Dovevano farlo ancora una volta, dice Scorsese ad Esquire: un altro film insieme, lui e De Niro. Questo progetto è stato in preparazione per dieci anni, pur mutando forma. All’inizio doveva essere una trasposizione del thriller L’inverno di Frankie Machine di Don Wislow. Scorsese però perse entusiasmo al riguardo: fare un film di genere è un’operazione difficoltosa per lui, e «quando sei vecchio, non c’è più tempo». Forse si può pensare che intenda: non c’è più tempo per imbarcarsi in progetti che non stiano a cuore allo stesso regista. Forse è proprio per questo che Silence (2016), il penultimo film Scorsese, è stato considerato il suo lavoro più personale, e che The Irishman (2019), è stato descritto di nuovo come uno dei più personali. Entrambi sono due progetti con una lunga gestazione, Silence addirittura si avviò nel 1990, ed entrambi corrispondono all’esigenza di riunire gli elementi di una vita. Su Silence a Deadline Hollywood:
«As you get older, ideas go and come. Questions, answers, loss of the answer again and more questions, and this is what really interests me. Yes, the cinema and the people in my life and my family are most important, but ultimately as you get older, there’s got to be more… Silence is just something that I’m drawn to in that way. It’s been an obsession, it has to be done… It’s a strong, wonderful true story, a thriller in a way, but it deals with those questions».
Curiosamente, invece, è proprio con The Irishman che al primo posto ci sono le persone: De Niro, Pesci, la collaborazione tanto attesa e ancora inedita con Al Pacino. Una volta esorcizzata l’ossessione più interiore e solitaria che ha nutrito Silence, era il momento di guardare ancora a quelle cose ugualmente importanti già citate: come la famiglia, ma dalla prospettiva di un uomo solo. Dopo il rapporto con Dio, il rapporto con i propri cari, che in The Irishman assume un senso metacinematografico e tematico. Fu De Niro a portare all’attenzione del regista il libro I Heard You Paint Houses di Charles Brandt, biografia del mafioso Frank Sheeran. Ed è stata la passione con cui ne parlava De Niro a convincere Scorsese, avviando il progetto nel 2007.
Un viaggio nella memoria
Le difficoltà di gestazione di The Irishman sono state anche produttive: dopo la rinuncia dei diritti di distribuzione da parte di Paramount Pictures, a comprare il film è stata Netflix, lasciando carta bianca al regista, per un costo totale di 160 milioni. Nonostante il precedente flop del pur meritevole Silence, Netflix ha lavorato in grande per quest’ulteriore operazione di legittimazione culturale, sapendo d’altronde di poter guadagnare a lungo termine sul film. La grossa spesa si spiega anche con l’esosa parte dello “svecchiamento” digitale degli attori principali. Il film infatti ricopre un largo periodo di tempo: si va dai quarant’anni dei protagonisti fino alla vecchiaia. Ed è proprio perché non avrebbe potuto fare il film se non con i volti storici dei suoi attori feticci ed amici che Scorsese ha rifiutato il più naturale casting di attori più giovani per le parti ambientate in un remoto passato.
The Irishman allora si carica sin dai suoi effetti visuali di un discorso sulla vecchiaia pervasivo, sulla morte e in parte sull’irripetibilità. Un altro film insieme a De Niro è un film, dopo Mean Streets, Goodfellas, Casino, di nuovo di mafiosi, con quel tempo epico – il film non solo ricopre una tale parte di vita, ma dura tre ore e mezza – del racconto di un’ascesa e discesa nel proprio ambiente. Ognuno si porta la storia della propria carriera sul proprio volto, compreso l’esterno Al Pacino con Scarface e Il padrino. La storia di un’icona, forte della contrapposizione, pare davvero scritta sui lineamenti: in quei segni digitali di camuffamento, che pure non lasciano mistero dello stato attuale del volto che modificano. Si crea dunque una stratificazione: se gli occhi resi celesti di De Niro sono il segno di un’operazione effettuata sul suo volto, di ringiovanimento, rimangono i gesti, il volto immusonito, strati di pelle tirati di un’attore di settantasei anni. Proprio per contrapposizione con il De Niro sempre conosciuto e attraverso la nostra coscienza di come fosse da giovane, questo De Niro sembra una cosa a parte, vagamente irreale.
Si tratta di un segno di irrealtà ben inserito in un suo contesto più grande: in un film che inizia in primis con la narrazione di un Frank Sheeran/De Niro – l’attore attuale e originale – che rievoca la sua storia, in una casa di riposo, in attesa della morte. Il resto del film, attraverso la sua voce narrante, è un ricordo del passato. La rievocazione della memoria non ha mai l’obbligo di una verità cronachistica, e se nel film talvolta irrompono immagini di archivio, appaiono quasi estrinsechi alla voce narrante, un semplice fatto manifestato. Ecco che The Irishman è una storia di fantasmi: il contorno delle scene precedenti è ancora interiore, è il tentativo di un individuo – De Niro, come lo stesso Scorsese – di ricordare e di evocare, destreggiandosi tra le rughe di un punto raggiunto ineliminabile e i riverberi di un altro tempo che ha significato tanto per le carriere dei singoli coinvolti nel progetto.
Ed è anche un pezzo di Storia, ancora quel ventennio ripassato e ripassato degli anni Sessanta-Settanta per la cultura nordamericana, e che è anche il ventennio della nascita della New Hollywood (protagonista anche in C’era una volta..a Hollywood, in testimonianza di una memoria collettiva ancora vivissima) e la carriera registica di Scorsese. Anche in Tarantino, d’altronde, non rivive esattamente il tempo storico rievocato, anch’esso viene modificato, reso artificio e piegato alla brillantezza della memoria.
