L’ex Segretario di Stato USA Henry Kissinger ha detto non molto tempo fa che nelle cinque guerre combattute dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno raggiunto il loro obiettivo soltanto durante la Prima Guerra del Golfo. In quel caso, l’ingresso nel conflitto da parte degli Stati Uniti fu strettamente difensivo. L’attacco dell’Iraq di Saddam Hussein contro il Kuwait era infatti strumentale per entrare in Arabia Saudita. Gli Stati Uniti intervennero per proteggere un alleato senza esercito e che garantiva agli Stati Uniti un’importante riserva di petrolio.
Dagli anni 2000 in poi, la reputazione internazionale degli Stati Uniti è decisamente peggiorata. Le guerre in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), in particolare l’ultima, scatenata dalla premessa – poi smentita – che il dittatore Saddam Hussein possedesse armi chimiche, hanno minato la credibilità degli Stati Uniti, abituati da quasi un secolo a interessarsi direttamente degli affari di Paesi stranieri (ne abbiamo parlato qui in un articolo sull’ex Presidente Wilson). Tuttavia, per capire come gli Stati Uniti si sono guadagnati questa nomea occorre fare un riferimento a un evento chiave della guerra fredda.
Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973 del generale Augusto Pinochet è stato uno dei momenti chiave nella storia della politica estera americana. Il sostegno di CIA e Dipartimento di Stato all’operazione ha cambiato per sempre il modo con cui l’Occidente vede la democrazia americana. Beninteso, operazioni di questo genere non erano per niente rare da parte della diplomazia americana. Già in Vietnam, con l’appoggio al dittatore Ngô Đình Diệm, gli americani avevano dato ampia dimostrazione di cosa fossero disposti a fare pur di respingere la minaccia comunista. Il golpe cileno si configurava però in un contesto ben più preciso, e cioè quello delle relazioni con l’America Latina.
L’America Latina è sempre stata lo sbocco principale degli USA, fin dai primi anni dell’Unione. La dottrina Monroe improntava la politica estera americana all’isolazionismo da una parte e al dominio sulle Americhe dall’altra. Un dominio che cominciò con alcuni contenziosi con il Messico riguardanti i confini con il Texas e la California, si affermò con la guerra ispano-americana per il controllo di Cuba e si esasperò con i continui interventi in Centro America. Soltanto con la Politica del buon vicinato, grazie alla lungimiranza di Franklin Delano Roosevelt, gli Stati Uniti cambiarono registro con il sud del continente.
Per far dimenticare il sentimento anti-americano e anti-imperialista fortemente diffuso in America Latina, gli USA adottarono un approccio fondato su un rapporto paritario con quei Paesi. Non era affatto semplice e le ragioni dietro quell’antiamericanismo non erano più soltanto politiche, ma anche economiche. La crisi del ’29, scoppiata in America, portò al collasso i sistemi economici delle nazioni latinoamericane. Quei Paesi furono costretti a passare da un modello basato sulle esportazioni a un protezionismo che diventerà l’imprinting della lotta all’imperialismo statunitense di stampo capitalista.
Nel secondo dopoguerra, la guerra fredda diventò la principale preoccupazione di Washington. Oscillando tra containment e roll back, si arrivò all’Alleanza per il Progresso, un progetto di cooperazione economica tra Stati Uniti e America Latina avanzato dal Presidente John F. Kennedy. Un programma ambizioso, che si proponeva obiettivi di medio-lungo termine, come l’instaurazione di regimi democratici, l’alfabetizzazione totale della popolazione entro dieci anni e un incremento annuo del 2% del reddito pro capite. Obiettivi di difficile attuazione, che infatti vennero disattesi o in alcuni casi completamente rovesciati.
Molteplici in quegli anni i contatti diretti con Paesi retti da dittature “amiche”: dall’Argentina all’Ecuador, dal Guatemala alla Repubblica Dominicana, dal Perù alla Bolivia. Proprio in Bolivia morì uno degli eroi della lotta contro l’imperialismo americano, Ernesto “Che” Guevara. Il “Che” morì sul campo mentre incitava la guerriglia contro il regime militare di René Barrientos Ortuño, un generale boliviano di lunga data sostenuto da Washington. La scomparsa di Barrientos Ortuño nel 1967 diede inizio a dure lotte per il potere. Tra gli anni Settanta e Ottanta, socialisti ed estremisti di destra si contesero la guida del Paese tra colpi di stato e narco-dittature, ovvero dittature che pianificavano l’economia sull’esportazione di cocaina.
