Se si è in cerca di una copia de La misura del tempo (Einaudi 2019), ultima fatica letteraria dell’ex magistrato Gianrico Carofiglio, e ci si trova di passaggio a Bari, la soluzione più ovvia è recarsi alla libreria Feltrinelli di via Melo. Qui, ci si può fermare a sfogliare il romanzo su delle poltroncine nere, ignorando il leggero brusio degli altri lettori. Sennonché, a un certo punto, si scoprirebbe che l’avvocato Guerrieri, in un pomeriggio noioso, ha deciso di fermarsi per una breve passeggiata letteraria proprio alla Feltrinelli di via Melo.
A quel punto sarebbe difficile reprimere l’impulso di voltarsi e controllare se il personaggio del romanzo non si sia materializzato, in carne e ossa, alle proprie spalle. È una sensazione buffa, ed estremamente toccante. Ma del resto, non è necessario trovarsi in uno dei suoi luoghi letterari per sentirsi coinvolti dalla scrittura di Carofiglio, intima e precisa, che sembra parlare direttamente al lettore.
Questa voluta complicità è una cifra stilistica ben precisa, che caratterizza un po’ tutta l’opera dell’autore; basti pensare, ad esempio, a Né qui né altrove (Laterza 2008). Ciò che rende diverso La misura del tempo, però, è l’alternanza tra passato e presente. Per la precisione, tra un presente ripetitivo, tedioso, e un passato dalle connotazioni sfocate, quasi oniriche, ma al tempo stesso terribilmente vivide. Il romanzo è un’altalena tra ieri e oggi, tra il 2019 e i primi anni Ottanta. Presenta dunque una sapiente alternanza tra i capitoli; alcuni sono ambientati ai giorni nostri, altri in un tempo lontano. Un tempo che non può ritornare, ma che ha ancora qualcosa da dire. Qualcosa che, forse, si era cercato di rimuovere.
Il primo romanzo con protagonista l’avvocato Guido Guerrieri è Testimone inconsapevole (Sellerio 2002). La serie che narra le sue imprese, giudiziarie e personali, è poi proseguita con Ad occhi chiusi, Ragionevoli dubbi, Le perfezioni provvisorie e La regola dell’equilibrio, fino ad arrivare a La misura del tempo. L’avvocato Guerrieri è stato il personaggio-rivelazione di Gianrico Carofiglio, un po’ come il commissario Montalbano per Andrea Camilleri.
Naturalmente, la produzione di entrambi gli autori si estende ben oltre il perimetro delle opere relative a questi protagonisti cult. Ne è un esempio Il passato è una terra straniera (Rizzoli 2004), opera di Carofiglio da cui è stato tratto un film di Daniele Vicari. Tuttavia, quei protagonisti-simbolo hanno avuto un ruolo da apripista, facendo conoscere i rispettivi autori al grande pubblico. Il punto, in realtà, è che l’avvocato Guerrieri parla al cuore delle persone. E lo fa, beninteso, senza volerlo; ma, certamente, per merito del suo creatore.
Carofiglio, infatti, indulge a più riprese in riflessioni profonde, ma al tempo stesso fa un uso ragionato della narrazione quotidiana: momenti rubati a un giorno qualunque, e per questo talvolta persino banali, ma impreziositi da qualche buffa idiosincrasia o da uno sprazzo di tenerezza. C’è poi l’elemento-cardine, il perno intorno a cui ruota l’intero romanzo: la vicenda giudiziaria. Narrata con perizia, forse persino con un po’ di pedanteria agli occhi dei profani. Ma tanta dovizia di particolari si rivela preziosa, nella misura in cui fornisce dettagli rivelatori per la soluzione dell’indagine. È dunque un elemento fondamentale per la costruzione della trama, che risulta scorrevole anche per chi è estraneo all’ambiente legale. Il tono della voce narrante, poi, è caldo, a tratti persino intimo: resta vicino al cuore e alla mente.