Gli stessi riti e gesti del mondo criminale reso precedentemente leggenda in The Irishman si indeboliscono, sono svuotati di qualsiasi estetizzazione barocca: non c’è commento musicale né virtuosismo intorno alle esecuzioni e uccisioni di Sheeran, sono anzi pratiche fulminee e simili a tante già fatte, da cui si corre via per nascondere le tracce. L’unico suono è, magari, un saluto a Frank subito freddato da uno sparo, un corpo che cade. L’assassinio e la morte dunque non hanno nulla di spettacolare. C’è la voglia di accumulazione di denaro, figlia della cultura capitalistica, già manifestata in Goodfellas, Casinò o il più recente The Wolf of Wall Street, ma non c’è, ad esempio, alcun esibizionismo manifestato da DiCaprio, non pare neanche una vera e propria sete di denaro, quanto più un dovere di protezione e cura del proprio nucleo familiare (più bambini, più soldi, dice Sheeran).
Sheeran, di origini irlandesi, è un reduce di guerra, ha combattuto in Italia durante la Seconda guerra mondiale, e dalla guerra ha ereditato una certa pratica omicida, portata avanti dal puro bisogno di sopravvivere. Proprio la conoscenza dell’Italia crea un legame con un influente boss italo-americano, Russell Bufalino (Joe Pesci). Bufalino sarà circondato da un rispetto doveroso, motivo, talvolta, di tanti riti di morte attuati: non soltanto il bisogno di arricchirsi, dunque, ma di rimanere in una rete, senza calpestarne i fili più importanti. Quel concetto di famiglia così importante per Scorsese, raggiunta la sua età, qui si carica di tutti i lati ambigui e perversi del caso, come si può aspettarsi da una comunità mafiosa. Il «solidarietà!» urlato dal politico Hoffa (Al Pacino) è anche l’unione tra politica e crimine, il supporto reciproco che ne deforma gli aspetti di derivazione cristiana.
La religione però non manca: sempre sentita dal regista, dalle visite in Chiesa in Mean Streets, passando per L’ultima tentazione di Cristo, fino a Silence. Il tentativo è sempre stato quello di umanizzare la religione e le figure religiose (Cristo, i gesuiti), talvolta raffigurandola poi in contesti dove la devozione religiosa è ben lontana dall’essere effettivamente praticata, ma rimane un gesto, un’abitudine, un speranza nel momento del bisogno, come in quello criminale. Il confronto con la religione è un mezzo per parlare di un più profondo confronto con la propria coscienza. Se uno dei tanti reati, delitti o malefatte lascerà indenne l’artefice di turno, non si peccherà più, salvo poi continuare a peccare. Dio è remoto, ma la famiglia non altrettanto. Il più forte richiamo alla coscienza è quello dell’espressione muta della figlia di Sheeran, Peggy (Lucy Gallina/Anna Paquin): una silente accusa, una crescente delusione, fino alla frattura insanabile.
The Irishman è un film sulla famiglia, sul concetto di amicizia, di tradimento, e sulla problematica fedeltà di un individuo tra più famiglie: quella criminale, dove vi sono amici di una vita, e il nucleo familiare più propriamente detto, biologico. I confini fra di esse non sono netti, si attraversano e allo stesso tempo non si compenetrano mai. I fantasmi che Frank visita nella solitudine della casa di riposo sono anche i resoconti di una vita di colpe, di fatali decisioni che hanno confermato un legame, ma ne hanno gravemente compromesso un altro. «I heard you paint houses», si dice all’inizio del film. È l’inizio di un viaggio compiuto insieme a Russell e le rispettive mogli, e che ben presto si configura come un viaggio nella memoria, saltando in modo non-lineare da un tempo all’altro.
Un viaggio di resoconto paragonabile a Il posto delle fragole di Bergman: per l’ombra spettrale, mortifera che incombe sul protagonista anziano, calata nel contesto irreale di un incubo, anch’egli ripercorre un itinerario di ricordi, carico di colpe, di errori. «I heard you paint houses» si colloca, all’avvio del viaggio, proprio in una diramazione stradale: è un modo di dire, infatti, per parlare di sicari, di sangue versato. Si moltiplicano i rimandi ancora più svuotati alla morte: non più un gesto visualizzato, eseguito, mostrato, ma un semplice fermo-immagine con una scritta sovraimpressa. Alla presentazione di personaggi secondari, si ricorda il modo in cui sarebbero morti: l’età, la data, il modo. Niente di più.
The Irishman è chiaramente crepuscolare: è il racconto di un superstite di un mondo che progressivamente ha cancellato i protagonisti di una vita, ed è anche un racconto di solitudine. Non è solo Scorsese che opera con spettri di attori, persone, epoche storiche e fortune cinematografiche, ma è anche la solitudine di un uomo, Frank Sheeran, che agli ultimi momenti della propria vita constata un’inaggirabile solitudine. Ha qualcosa in comune con Silence, con quel sacro silenzio del padre spirituale, Dio, di fronte alla brutalità di ciò che si vede e del proprio trascorso, un legame vivo e al contempo negato nelle sue manifestazioni più evidenti. Sheeran, deprivato della famiglia, si ritrova da solo. Questa volta il silenzio inscalfibile è quello della figlia. Agisce contemporaneamente una condizione esistenziale (si muore da soli, dice lo stesso Scorsese) e il risultato delle proprie azioni trascorse: paradossalmente Sheeran diventerà colui che, a differenza di molti altri personaggi della storia e di suoi cari, potrà avere il tempo di meditare, preparare tutti i segni esteriori della propria morte, quali la sepoltura; una sorta di lugubre privilegio e un peso.