Bisogna aspettare solo i primi anni Ottanta per raggiungere una stabilità che più o meno si è mantenuta fino a oggi. Il Movimento Nazionalista Rivoluzionario, partito storico boliviano, è stato più volte al governo del Paese nel corso dello scorso secolo. Col ritorno alla democrazia, l’MNR si è spostato economicamente più a destra, proponendo una ricetta liberista già sperimentata in Cile, definita dai critici “neoliberale”, e alternandosi al governo con candidati indipendenti. Diversi membri della classe dirigente boliviana hanno completato il loro ciclo di studi negli Stati Uniti, così come i famosi Chicago Boys, ovvero gli accademici cileni formatisi nelle più prestigiose università di Chicago che hanno ideato il programma economico di Augusto Pinochet. Uno di questi è l’ex Presidente Eduardo Rodríguez, Capo di Stato dal 2005 al 2006, che vanta un master in amministrazione pubblica ad Harvard.
Nonostante l’alto spessore culturale dei suoi governanti, la Bolivia è entrata nel nuovo millennio con degli indicatori economici abbastanza negativi. La percentuale di popolazione che viveva in stato di povertà estrema nel 2004 era del 36%; il reddito pro capite nel 2006 era di 4.280 dollari a parità di potere d’acquisto, il più basso di tutto il Sud America; il PIL reale invece nel 2006 ammontava a 11 miliardi di dollari, il numero più basso di tutta l’America Meridionale dopo il Paraguay. Serviva una scossa al Paese ed è in questa situazione di malcontento che viene eletto Evo Morales, un ex sindacalista indigeno dei coltivatori di coca.
Nel 2005, Morales vinse di misura le elezioni con oltre il 50% dei voti, promettendo in campagna elettorale la nazionalizzazione di tutte le riserve di gas naturale, la ricollocazione delle terre, veri e propri latifondi, agli indigeni che lavorano in condizioni di schiavitù, ma soprattutto l’elezione di un’assemblea costituente che redigesse una nuova costituzione. Il MAS, Movimento per il Socialismo, diventa dunque il principale partito nazionale, conquistando la fiducia dei cittadini boliviani con un programma di estrema sinistra, opponendosi al cosiddetto estrattivismo.
La costituzione boliviana, approvata nel 2008 ed entrata in vigore nel 2009, è, insieme a quella ecuadoriana, l’unica che parla di Buen vivir. Con Buen vivir si intende una piattaforma giuridica e politica unica di alcuni Paesi come Ecuador e Bolivia, che hanno deciso di venire incontro alle necessità delle altre componenti sociali, ovvero i popoli nativi. Ecuador e Bolivia nel panorama mondiale, con l’introduzione del Buen vivir nelle loro costituzioni, si sono affermate come dei precursori di innovazioni volte a sostituire il sistema giuridico attuale, un sistema giuridico di chiare ascendenze europee e occidentali, con un sistema autenticamente andino. Un sistema proteso alla garanzia del modo di vivere dei popoli indigeni, ma anche all’opposizione agli effetti della globalizzazione di cui Morales contesta le politiche sociali “ampiamente irresponsabili”, l’economia estrattivista e l’omologazione culturale. Per questa ragione, si parla di Stato interculturale e plurinazionale e non multiculturale.
L’intento di questi Stati è quello di evitare i problemi del multiculturalismo, reo di aver confinato determinati gruppi in veri e propri ghetti. Ecco quindi che si diffonde il concetto di interculturalità, concepito come sostenibilità dello Stato plurinazionale. L’interculturalità, secondo Morales, pone attenzione al dialogo e all’interazione fra individui di gruppi differenti, mettendo l’accento sulla reciproca conoscenza tra essi, al fine di evitare il separatismo etnico, insito nel multiculturalismo. Con l’interculturalità si arriva a un modello civilizzatore a cui si è sempre uniformata l’America Latina. Un modello che incorpora la cultura indigena e il modo indigeno di fare diritto, di vivere, di approcciarsi all’esistenza.
