Il genocidio armeno ebbe inizio nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1915: le uccisioni di giornalisti, scrittori, intellettuali e parlamentari armeni culminò con la deportazione in lunghe marce verso il deserto siriano. Anche a distanza di cento anni dagli avvenimenti che lo riguardarono, è necessario ricordare il genocidio armeno.
Chiamato così dallo storico polacco Raphael Lemkin per l’estensione che raggiunse il massacro, il genocidio è ormai un ricordo flebile, per i turchi è un tabù, e per l’impossibilità di metterlo completamente da parte si decide di negarlo. Le radici di questa amnesia collettiva dimorano nell’integrità dell’identità nazionale che la Turchia ha sempre cercato di conservare, grazie anche a fonti storiografiche ufficiali fornite dallo Stato turco. Come ci ricorda Ernest Renan nel suo saggio Che cos’è una nazione del 1882: «L’oblio e l’errore storico sono fattori essenziali della creazione di una nazione».
Tra i negazionisti c’è chi si appella proprio alla definizione di genocidio, giudicandola impropria, mostrando dati che ridimensionano il numero dei morti a duecentomila e negando la premeditazione del massacro. Altrove si preferisce chiamare in causa la locuzione latina pacta sunt servanda [i patti devono essere rispettati, N.d.R.], adducendo alla firma sul trattato di Losanna nel 1923, il quale concesse l’amnistia a molti dei generali giudicati colpevoli nei processi antecedenti al trattato. Processi riguardanti, fra le altre cose, le responsabilità nel genocidio armeno. Chi invece non cerca di andare troppo lontano specifica come molte vittime ci siano state anche tra i turchi, e che i colpevoli furono proprio gli armeni, arruolati in battaglioni di volontari tra le file dell’esercito russo durante la prima guerra mondiale.
Al momento, il genocidio armeno è riconosciuto da ventinove stati, tra cui non c’è la Turchia. Tralasciando le fonti armene, che portano il numero dei morti a due milioni e mezzo, gli storici sono concordi nell’individuare una cifra tra cinquecentomila e due milioni. E resta difficile persino tenere il conto degli armeni sopravvissuti al massacro, così come dei loro discendenti, ormai dispersi per il mondo. Nel novembre 2013, una conferenza consacrata agli armeni islamizzati e “turchizzati” di Istanbul occupa quattrocento posti di una sala dell’Università del Bosforo. Lì, molti di questi discendenti hanno finalmente la possibilità di aprirsi e raccontare ciò che i loro avi hanno vissuto, e rompere finalmente il silenzio sulle loro origini.
Come mai tale orrore non è più diffusamente riconosciuto come genocidio? In questo periodo, è soprattutto la serenità delle relazioni diplomatiche con la Turchia a imporne il riserbo. Mustafa Kemal Atatürk, padre fondatore dell’attuale Repubblica Turca, non ha mai esitato nel condannare i dirigenti del partito ottomano Ittihad ve Terakki (conosciuto come Comitato Unione e Progresso, CUP), giudicati colpevoli nel 1926 di aver organizzato il massacro e giustiziati. Per questo, laddove per un secolo il genocidio è stato negato, sminuito e mistificato, le attuali remore nel riconoscere il fato degli armeni di Turchia appare come un fatto incredibile, incomprensibile. Il motivo traspare, secondo alcuni studiosi, nei legami tra la Turchia moderna e l’Impero Ottomano nei suoi ultimi anni di vita. Essi meritano una riflessione più profonda su ciò che ha dato inizio al genocidio armeno, e in particolare sull’identità estremamente nazionalista dello Stato turco.
L’avvento del nazionalismo turco
Dato il carattere multietnico dell’Impero Ottomano, e l’estensione del suo territorio tra Anatolia, Africa e Asia minore, parlare di nazionalismo turco può sembrare impossibile ma è nei primi anni del novecento che François Georgeon, storico francese, individua i passi dell’evoluzione di questo sentimento.
Tra il 1894 e il 1896, il sultano Abdulhamid II, di fronte al crescendo delle rivendicazioni sociali provenienti dai gruppi progressisti armeni, sceglierà la strada della repressione, provocando oltre duecentomila vittime. I giovani studenti ottomani, sedotti dal vento riformista proveniente da occidente, si organizzano in veri e propri partiti politici. Tra gli altri, troviamo la Federazione Rivoluzionaria Armena (FRA) e il partito social-democratico Henchak, che presentano al sultano le istanze della comunità armena. Chiedono una riforma dell’Impero, delle tasse (più elevate per gli armeni rispetto alle altre minoranze) e una fine delle repressioni, elemento ricorrente nell’Impero Ottomano.
