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Economia

Hong Kong: il cavallo di Troia dell’America

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Lorenzo Ricchitelli

Nella giornata di lunedì la città di Hong Kong ha visto i livelli di tensione tornare alle stelle: vi sono state delle testimonianze di un episodio poi confermato dalla polizia locale, secondo cui un poliziotto ha sparato a un manifestante, a distanza ravvicinata; nelle ore successive è circolato un video che conferma questo evento, collegato ad altri simili episodi di violenza che contraddistinguono le proteste nella capitale economica cinese. L’evento ha generato un’escalation di rabbia e rivendicazioni da parte dei protestanti, tanto da portare alcuni a “dare fuoco” a un sostenitore di Pechino, attraverso l’utilizzo di liquido infiammabile con cui è stato cosparso. Questa crisi che ha colpito quello che è il cuore dell’economia della Cina si sta protraendo da diversi anni ma, oltre ai motivi puramente interni per cui è iniziata, vi sono sempre più indizi che indicano come Hong Kong stia diventando uno strumento di ingerenza da parte di potenze estere (USA sopra a tutte) che cercano di prolungare una situazione che sta solamente creando perdite all’economia, e non solo, della Cina.

Hong Kong e la Cina: stesso territorio, diversa appartenenza

Hong Kong è un caso a se stante, per la sua storia e per la sua posizione geografica: l’isola di Hong Kong (insieme alla penisola Kowloon, i “Nuovi Territori” e oltre 200 isole) è collocata a circa 2000 Km da Pechino, al sud del paese, con accesso diretto al Mar Cinese Meridionale. Dunque già geograficamente questa città è situata in un luogo strategicamente conteso alla Cina, che da tempo sta giocando una partita a scacchi con gli Stati Uniti per il controllo di quelle che Pechino considera acque territoriali ed esclusive. Questo concetto di eccezionalità di Hong Kong è avvalorato anche dallo status politico: dal 1997 è una regione amministrativa speciale cinese, ovvero che formalmente è parte del territorio cinese, ma ha una forte autonomia. Questa diversa natura tra questa regione e il resto della Cina affonda le sue radici nella storia: dopo essere stata colonia britannica durante i secoli precedenti, dal 1898, grazie a una cessione di 99 anni da parte della Cina,  l’Inghilterra prese il controllo dell’amministrazione di Hong Kong, rendendola una realtà a sé stante all’interno del mondo asiatico. Il Regno Unito difatti impostò la regione con un’economia tipicamente occidentale, ovvero quella capitalistica (in base al modello americano), e così restò per tutto il mandato; con l’avvicinarsi della scadenza del permesso britannico, Cina e Inghilterra arrivarono ad un accordo nel 1984, la Dichiarazione congiunta sino-britannica: secondo questo accordo, dal 1997 la Cina avrebbe avuto nuovamente il controllo sulla regione, ma garantiva che per almeno 50 anni (fino dunque al 2047) avrebbe mantenuto il sistema economico e politico vigente.

L’ex presidente cinese Deng Xiaoping, protagonista della Dichiarazione del 1984. Foto: sg.news.yahoo.com

L’ex-presidente cinese, Deng Xiaoping, fu l’autore di una scelta che ha portato all’attuale problematica che riguarda la regione di Hong Kong: un paese, due sistemi, questo è il principio stabilito da Deng, il quale rende alquanto intricata la relazione tra Hong Kong e la Cina; difatti il principio della Dichiarazione sancisce l’unità nazionale e la sovranità unica della Cina, ma al contempo viene affermata la eccezionalità di Hong Kong, dal punto di vista politico, giuridico e legislativo, oltre al sistema economico differente.

