i netizens chiamano Meme Magic, ovvero il potere che i meme hanno di influenzare gli eventi della vita reale. Non possiamo dire con certezza quanto la Meme Magic abbia contribuito al successo politico di Trump, ma possiamo sicuramente attribuirle un ruolo di primo piano nella circolazione delle idee e degli slogan che hanno caratterizzato il periodo delle elezioni presidenziali nella sua interezza.

Meme Magic, disponibile nei migliori gruppi Facebook e nelle migliori imageboard.

Le primarie americane del 2016: candidati a confronto

Ne abbiamo parlato a lungo sinora senza mai andare realmente a fondo nella questione: nelle manifestazioni politiche dei due mandati presidenziali precedenti, le quali hanno visto il grande trionfo di Barack Obama, non si era mai vista una battaglia tra community di Internet e media mainstream così accorata e combattuta, almeno non fino al 16 giugno del 2015, giorno in cui l’imprenditore Donald J. Trump annunciò ufficialmente l’inizio della sua corsa alle primarie del Partito Repubblicano.

Da questa data già cominciano a delinearsi gli schieramenti in gioco, determinando in partenza i candidati destinati a sopravvivere sino alle convention di luglio 2016: da un lato del ring abbiamo, oltre al sopracitato tycoon (destinato a correre praticamente da solo, senza il supporto ufficiale del Partito) il vero favorito Ted Cruz, canadese naturalizzato americano e Senatore del Texas, il figlio d’arte ed ex Governatore della Florida Jeb Bush, l’ispanico Marco Rubio, Senatore della Florida, il Governatore dello Stato dell’Ohio John Kasich e Ben Carson, neurochirurgo di successo e primo afroamericano a correre per le primarie repubblicane.

Dall’altro abbiamo la Segretaria di Stato uscente Hillary Clinton, indicata da subito dalla maggior parte degli analisti come la favorita, sia alle primarie che alle presidenziali, e il Senatore del Vermont Bernie Sanders, preferito dai giovani Millennials di sinistra per le sue idee progressiste e assimilabili a un socialismo democratico di stampo scandinavo.

Il Web affila le armi

Mentre da parte Democratica il dibattito sul Web si accende subito, complice il grande sostegno dei giovani manifestato a Sanders tramite la condivisione di memini e la nascita di gruppi Facebook monotematici (tra cui il celeberrimo Bernie Sanders’ Dank Meme Stash), l’ala destra di Internet – assieme alla neonata Alt-Right – rimane quieta per qualche tempo, non trovando nell’immediato un vero candidato in cui riconoscersi.

Tale atteggiamento non deve essere necessariamente motivo di biasimo nei confronti dei giovani elettori: effettivamente, se la scelta è tra l’ennesimo figlio dei Bush, un canadese (sacrilegio!) associato al famigerato killer dello Zodiaco e un ispanico dalla retorica ripetitiva, tanto vale regalare il proprio voto agli avversari.

Quando Trump annunciò l’inizio della propria corsa come leader del Partito Repubblicano alle presidenziali, Internet e l’Alt-Right manifestarono il loro sommo entusiasmo tramite l’uso e consumo smodato di memi, spesso di tipo top text/bottom text – i quali si prestano meglio a una condivisione di massa perché immediatamente comprensibili e più facili da realizzare – e thread o subreddit aperti nei vari forum e imageboard. Tali atti legittimarono i social media e i gruppi chiusi nati al loro interno come le nuove piazze di discussione dell’opinione pubblica, ma con il bonus di essere libere da qualsiasi restrizione, essendo gestite da moderatori palesemente di parte.

Screenshot della home di r/The_Donald, il principale ritrovo dei memers dell’ala destra di Internet su Reddit

Da quel famoso 16 giugno 2015 la community Alt-Right seguì l’avvicendarsi dei vari dibattiti e delle vicende politiche legate a ogni singolo candidato con un accanimento e una dovizia di particolari mai visti prima, almeno per quanto riguarda i giovani internauti. Certo, ci sono stati notabili esempi di memi durante la campagna di Obama, ma erano perlopiù celebrativi o veicolanti messaggi positivi, rendendo il tutto unilaterale.