Nel 1908, il sultano, dopo trent’anni di potere dispotico, decide di cedere alle pressioni dell’armata macedone, in rivolta nei Balcani. Rinstaura la costituzione ottomana che lui stesso aveva sospeso anni prima (Tanzimat), e permette così al Comitato Unione e Progresso (CUP), che godeva del sostegno delle forze armate, di attuare la rivoluzione. Una rivoluzione liberale e costituzionalista, che organizzò i diversi gruppi ideologici in un unico movimento, denominato dei Giovani Turchi. L’obiettivo della rivoluzione era ridefinire la struttura dell’Impero Ottomano per far fronte alle sfide del nuovo secolo. L’ultimo atto del sultano, nel 1909, fu l’avvio di nuove persecuzioni verso gli armeni della provincia di Adana, nel sud-est del Paese, e in cui trovarono la morte dai ventimila ai trentamila armeni, e circa 1300 assiri.
Con l’instaurazione della Tanzimat, nel 1878, e il processo di modernizzazione dell’Impero, i capitali europei confluirono per la maggiore nelle mani delle minoranze cristiane, pur contribuendo a consolidare una classe media turco-musulmana. Nei mesi, e anni, successivi al massacro di Adana, i Giovani Turchi compresero che la costruzione di un nuovo Impero doveva forzatamente procedere per l’appropriazione di quelle ricchezze e capitali industriali che le bourgeoisies non musulmane avevano accumulato. Questo non solo per la facilità di ricondurre l’Islam ad aggregante nazionale, ma anche e soprattutto per l’autonomia culturale, politica e sociale di cui le minoranze cristiane godevano nell’Impero. La ricchezza, nel biennio 1913-1915, era detenuta per la maggiore da greci, per più del 50%, armeni (20%) ed ebrei (5%).
L’obiettivo alla base della riforma sociale promulgata dai Giovani Turchi era dimostrare come il capitalismo occidentale non fosse qualcosa da rigettare, ma al contrario un progetto in cui investire, un modello cui aspirare per la forma del nuovo Stato turco. La propaganda e l’educazione a un nazionalismo turco furono quindi funzionali a un nuovo assetto dell’economia: tramite il boicottaggio di quei settori commerciali in mano alle minoranze, si redistribuiva la ricchezza verso quella classe dirigente turco-ottomana che stava attuando la rivoluzione. Il nazionalismo turco, inoltre, nacque calcando le idee alla base dei movimenti sociali e reazionari che stavano maturando nel Vecchio Continente. Gli stessi Giovani Turchi si rifacevano alla Giovine Italia di Mazzini, in cerca com’era anch’essa di un’identità nazionale.
Il genocidio armeno fu l’evento che segnò un punto di svolta nelle relazioni turco-arabe e decretò definitivamente il divorzio tra i turchi e ogni altra minoranza, nonché dalla democrazia liberale. È importante notare come gli Armeni furono privati dei loro diritti in modo sistematico, con lo stesso modus operandi con cui saranno trattate in seguito le altre minoranze. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’élite turco-ottomana, rappresentata dal potere dittatoriale dei Tre Pascià, vede una possibilità unica di riacquistare la grandiosità perduta dell’Impero. Il 28 ottobre 1914, la Turchia entra in guerra a fianco degli Imperi centrali. Approfittando del conflitto, l’armata ottomana si reca nel Caucaso del sud per liberarlo dalla presenza russa. La sconfitta sarà bruciante a tal punto che la vendetta dei turchi si abbatterà sugli armeni, nell’aprile del 1915, colpevoli di complicità con i russi.
Nei mesi successivi, circa un milione di persone periranno nel massacro: chi di stanchezza nelle lunghe marce verso la regione di Deir ez Zor in Siria, chi di fame, chi di malattia, chi massacrato dall’esercito turco a capo delle deportazioni. L’Impero Ottomano ha voluto regolare dei conti che non aveva più in potere di regolare altrove sulle spalle degli armeni. Pur essendo la cifra principale del genocidio del 1915, gli armeni non furono i soli: i greci ottomani, gli assiro-caldei e gli yazidi furono anch’essi vittime di massacri e deportazioni atte ad annientarli come comunità. Alla fine della guerra, l’Impero Ottomano è smembrato e sconfitto. Occupato dalle forze francesi, greche e britanniche, sarà salvato dalla guerra d’indipendenza di Mustafa Kemal Atatatürk, che trasformò i resti dell’Impero nell’attuale Repubblica turca, e che è oggi considerato come il salvatore della patria.