Immagine delle proteste iniziate a Hong Kong nel 2014. Foto: dagospia.com

La Cina tuttavia non ha mai ceduto la sua presa sulla regione a lei strategicamente utile, continuando a insinuarsi nella città attraverso acquisizioni immobiliari di importanti proprietà, così da porre un controllo effettivo su questa dimensione anomala all’interno del territorio cinese. Pechino inoltre ha provato a minare l’autonomia politica e giudiziaria. In risposta, dal 1 luglio 2014 la città di Hong Kong diede inizio a una serie di manifestazioni conosciute come la rivoluzione degli ombrelli: il motivo scatenante era stato l’annuncio della proposta di una riforma elettorale (bocciata poi nel 2015) che fece iniziare delle occupazioni, come ad esempio l’occupazione dell’Ammiragliato, quartiere di Hong Kong, che durò da settembre 2015 per 79 giorni, prima di essere sgomberata dalla polizia (con circa 955 arresti e più di 1000 persone che denunciarono la polizia per i metodi utilizzati). Questa eccezionalità della regione di Hong Kong è dietro al motivo scatenante delle recenti proteste, cioè un tentativo di modifica della legge di estradizione. Hong Kong ha difatti questa particolare disciplina giuridica regolamentata da accordi bilaterali con 20 paesi, fatta eccezione per la Cina continentale, Macao, e Taiwan; la Cina ha proposto un emendamento che possa scavalcare questo blocco in riferimento ai reati di omicidio e violenza sessuale, e il timore dei cittadini della regione speciale è quello di una possibile ingerenza di Pechino per riuscire a estradare i dissidenti politici che si rifugiano nella città del sud della Cina per non cadere nelle mani del governo.

L’intromissione americana e una situazione sempre più a rischio

Durante le manifestazioni di questi giorni sono spuntate bandiere americane tra i manifestanti. Foto: nytimes.com

Il tentativo della Cina non è andato a buon fine, anche grazie a interventi esterni come quello dell’Unione Europea, che ha promosso una mozione per la situazione di Hong Kong, chiedendo al governo di Hong Kong di fare un passo indietro rispetto all’emendamento per l’estradizione e il divieto a tutti gli alleati USA di fornire armi alla polizia locale. Questo è stato solo uno degli interventi di Trump per colpire economicamente la Cina, la quale senza il suo polo economico (Hong Kong stessa) rischierebbe di vedere tutti i propri obiettivi, annunciati dal governo Xi, per il prossimo futuro andare alla deriva. Difatti questa crisi sempre più nera ha come principale effetto quello di minare la sovranità di Pechino, che rischierebbe di vedere allargarsi questo problema ad altre regioni con cui i rapporti non sono eccelsi (Macao, Taiwan, Tibet, Xinjiang e Mongolia interna) le quali potrebbero seguire l’esempio di Hong Kong. Esemplare come testimonianza di una possibile ingerenza interna è la forte sdrammatizzazione della situazione nella regione cinese da parte dei media USA e del governo stesso, che ha più volte esternato la natura pacifica delle proteste, in totale opposizione alla visione del governo cinese che definisce “terrorismo” le azioni dei manifestanti. Lo scorso mese il governo USA ha portato avanti tre progetti di legge che ribadirebbero il sostegno ad Hong Kong come partner commerciale speciale solo nel continuo e totale rispetto dei diritti umani (Atto sui diritti umani e la democrazia di Hong Kong), che inoltre di conseguenza vieterebbe l’esportazione commerciale di articoli militari e di sfollamento (Protect Hong Kong Act) e condannerebbe qualsiasi interferenza di Pechino nella regione.

Immagini delle recenti manifestazioni violente in queste ore. Foto: rep.repubblica.it

La Cina ha minacciato delle contromisure verso gli USA per queste ingerenze, mentre l’attenzione di Pechino e di Xi è sempre più concentrata su Hong Kong: nelle ultime ore è arrivata la notizia della morte di un anziano cittadino di 70 anni colpito qualche giorno fa da un mattone durante le manifestazioni, mentre gli studenti vestiti di nero con i passamontagna in testa hanno occupato la Chinese university of Hong Kong. Xi Jinping ha esternato fermamente la volontà personale e del governo di una normalizzazione della situazione, lasciando intendere sempre più un intervento militare imminente da parte di Pechino. Questo possibile scenario potrebbe avere ripercussioni interne e internazionali senza precedenti, mettendo la Cina in una posizione a dir poco difficile e rendendo così, quella che è vista come una strategia americana, efficace. La situazione è sempre più rischiosa e tesa e non si può prevedere quanto e se continuerà a durare questa crisi di Hong Kong, ma già qualche dato certo è emerso, dando ragione a chi pensa che Hong Kong possa essere un crocevia per la Cina e non solo: è di oggi il rapporto trimestrale che vede il PIL della capitale economica in recesso del 3,2%, e solo questa prima scossa di assestamento del terremoto che ha colpito Hong Kong non lasciare sperare la Cina in un prossimo futuro stabile.

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Lorenzo Ricchitelli

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