In questo caso, essendo sorto un confronto tra più parti, il dibattito si è esteso pian piano a macchia d’olio, distruggendo prima i candidati più deboli e che nel Web godevano di un sostegno nettamente minoritario (come Jeb Bush, Marco Rubio, John Kasich e Ben Carson) e investendo in pieno Cruz.

La Meme magic in azione

Lo spirito che ha investito i giovani utenti di destra durante l’arco di tutta la campagna elettorale era quello di poter fare qualcosa di concreto semplicemente con la stessa ironia che mettevano in campo nella creazione e condivisione dei loro memes preferiti. «Meme magic is real», recitavano ossessivamente i redditor ed i channer, inebriati dal fatto di poter manipolare il tessuto della realtà con la loro ironia. Essi stavano facendo vera politica, creando vero sostegno e veicolando vere (per loro) opinioni in maniera non ironica utilizzando un’arma ironica nella sua struttura intrinseca, pilotando di fatto le sorti di un Paese.

Tale spirito ha investito anche l’ala estremista dei Democratici, i Bernie Bros che, rifugiatisi nello Stash, condividevano fotografie dei comizi di Sanders gremiti di gente, selfie con i vari gadget elettorali, notizie, proclami e memes di pregiatissima fattura. Un esempio ne è la serie di immagini “Bernie or Hillary?” dedicate al confronto tra le idee dei candidati su questioni comuni. L’inserimento di domande improbabili e risposte contraddittorie e satiriche hanno reso questo uno dei format principali del gruppo, dalla diffusione capillare e capacità di ironia massima.

Qualità, queste, che hanno fatto gola alla favorita Hillary la quale, in un tweet di agosto 2015, tentò di creare lo stesso appeal fra i più giovani, chiedendogli come il loro debito studentesco li facesse sentire usando solo tre emoji. Il risultato finale fu che il tweet suscitò indignazione soprattutto fra i Bernie Bros, contribuendo ad alimentare l’immagine di un Hillary inautentica e vicina ai temi dei giovani solo a fini elettorali. Prova che l’astroturfing in politica non paga mai.

Uno dei tweet più discussi di Hillary Clinton.

Curioso come fenomeni del genere non si siano mai verificati nell’ala Repubblicana: ogni candidato si rivolgeva quasi esclusivamente al proprio bacino elettorale senza calcare la mano, sperando di prevalere semplicemente per numero o per la forza degli argomenti proposti. Nonostante la loro bassa popolarità, nessuno ricorderà mai Carson e Rubio come dei pessimi avversari pronti a ricorrere a qualsiasi arma pur di vincere, e persino lo stesso Trump non ha mai pressato sui mezzi e i linguaggi della rete per ottenere il supporto dei giovani elettori.

Il buono, il brutto e il cattivo

È qui che risiede la differenza principale tra il tycoon, Bernie Sanders e Hillary Clinton. I primi due hanno raccolto un sostegno vero, autentico e accorato semplicemente con la potenza della loro retorica e la forza attrattiva dei loro programmi (per quanto, nel caso di Trump, essi potessero essere il più delle volte discutibili). Tutto ciò anche mostrandosi semplicemente per quello che sono, ovvero un anziano Senatore che non ha paura di avvicinarsi ai giovani e parlare la loro lingua, e un imprenditore maschilista dalle manie di grandezza che della retorica politica, abituato com’è a parlare alle masse attraverso lo schermo di un televisore, se ne faceva ben poco.

La Clinton, di contro, appariva esclusivamente inebriata dalla voglia di primeggiare e pronta a tutto per raggiungere lo Studio Ovale, anche a mostrarsi per ciò che non è realmente e a fare proprie delle meccaniche non sue. Era palese che alla candidata democratica non interessassero davvero i memini o il mondo di Internet in generale. Per un memer, vedere una persona che si avvicina a un mondo così complesso e costituito da inside jokes così radicati da fare di essi il suo linguaggio, solamente per utilizzarlo per i propri scopi, è un oltraggio senza precedenti.

È qui che si ripropongono le medesime meccaniche mentali e sociali già viste nel caso del GamerGate, solo che in questo caso il fenomeno, riguardando il linguaggio stesso della rete, assume un’importanza e una portata tanto vaste da essere considerate letteralmente planetarie. La community non è così chiusa come può sembrare: l’ingresso è aperto a tutti, anche se inizialmente si verrà bollati come dei newfags senza onore, ma l’interesse manifestato deve essere sincero e mosso da un amore autentico verso il codice della Rete, anche – e soprattutto – nella sua ironia.