Da Atatürk a Erdogan, due facce della stessa medaglia
Un crimine, che non è riconosciuto e condannato come tale, può evidentemente ripetersi, in molti modi. Dopo le persecuzioni e le deportazioni del 1915, gli armeni e i greci che erano sopravvissuti alla prima guerra mondiale furono in grado di riconquistare le loro abitazioni, specialmente a Istanbul. La città, a maggioranza popolata da cristiani nel 1914, fu l’unico luogo in cui le due etnie convissero dopo il massacro.
Nella neonata Repubblica di Turchia, ogni elemento dell’ideologia ottomana sarà fatto sparire in favore della “modernità”, dal caratteristico Fez alla lingua, abbandonando la scrittura araba per l’alfabeto latino. Questo permise che decine di migliaia di nomi geografici a consonanza armena, assira, curda o araba fossero rimpiazzati per sempre da nomi a consonanza turca. Mentre cercava di creare una nazione moderna, Atatürk liberava l’Anatolia da tutte le popolazioni cristiane e le dava finalmente un’identità, fornendo mandato politico al nazionalismo turco. Migliaia di chiese e monasteri furono fatti saltare in aria. La popolazione armena nell’Impero, nel 1914, era di circa due milioni. In tutto l’Impero si trovavano circa cinquecento chiese e quattrocento monasteri armeni.
Oggi, la popolazione armena rimasta in Turchia raggiunge le sessantamila unità; le chiese e i monasteri rimasti sono quaranta, di cui trentaquattro solo a Istanbul. Nel 1934, la stessa sorte degli armeni e dei greci si abbatteva sugli ebrei della Tracia. Durante la II guerra mondiale una tassa, che cercava di combattere gli “speculatori”, in realtà si rivela una richiesta di denaro affidata agli agenti municipali del territorio, che l’apprezzavano arbitrariamente. Un armeno, per esempio, poteva vedersi reclamato cinquanta volte la somma richiesta a un musulmano. Nelle province orientali, i curdi, che avevano giocato un ruolo essenziale nel genocidio armeno, furono stigmatizzati a loro volta. Fedeli all’Impero Ottomano, poi ai Giovani Turchi, e infine a Atatürk, i curdi non ebbero mai l’indipendenza che era stata loro promessa. E alle proteste, seguì la repressione. Nel 1955, il conflitto a Cipro ha costretto decine di migliaia di greci all’esilio.
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Grazie alle testimonianze di numerose personalità, armene e non, in Turchia si è ricominciato a parlare di genocidio armeno, anche grazie alle opere letterarie di uomini e donne coraggiosi. In particolare Hrant Dink, giornalista turco-armeno e redattore del settimanale Agos, ha focalizzato l’attenzione del mondo sulla sua lotta per la verità, disturbata in ogni modo dallo Stato, per finire ucciso in pieno giorno davanti alla sede del suo giornale, nel 2007. Dink un giorno disse che i due popoli erano malati: «Gli armeni soffrono di traumatismo, e i turchi di paranoia».
L’Organizzazione Speciale (OS) era un organo in seno al CUP, che organizzò e attuò tutte le deportazioni, compreso il genocidio armeno. Alla fine della guerra, i generali della OS, per fuggire da una condanna a morte, fornirono ampio sostegno alla guerra d’indipendenza di Atatürk, che in cambio li investì di poteri quasi illimitati. La chiave di volta è proprio quel legame tra questi generali, colpevoli di atroci delitti, e la fondazione della Repubblica. Ed è anche il motivo per cui il genocidio armeno è un tabù difficile da sradicare: accettare che tra gli eroi della patria ci siano persone che hanno commesso orrori tali avrebbe un effetto distruttore sull’unità nazionale.
Al momento, Recep Tayip Erdogan è il nuovo salvatore della patria. Un recente libro di Stephan Ihrig, Atatürk in the Nazi imagination, spiega come Atatürk fosse «una stella nell’oscurità» per Hitler, che durante la prigionia elaborava la sua personale idea per salvare la patria. Erdogan, che sente il peso di una figura come Atatürk sulle sue spalle, vorrebbe screditarlo ma non può. Non solo per la popolarità di Atatürk presso i turchi, ma anche perché entrambi hanno avuto lo stesso obiettivo, anche se con modalità differenti: riformare lo Stato turco. Sempre Stephan Ihrig, sull’Huffpost, accusa Erdogan di perpetrare il nazionalismo di Stato nei confronti delle minoranze, con l’aggravante religiosa a contaminare il dibattito. I recenti eventi che riguardano la popolazione curda al confine siriano gli darebbero ragione. Ora più che mai, è necessario ricordare il genocidio armeno, per evitare che certi orrori possano ripetersi.