Per capire meglio come Morales sia riuscito ad apportare così tanti cambiamenti in Bolivia, è necessario ripercorrere le tappe dell’integrazione culturale e sociale dei gruppi indigeni in America Latina. Si distinguono quattro fasi diverse. Nella prima fase, che coincide con l’epoca del periodo coloniale, segnata dall’approccio segregazionista, la conservazione dei gruppi indigeni è avvenuta sotto lo sfruttamento dei colonizzatori. La cultura indigena non è stata però completamente annientata. I conquistatori spagnoli seguirono la pratica dell’epoca, cioè il fatto che i diritti degli indigeni fossero fueros, quindi incorporati all’interno delle fonti consuetudinarie. Venne creato anche un nuovo diritto, il diritto “indiano”. Questo diritto indiano vigeva in America Latina convivendo coi sistemi di diritto dei popoli indigeni.
A questa prima fase ne segue un’altra, chiamata periodo assimilazionista, che si inaugura nei primi anni dell’Ottocento in concomitanza con l’indipendenza di nuovi Stati. Gli ordinamenti si dotarono all’epoca di costituzioni liberali. Ci fu un’imposizione della proprietà privata individuale, mentre per gli indigeni venne creata solo la proprietà intesa come proprietà collettiva. Nacque, perciò, uno Stato monoclasse, che rilanciò la formula del un solo pueblo, una sola nación, un solo estado. La costituzione del 1821 della Grande Colombia riconosceva le tribù erranti, a cui si offriva il beneficio della civilizzazione e della religione, quindi un’imposizione.
Con la terza fase, nei primi del Novecento si riconobbero le differenze culturali soltanto con lo scopo di annullarle e integrare i popoli indigeni. Fu una fase integrazionista. Si aprì nella prima metà del Novecento quando in America Latina si adottarono nuove costituzioni. A quei tempi c’era un’idea astratta di popolo, plasmato attraverso un’alfabetizzazione forzata secondo la lingua ufficiale. Si sviluppò un modello di organizzazione economica che non seguiva quello di questi gruppi. Infine si parla di costituzionalismo multiculturale, una fase iniziata alla fine degli anni ’80 del secolo scorso con la costituzione brasiliana post-dittatura del 1988. Le costituzioni latinoamericane di questo contesto storico erano caratterizzate dal riconoscimento del multiculturalismo. I gruppi indigeni finalmente poterono assistere al riconoscimento in costituzione dei loro diritti collettivi.
Morales ha quindi portato a termine una rivoluzione culturale che poneva al centro l’individuo indigeno, adesso non più emarginato dalla vita politica. Il leader socialista ha vinto tutte le elezioni dal 2005 al 2019, con una particolare eccezione: quest’anno si è dovuto dimettere. Dopo aver vinto il ricorso richiesto al Tribunale Supremo Elettorale sul limite di mandati che gli era stato imposto dal referendum da lui stesso perso, Morales ha vinto in circostanze controverse contro il candidato dell’opposizione, l’ex presidente Carlos Mesa. La costituzione prevede infatti che il candidato più votato ottenga almeno il 10% dei voti in più rispetto al secondo per evitare il ballottaggio. Durante lo spoglio, il conteggio delle schede è rimasto bloccato per una decina di ore. Il risultato parziale vedeva Morales avanti di 9 punti. Dopo parecchio tempo, lo spoglio si è sbloccato e il risultato definitivo vedeva Morales avanti proprio di 10 punti. Le opposizioni hanno denunciato brogli, mentre l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) non ha riconosciuto il risultato delle elezioni.
Morales si è inizialmente difeso contro le accuse di brogli, ma una volta messo alle strette ha deciso di concedere nuove elezioni. Su richiesta del capo delle forze armate, però, è stato costretto a dimettersi. Momenti di confusione in Bolivia: le opposizioni diffondono un mandato di cattura nei confronti del Presidente Morales, ma polizia ed esercito smentiscono queste voci. I manifestanti scendono in piazza a sostegno di Morales e i membri di MAS non riconoscono le azioni del nuovo governo boliviano, che intanto si è insediato con a capo Jeanine Áñez, Presidente del Senato, eletta tra i candidati del Movimento Democratico Sociale. Áñez precisa che la sua è solo una presidenza ad interim e che l’intento è quello di traghettare il Paese a nuove elezioni, a cui Morales non potrà però partecipare in prima persona. L’ex Presidente della Bolivia ora si trova in Messico, dove il Presidente Andrés Manuel López Obrador gli ha concesso asilo politico, mentre i suoi figli l’hanno ottenuto in Argentina.
