Stefano Fassina è una presenza anomala nella scena politica italiana. Già deputato con il Partito Democratico e viceministro del governo Letta, lasciò il partito nel 2015 in polemica con l’allora segretario Renzi. Da quel momento inizia il suo tragitto verso posizioni sempre più radicali, prima con la candidatura a sindaco di Roma, poi con il seggio alla Camera in Liberi e Uguali e, infine, con il lancio di Patria e Costituzione, la sua creatura politica.
A differenza di buona parte della sinistra del nostro Paese – anche quella più radicale – per Fassina l’Unione Europea non rappresenta un’orizzonte di pace tra i popoli del continente ma, al contrario, è la gabbia che impedisce politiche di stampo redistributivo e sociale. Da qui nasce il curioso mix di ecologismo e patriottismo, socialismo e antieuropeismo che anima diverse componenti della sinistra populista continentale – dalla France Insomnouse di Mélenchon a parte del Labour di Corbyn – ma è ancora sconosciuto in Italia.
Con noi Stefano Fassina ha parlato di sovranità popolare, di crisi del neoliberismo e del futuro – incerto – del governo giallorosso.
Onorevole Fassina, negli ultimi anni lei si è fatto portatore di una visione del tutto nuova nell’ambito della sinistra italiana e termini come patria, sovranità, populismo sono entrati nel suo vocabolario. Come mai questa scelta?
«Perché siamo a un passaggio di fase storica. Dal 2007-2008 non siamo semplicemente di fronte a una crisi, seppur profonda: siamo alla rottura dell’ordine regolativo del capitalismo finanziario globale. Viene fuori in forme inequivocabili l’insostenibilità, anche per larghe fasce di classe media, dei liberi mercati di capitali, merci, servizi e persone. È vero in generale ed è ancor più vero per l’Ue e l’eurozona che, attraverso il mercato unico e l’euro, ha realizzato la forma più estrema di neo-liberismo.
In sintesi, siamo a un altro momento Polanyi: la società schiacciata dal dominio dell’economia cerca protezione nella politica, nella comunità, nello Stato nazionale. Le destre nazionaliste raccolgono istintivamente le domande di protezione sociale e identitaria. Le sinistre, sia quelle riformiste e di governo sia quelle sedicenti radicali, hanno un impianto culturale cosmopolita, libertario anti-Stato, non riescono a affrontare la fase sul terreno politico. Si rifugiano in un suprematismo moralista. È stata la deriva culturale sessantottina a mettere al bando a sinistra parole come Patria e nazione».
A sinistra c’è però chi la accusa di flirtare con la destra o di seguire la corrente, ora che il vento del sovranismo sembra andare per la maggiore.
«Sono le accuse di una sinistra fuori dal terreno politico, culturalmente prigioniera di un impianto di fatto sinergico al liberismo. Chi ha fatto la Resistenza, liberato l’Italia dai nazifascisti e poi scritto la Costituzione ha voluto scolpire, all’articolo 52 della Carta, che “la difesa della Patria è sacro dovere di ogni cittadino” e, all’articolo 67, che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”.
Ricordo che Togliatti, nel discorso al Teatro Brancaccio di Roma subito dopo lo sbarco a Salerno del 1943, disse:
“Facendo nostra la causa della nazione, attaccata dalle forze più reazionarie dell’hitlerismo e del fascismo, noi diamo all’idea di nazione un contenuto nuovo, popolare, democratico, rivoluzionario […] spetta a noi riparare al male che hanno fatto alla nazione italiana le cricche reazionarie imperialiste e fasciste, spetta al popolo prendere in mano le sorti della Patria e costruire un regime nel quale egli sia finalmente e pienamente padrone dei propri destini”.
Infine, segnalo che la rivista ufficiale dell’Anpi, Associazione Nazionale Partigiani Italiani, si chiama Patria Indipendente».
A settembre ha annunciato l’inizio dell’avventura politica di Patria e Costituzione. Alle prossime elezioni la troveremo sulla scheda elettorale?
«Siamo in campo come movimento politico autonomo. Le modalità della nostra presenza sul terreno elettorale le valuteremo insieme, in relazione alla nostra presenza e alle specificità di ogni contesto. Non abbiamo ansia da prestazione elettorale, né intendiamo fare l’ennesimo frammento di testimonianza all’uno per cento».