Pepe Trump: il meme che ha fatto tremare il mondo

Questa è stata l’atmosfera percepita dai channer e dai redditor quando, il 13 ottobre 2015, hanno assistito a ciò che sino a quel momento era ritenuto impensabile: Donald Trump condivide nel suo account Twitter un Rare Pepe con le sue fattezze, e da quel momento il gioco cambia radicalmente.

Il tweet originale di Pepe Trump.

Pepe Trump è il primo caso verificato di un meme che è stato in grado di sconfinare nella realtà, destabilizzandola, e di tornare nella rete in una veste completamente nuova ed imprevista. Per chiarire il perché di questi effetti tanto devastanti partiamo dalle origini di Pepe the Frog, uno dei fenomeni archetipici di Internet e simbolo principale di 4chan.

Chi è Pepe the Frog?

Pepe the Frog è un simpatico personaggio del fumetto Boy’s Club, creato da Matt Furie nel lontano 2005, in cui un gruppo di animali antropomorfi, disegnati con uno stile dozzinale pensato ad hoc, affrontano situazioni quotidiane imbarazzanti e talvolta anche al limite dell’assurdo.

Nel 2008 tale fenomeno raggiunge la spiaggia di 4chan grazie a una tavola in cui Pepe va al bagno e si spoglia completamente per fare i suoi bisogni, giustificandosi con la frase «Feels good, man!». Questa tavola ha consacrato la ranocchia come uno dei principali memi dell’imageboard e come la reaction pic perfetta da affiancare alle situazioni imbarazzanti e assurde vissute quotidianamente dai channer.

«Feels good, man!». La nascita di Pepe the Frog come meme.

Come da dinamiche standard, il meme da 4chan passa a Facebook, diventando ben presto cibo per quei normaloni che lo condividono al di fuori del contesto originario. Lo utilizzano quindi per etichettare anche le situazioni quotidiane tipiche delle persone normali, svuotando Pepe del suo significato.

La genesi dei Rare Pepes

4chan questa volta non ci sta e, prima che il meme muoia anzitempo, lo “uccide” sommergendo i social media con un’ondata di creazioni ironiche a tema del tutto autonome, surreali e decontestualizzate, denominate Pepi rari (in originale Rare Pepes). È tipico della community reagire alla fase di “normieing” di un meme con l’arma ironica dello shitposting, ed è così che Pepe assume le fattezze più assurde, passando dall’essere un’innocente ranocchietta a un vero e proprio “veicolo di odio”: i Pepi rari tornano tra le braccia di /b/ sotto forma di surrogati di Hitler, portando con sé riferimenti all’Olocausto e ad altri genocidi di massa avvenuti nella storia.

Di per sé, quello delle atrocità commesse dall’uomo è un tema che non esce fuori dal contesto originale del meme, essendo queste situazioni borderline il cui solo parlarne crea imbarazzo tra le persone. Con il tempo esse diventano l’unico perno della narrazione memica di Pepe, conferendogli una luce oscura che agli utenti della imageboard fa sempre piacere trovare. La stessa luce oscura che essi avvertono nel candidato repubblicano Donald Trump, con le sue posizioni razziste, xenofobe e antiglobaliste.

La morte di Pepe the Frog

Ecco che il tycoon viene affiancato costantemente alla povera rana martoriata ribadendo, soprattutto grazie alla condivisione da parte dello stesso Trump, la sua nuova natura di “simbolo di odio” agli occhi del mondo intero, finendo persino sulla lista nera dell’Anti-Defamation League. L’ondata di indignazione sollevata dal meme ha addirittura portato lo stesso Furie a reclamare indietro i diritti della sua opera con la campagna online #SavePepe (supportata dall’Anti-Defamation League stessa).

In seguito, visto l’insuccesso dell’operazione, Matt Furie si sentì costretto a decretare ufficialmente la morte del suo personaggio, con una vignetta pubblicata dalla casa editrice di Boy’s Club, Fantagraphics, in un’antologia di fumetti messa in commercio in occasione del Free Comic Book Day del 2016. Essa raffigura i protagonisti del fumetto di Furie radunati attorno a una bara, con il povero Pepe all’interno.