È per questo che è così semplice, quasi spontaneo, rispecchiarsi nell’avvocato Guerrieri. E lo è a maggior ragione per il lettore barese, che si ritrova praticamente catapultato in una dimensione parallela, in cui i luoghi familiari – il quartiere Libertà, via Sparano, la già citata Feltrinelli di via Melo – diventano scenario di un romanzo di cui ci si sente coprotagonisti, o almeno comparse. Tutti questi elementi compongono La misura del tempo, come tessere di un mosaico.
Un mosaico, però, la cui essenza va ben oltre. Mai come in questo caso, infatti, il tutto è maggiore della somma delle sue parti. Siamo di fronte a un romanzo che è innanzitutto un richiamo al nostro Io più profondo. Una sorta di invito implicito, più o meno intenzionale, ad ascoltare il nostro passato anziché cercare di ignorarlo (o addirittura rinnegarlo).
È bene, invece, prestare ascolto ai ricordi sopiti che tornano a bussare alla nostra porta, magari perché risvegliati da un evento concreto. L’idea che ci sia un legame profondo tra ciò che siamo stati e la nostra identità attuale è il filo rosso di tutta la narrazione, e al tempo stesso il suo presupposto. Il passato spiega il presente, e in parte lo costituisce, lasciando traccia di sé nelle nostre vite, ordinarie e spesso troppo frenetiche – o disattente, o autocompiaciute – per accorgersi che esso permane, sottotraccia, in una miriade di frammenti impalpabili, nel tempo attuale.
La voce narrante assume toni talora asciutti, ma che indulgono spesso all’ironia, secondo lo stile dell’autore: un piccolo stratagemma, forse, per spezzare la tensione data dal continuo susseguirsi di interrogatori, udienze, confessioni. Carofiglio riesce a passare con scioltezza dagli aspetti tecnico-giuridici della vicenda – godibili, si è detto, anche per il lettore non specialista – a quelli più speculativi, che penetrano a fondo nella psicologia del protagonista, e ce ne restituiscono un’immagine vivida e coinvolgente: quasi uno specchio. Ma per gli amanti del legal thriller all’italiana – genere narrativo di cui lo scrittore barese è stato un iniziatore – e anche per chi vi si approccia per la prima volta, non meno coinvolgente si rivela la vicenda giudiziaria, che riguarda un ragazzo di poco più di vent’anni, Iacopo Cardace. Accusato – ingiustamente? – di omicidio, il giovane imputato si trova in una posizione difficile: ad assumere le sue difese sarà proprio l’avvocato Guerrieri.
Ma una delle tessere più preziose di questo mosaico così articolato e vario, che – forse – vale da sola l’intero romanzo, è il discorso tenuto da Guerrieri a una piccola platea di giovani magistrati alle prime armi. Una dissertazione chiara e lineare, resa decisamente comprensibile dai riferimenti puntuali a certi elementi irrinunciabili della realtà quotidiana: i nostri diritti, le discriminazioni (fatte e subite), i dilemmi morali. Non occorre aver studiato Giurisprudenza – o Filosofia – per comprendere le osservazioni di Guerrieri e per coglierne la forte rilevanza: il nostro agire è sempre un agire morale, mosso da valori, da principi etici e convinzioni, personali e condivise, anche quando non ce ne rendiamo conto. È una delle lezioni più ovvie, e al tempo stesso più difficili, da imparare nella vita.
Vale la pena ricordare, infine, una grande verità: la storia della letteratura è ricca di autori che, prima di armarsi di penna e calamaio, svolgevano tutt’altro mestiere, e che forse nemmeno immaginavano di riuscire a pubblicare un libro. Gianrico Carofiglio ha scelto, dopo anni trascorsi nelle aule giudiziarie, di posare la toga da magistrato per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Non spetta certo ai lettori valutare se sia stata la scelta giusta: ma di sicuro, per noi, è una fortuna.
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