Se la sinistra in Italia è da anni in crisi, altrove in Europa e nel mondo le formazioni progressiste stanno avendo maggiori fortune. C’è un modello a cui guarda con particolare interesse fuori dai nostri confini?
«Francamente di sinistre in salute, in giro per il mondo, ne vedo poche. Tutte sono segnate dai fattori che ho ricordato per l’Italia, in particolare i componenti della famiglia socialista europeo-continentale. Comunque esistono esperienze di ricostruzione interessanti: Corbyn nel Regno Unito combatte duramente per dare al Labour nel contesto difficilissimo della Brexit un’identità keynesiana, patriottica, laburista; la France Insoumise di Mélenchon si muove lungo una strada analoga, come pure Sahra Wagenknecht in Germania, come parte di Podemos in Spagna e, al di là dell’Atlantico, gli eco-socialisti Sanders, Warren e Ocasio-Cortez».
Il modello neoliberale della Thatcher e di Blair è in crisi in tutto l’occidente, ma a trarne vantaggio in Europa è stata finora in larga parte la destra conservatrice e xenofoba. Come se lo spiega?
«Perché la sinistra storica, in particolare i partiti che hanno avuto funzioni di governo a partire dalla metà degli anni Novanta, sono stati responsabili, anche orgogliosamente come nel caso della costruzione del mercato unico europeo, dello sciagurato allargamento a Est e dell’euro, dell’introduzione di un regime regolativo ferocemente contro il lavoro e le classi medie. La destra liberista è in difficoltà. La destra nazionalista e xenofoba coglie al volo, istintivamente, lo spirito dei tempi, mentre le sinistre continuano a fare poesia con gli Stati Uniti d’Europa».
Passiamo alla cronaca politica. Lei si è speso in passato contro ogni ipotesi di autonomia differenziata, ma il governo da lei sostenuto non sembra chiudere del tutto la strada a questo genere di riforma.
«Mi sono espresso contro l’autonomia differenziata impostata, sotto dettatura dei Presidenti di Veneto e Lombardia, dal governo Gentiloni in limine mortis e poi articolata nelle bozze di intesa condivise da una parte del governo Conte I. Ora il Ministro Boccia ha messo la discussione e l’impianto sui binari giusti: prima una legge quadro di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione; poi la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e, sopratutto, la centralità del Parlamento nella definizione di provvedimenti che – di fatto – hanno portata costituzionale».
Cosa ne pensa della plastic tax? Il governo sta facendo abbastanza per quanto riguarda le politiche di contrasto al cambiamento climatico?
«La plastic tax, pur giusta in linea di principio, è stata un’improvvisazione approssimativa e unilaterale, alla fine controproducente. Va corretta nel passaggio del disegno di legge di bilancio in Parlamento. In termini generali, il governo è appena arrivato. Sull’ex Ilva, come sul Ceta, si gioca la sua credibilità».
A seguito della tragedia del ponte Morandi prima e del prolungarsi delle trattative sull’ILVA dopo, nel nostro Paese si è tornato a parlare di nazionalizzazioni. È davvero quello che serve all’Italia? E pensa si possa trovare un’intesa con i 5 Stelle su questo?
«Sì, ritengo che sia stato un errore – conseguenza dei tempi, dell’emergenza finanziaria e del collateralismo agli interessi più forti – la concessione della gestione di importanti monopoli naturali come le autostrade ai privati. Va fatta marcia indietro.
In generale, per le imprese strategiche, come l’ex Ilva o Alitalia, dobbiamo predisporre uno strumento istituzionale di adeguate dimensioni finanziarie e professionali per la proprietà pubblica, statale, nelle forme e per la durata necessaria: nell’ambito di Cassa Depositi e Prestiti, un IRI [l’Istituto di Ricostruzione Industriale che trainò l’economia italiana del dopoguerra, N.d.R.] 4.0. Il M5S, nonostante i suoi limiti e contraddizioni, è il principale interlocutore con il quale cercare un’intesa».
Conte arriverà fino al 2023?
«Dipende dal comportamento dagli azionisti in cerca di visibilità. Meglio le elezioni che continuare in modo rissoso e confuso, senza una chiara linea di marcia. Una maggioranza e un governo non possono avere come principale missione l’anti-salvinismo».
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