La solidarietà nei confronti di Morales è arrivata quasi subito, mentre il leader indigeno urlava su Twitter a un golpe in Bolivia civico-militare-politico. La tesi condivisa dai suoi sostenitori è quella di un colpo di stato ordito dagli americani. Effettivamente i rapporti tra Morales e la Casa Bianca non sono stati mai cordiali. Basti pensare che l’ultimo ambasciatore boliviano negli Stati Uniti è stato nominato nel 2008. La nuova presidente Jeanine Áñez non ha indugiato e nel giro di una settimana ha nominato Walter Oscar Serrate Cuellar ambasciatore temporaneo a Washington. La ministra degli Esteri Karen Longaric ha parlato di una mossa che spiana la strada a un nuovo inizio per le relazioni tra USA e Bolivia.
Gli ambienti della sinistra radicale vicini a Morales sono convinti che ci sia stato un golpe in Bolivia voluto dagli americani, interessati all’immensa riserva di litio presente nel paese. È della stessa opinione il Sottosegretario agli Esteri del Movimento Cinque Stelle Manlio Di Stefano. «Queste riserve – ha spiegato Di Stefano in un post su Facebook – hanno sempre fatto gola a tanti, troppi, ed è gravissimo il sospetto che dietro i fatti degli ultimi giorni ci sia anche la volontà di aggredire le risorse del Paese sottraendole alla collettività». Di Stefano parte da un assunto giusto: la Bolivia è il secondo Paese al mondo per riserve di litio, con 9 milioni di tonnellate, dietro l’Argentina (14 milioni di tonnellate). Lo United States Geological Survey (USGS) è però pronta, nel prossimo aggiornamento statistico, a rivedere al rialzo le stime per la Bolivia, portando le riserve del Paese da 9 milioni di tonnellate a 21 milioni di tonnellate.
Tuttavia, occorre precisare che la presenza di una quantità così elevata di litio non corrisponde a un’altrettanta produzione. «La Bolivia potrebbe avere molto più litio dei suoi vicini, ma la domanda che dobbiamo porci è se può estrarlo in maniera fruttuosa», ha spiegato a Foreign Policy Brian Jaskula, uno specialista di minerali che lavora attualmente per l’Usgs. Il litio boliviano è collocato troppo in profondità per essere estratto con un costo-opportunità vantaggioso. Estrarre litio in Bolivia è da anni economicamente meno conveniente rispetto a quanto avviene già in altri Paesi. Uno dei motivi, tra gli altri, del perché la Bolivia non compare tra i primi otto produttori al mondo del metallo argenteo. L’incertezza dei mercati sul litio e le difficoltà estrattive in Bolivia, secondo Foreign Policy, dimostrerebbero inoltre la fallacia della teoria secondo cui l’ex presidente Evo Morales è stato destituito in quanto visto come un ostacolo dagli investitori stranieri (tra cui gli Stati Uniti) nel mercato dell’estrazione del litio.
È da escludere, perciò, una manovra architettata per accontentare gli investitori stranieri. Le difficoltà nell’estrarre questo metallo argenteo c’erano sotto Morales e continueranno ad esserci anche dopo di lui. È lecito invece chiedersi si sia trattato di un vero e proprio colpo di stato. Le intimazioni dell’esercito fatte a Morales, un ammutinamento bello e buono, hanno costretto l’ex Presidente a lasciare in fretta il Paese. L’attuale Presidente Jeanine Áñez era la sesta in ordine di successione a cui spettava l’incarico di formare un nuovo governo. Quelli prima di lei, tutti del partito MAS, sono stati arrestati, hanno boicottato il nuovo parlamento oppure hanno abbandonato il Paese. Diverse sono state inoltre le denunce presentate da Amnesty International e dall’ONU su alcune violazioni dei diritti umani nelle ultime settimane.
Il vuoto di potere ha creato una situazione di precarietà, che ha lasciato confuse le stesse opposizioni, convinte addirittura che Morales abbia addotto a un golpe in Bolivia che non c’è mai stato. La presidente Áñez, comunque, ha già annunciato nuove elezioni, a cui non potrà però partecipare Morales. Comincia dunque un periodo nuovo per la repubblica andina. Un periodo difficile, caratterizzato da incertezze e pericoli autoritari.
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