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Sport

Agostino Di Bartolomei, l’uomo tra due mondi

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Daniel Bonfanti

Francesco De Gregori ha deciso di omaggiare Agostino Di Bartolomei indossando una maglietta raffigurante il volto del calciatore durante i concerti del suo prossimo tour. Romano e romanista, il cantautore ha scelto di portare con sé sul palco il ricordo di Ago, capitano giallorosso troppo presto dimenticato, alieno al lusso e amante della letteratura, leader silenzioso simbolo di un calcio diverso da quello che siamo ormai abituati a consumare, più che a vivere.

La fotografia che accompagnerà il prossimo tour di Francesco De Gregori.

Il mondo del pallone ha abbandonato il capitano troppo presto, forse non l’ha capito fino in fondo. Ago invece aveva capito tutto, aveva intuito che il calcio era cambiato, che non c’era più spazio per quelli come lui. Il suo gesto estremo è arrivato per segnare il confine tra due periodi storici, tra due mondi opposti. 

Un capitano silenzioso

«A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi». 

Agostino Di Bartolomei era innamorato del calcio, ma dello sport in sé, non della sua rappresentazione. Dopo il suo ritiro aveva collaborato brevemente con la Rai, in occasione dei Mondiali di Italia ’90, in veste di commentatore sportivo. Aveva però scelto subito dopo di stabilirsi a Castellabate – paese d’origine della compagna – per dedicarsi alla sua passione lontano dalle luci dei riflettori, fondando una scuola calcio per trasmettere ai ragazzini la sua idea di questo sport. Un’idea che era un atteggiamento, che si rifletteva anche nel modo di stare in campo sì, ma che aveva le sue radici in un modo di essere, di vivere nel mondo. Il suo riserbo si manifestava nelle sue esultanze contenute – «per rispetto dei tifosi», diceva –, la sua eleganza nel suo tocco di palla delicato, la sua introspezione nella capacità di comandare la squadra in modo silenzioso. 

Non a caso dopo le giovanili alla Roma e il prestito al Vicenza, era stato il filosofo Manlio Scopigno a intuire le sue qualità e a credere fortemente in lui. Poi il definitivo salto di qualità con Nils Liedholm, la fascia di capitano al braccio, la possibilità di giocare nel ruolo di libero. Ago era un calciatore che non faceva della velocità la sua qualità migliore, anzi giocava da fermo, ma dalla posizione arretrata che il tecnico svedese gli aveva cucito addosso poteva dirigere i movimenti dei suoi compagni, disegnare traiettorie perfette, imporre i propri ritmi. Nella sua Roma Ago giocò undici stagioni, conquistò uno scudetto e tre Coppe Italia. Raggiunse soprattutto la finale di Coppa dei Campioni, che si giocò all’Olimpico contro il Liverpool e finì ai tiri dal dischetto. Nino non ebbe paura di sbagliare il calcio di rigore, lo segnò, ma la sua squadra uscì sconfitta da quella partita. Fu un colpo duro da mandar giù, per Ago ma in generale per tutto l’ambiente, perché occasioni del genere capitano una volta nella vita. La società scelse di superare questo evento con una rivoluzione, chiamò in panchina Sven-Göran Eriksson, che mise subito il capitano nella lista dei partenti: era troppo lento per le idee del nuovo svedese sulla panchina della Roma. Di Bartolomei seguì dunque Liedholm al Milan, giocò tre anni con i rossoneri per poi concludere la carriera tra Cesena e, infine, in Serie C con la Salernitana. 

Agostino Di Bartolomei con la maglia della Roma.

Poi il ritiro, gli anni bui della depressione, la volontà di trovare nella scuola calcio la forza di andare avanti in un mondo che non era più il suo. Abbandonato di fretta dalla sua Roma, il periodo milanista era durato poco: Ago aveva 32 anni, al Milan stava per giungere l’era Sacchi, il calcio da quel momento sarebbe cambiato per sempre e non avrebbe più potuto aspettare i suoi ritmi di gioco, e nemmeno rispettare il suo riserbo, la sua sensibilità. 

La carriera di Ago è finita probabilmente con la sconfitta in finale contro il Liverpool, il 30 maggio 1984. Esattamente dieci anni dopo, il 30 maggio 1994, nella sua villa a Castellabate si è sparato un colpo di pistola nel petto, mettendo fine alla sua esistenza ad appena trentanove anni. 

Un evento tragico e simbolico

Nello studio della storia le date sono importanti per la loro funzione simbolica, perché servono a tracciare un limite tra un periodo e un altro. Sono scelte dagli storici perché rappresentano il momento in cui un processo di cambiamento lungo degli anni giunge a compimento, e allo stesso tempo indicano l’inizio di qualcosa di nuovo, mai visto prima. Il suicidio di Di Bartolomei si può intendere così, come una data spartiacque, come un momento dal quale ormai tornare indietro sarebbe stato impossibile. Il calcio stava cambiando già da tempo, stava diventando uno sport più veloce, nel quale le qualità tecniche riuscivano sempre meno a sopperire le eventuali carenze atletiche. La velocità, la fisicità e l’atletismo avevano ormai preso la scena, e con esse anche un certo modo di vivere questo sport. La morte di Di Bartolomei è stato anche l’evento spartiacque tra un calcio antico, più a contatto con le persone, frutto di passione ed emozioni, e quello moderno, figlio della dimensione spettacolare che alimenta ormai tutti gli ambiti della nostra società.

La gloria per Ago è arrivata postuma, la sua storia è stata d’ispirazione per le canzoni di Venditti e De Gregori, per un film di Sorrentino, per i libri di molti autori. Ha in parte sopperito al silenzio che ha accompagnato il racconto della sua carriera e della sua vita, ancora oggi per molti sconosciuta. Non basterà però a restituire ad Ago quella serenità ricercata per tutta la sua esistenza, culminata con un atto tragico, coraggioso e simbolico: a dividere due epoche, a segnare indelebilmente la fine di un periodo storico e l’inizio di un altro.

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Daniel Bonfanti

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