Una brutta fine per la ranocchietta più popolare del Web, ma possiamo consolarci con il pensiero che è venuta a mancare portando con sé gli originali valori di amicizia, divertimento e genuina awkwardness che voleva veicolare al mondo intero. See you, space cowboy.

La vignetta che decreta la morte di Pepe the Frog.

Hillary Clinton, ovvero “come ti uccido Pepe the Frog”

Hillary Clinton, di fronte a quell’odio dilagante, non poteva certo stare a guardare. Dopo aver etichettato pubblicamente metà dei supporter di Trump come un basket of deplorables – da cui l’Alt-Right ha tratto l’etichetta Déplorables –, tramite il suo ufficio stampa approva la pubblicazione di un articolo nel suo blog ufficiale, scritto da Elizabeth Chan il 13 settembre 2016, dal titolo Donald Trump, Pepe the frog, and white supremacists: an explainer.

Tale articolo – strutturato come una pagina di FAQ – tenta di indagare il fenomeno di Pepe the Frog, soprattutto dopo il boom di Pepe Trump, affiancandolo alla propaganda relativa alla white supremacy e all’hate speech. Chiude poi con una call to action, invitando i seguaci di Hillary Clinton al voto.

Il pezzo ha immediatamente fatto il giro dei social media, ma per le ragioni sbagliate: la pochezza delle argomentazioni e l’insufficienza di informazioni riguardo al meme stesso (le quali potevano essere reperite tranquillamente con un giro su Know Your Meme) rendono questo articolo niente più che un volantino anti-Trump, contribuendo ulteriormente a screditare la ranocchietta più amata del mondo.

Nell’articolo, infatti, vengono completamente tralasciate le spiegazioni sul come mai Pepe abbia preso quella “deriva autoritaria”, sulle meccaniche dello shitposting e sul concetto di ironia che, astratte le ragioni politiche del caso, continua a rimanere a fondamento dell’intera meccanica di creazione dei memes. Non si può prescindere dall’ironia, e del resto è la regola numero 20 di Internet che ce lo ricorda: nulla deve essere preso sul serio.

Trump, il paladino del Web

Nondimeno, la condivisione del Pepe raro di Trump – a cui sono seguite molte altre condivisioni di memini, sia da parte sua che del suo staff – ha visibilmente spostato l’asticella, rendendo ancora più labile il confine tra ironia e mondo reale.

Inoltre, tale fatto ha ulteriormente spinto i giovani tra le braccia del tycoon, che sempre di più veniva visto come il sostenitore e difensore della cultura dominante (prima del gaming, con il supporto ai gamergaters, e ora anche dell’Internet tutto) contro gli attacchi dell’establishment e del politically correct. Quest’ultimo è dedito a depurare il mondo, reale e dei memes, dalle opinioni e idee ad esso contrarie e a riplasmarlo a loro piacimento, instillandovi a forza le proprie convinzioni e costringendo tutti a combattere per le proprie battaglie.

Fieri di essere Déplorables

Uno scontro che porta con sé un’idea di “già sentito”: abbiamo affermato precedentemente come il GamerGate sia stato la palestra degli alt-righters per quanto riguarda le armi del doxxing contro i SJWs, ma ha soprattutto offerto uno spaccato drammatico di una nuova mentalità politica e sociale imperante. Una mentalità fatta di comunità chiuse, rifiuto del diverso, difesa della cultura egemone e refrattarietà a cambiamenti di ogni tipo e riflessa egregiamente dalla massa di sostenitori di Trump; quel basket of deplorables che va estremamente fiero di questa sua etichetta.

Perché se andare contro l’establishment che impone idee di multiculturalismo, abbattimento delle barriere economiche e buoni sentimenti verso il debole ed il diverso vuol dire difendere e condividere opinioni diametralmente opposte, allora tanto vale essere etichettati come uomini spregevoli, ma capaci di battersi a favore della loro cultura e di tenere sempre fede alle proprie idee. Per quanto abiette possano essere.


Parte ottava >>>

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Laura Valentini

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