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Sememeotica, parte ottava: l’opinione pubblica online

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Laura Valentini

Questo è l’ottavo articolo di “Sememeotica: perché il meme dominerà la politica”. Un viaggio nella storia dei meme, dalla rivoluzione comunicativa di Internet al loro impatto sulla politica e sulla nostra vita. L’autrice, Laura Valentini, è laureata in Scienze della Comunicazione – curriculum politico-istituzionale all’Università di Roma Tor Vergata. La presente serie prende spunto dalla sua tesi di laurea.

Gli articoli precedenti:
Parte prima: la rivoluzione Internet
Parte seconda: l’epidemia social
Parte terza: il meme, linguaggio della Rete
Parte quarta: il Meme Politico
– Parte quinta: l’Alt-Right e la politica online
Parte sesta: il fenomeno Gamergate
Parte settima: Pepe the Frog è morto, viva Pepe!


Arriviamo così in dirittura d’arrivo del viaggio nei meandri della Rete, in cui si è potuta toccare con mano l’atmosfera che si è creata nei nuovi aggregatori, i social media, e toccare soprattutto con mano le virtù del veicolo comunicativo nato e propagato in essi: il meme, un codice potente per via della sua peculiare natura ipertestuale,  capace di adattarsi a qualsiasi circostanza, versatile e mutaforma. L’abilità di poter manipolare tale codice è, per questi motivi, ambita da qualsiasi spin doctor, in quanto esso si è dimostrato capace di muovere l’opinione pubblica online tanto da (come si è visto nel caso della vittoria di Trump) cambiare radicalmente le carte in tavola nel gioco politico del più grande Paese del mondo.

Un ripensamento è possibile, anzi necessario

«Solo sono immaginette buffe!», diranno sicuramente i più scettici e increduli, ma i fatti narrati negli articoli precedenti hanno dimostrato grandemente il potenziale del protocollo comunicativo costituito dai meme e la debolezza dimostrata dai media mainstream nel voler arginare l’ascesa del fenomeno Trump negli Stati Uniti. Occorre quindi cominciare a ripensare i nostri modelli di comunicazione e di organizzazione della società online sulla base di questi nuovi fatti narrati e sulla base della crescente importanza guadagnata dalla nuova figura centrale nella discussione in Rete.

Qualcuno ha forse detto “società”?

Il memer – o, in italiano, mematore–, il creatore e propagatore del linguaggio della Rete, a oggi è capace non solo di smuovere le migliaia di likes che i suoi memini giornalmente ricevono, ma di spostare le opinioni e di generare nuove forme di pensiero critico. Tale figura sembra mostrare agli occhi del mondo che le vecchie categorie sociali sono ormai vacillanti; questi due articoli che ci separano dalla fine del viaggio vogliono essere un primo timido tentativo di ripensamento in tal proposito.

Non esiste riflessione politica senza opinione pubblica, e se le cose sono cambiate in maniera così radicale occorre necessariamente riaprire la riflessione, soprattutto se vogliamo capire in quale direzione si sta muovendo la società in Rete. E tale riflessione non può di certo prescindere dai memi.

Il flusso di comunicazione a due stadi, base della teoria dell’opinione pubblica

Rispolverando gli appunti di Sociologia della Comunicazione, ci si può rendere conto di come il modello più accurato per la descrizione della formazione dell’opinione pubblica moderna sia quello elaborato da Paul Lazarsfeld, Bernard Berelson e Hazel Gaudet nel 1944, ovvero il flusso di comunicazione a due stadi: il rapporto tra mass media e società appare mediato da alcune figure a cui viene attribuito dalla società stessa (o, in scala ridotta, dalle cerchie di riferimento) un ruolo di spicco, gli opinion leaders, in grado di influire sulle decisioni finali delle persone.

Il modello del flusso di comunicazione a due stadi.

Il motivo per il quale il modello funziona è che, nonostante la sua apparente semplicità (la quale è stata il fattore scatenante delle numerose critiche rivolte ad esso), mette in chiara luce il rapporto di forze sociali in gioco. Si parla espressamente di “una forma di leadership, quasi invisibile e sicuramente non appariscente al livello ordinario, intimo, informale, del contatto quotidiano nel rapporto tra persone” (Scannel, 2007), esercitata da singoli massimamente esposti al flusso comunicativo dei media.

I limiti del modello

C’è sicuramente da dire che Lazarsfeld, Berelson e Gaudet parlavano a proposito di un mondo in cui esisteva una precisa gerarchia e classificazione dei mezzi di comunicazione di massa, anche solo in termini di preferenze. La carta stampata godeva ancora di una sua floridità nel mercato, nonostante la concorrenza martellante della radio e di una televisione ancora agli albori in Europa e già popolare in America.

Inoltre, il rapporto uomo-media era esclusivamente unilaterale: il lettore/ascoltatore/spettatore subiva in maniera passiva il flusso di informazioni senza la possibilità di fornire un proprio feedback, escludendo quelle rare volte in cui era permesso fare telefonate in diretta TV o radio o di rispondere a qualche sondaggio indetto dai giornali. Si trattava comunque di feedback sollecitati dall’esterno, e mai del tutto spontanei.

Il Web dal produttore al consumatore

Ora, in un mondo unificato dalla grande Rete, le carte in tavola del gioco comunicativo sono radicalmente cambiate: le persone non sono più meramente soggette al flusso informativo, ma possono partecipare attivamente commentando notizie in tempo reale, sottoponendo le loro questioni ai diretti interessati tramite i profili sui social media o addirittura di creare contenuti propri sull’argomento, come articoli di blog o video-commenti su YouTube. Si parla, in questo senso, di prosumers, ovvero di utenti consumatori che sono al contempo produttori di ciò che possono fruire nella Rete.

In tutto questo, TV, radio e giornali godono di un’autonomia di funzionamento relativa, risultando anch’essi inglobati nei protocolli del Web; difatti, chiunque al giorno d’oggi può leggere le notizie dallo schermo del proprio PC o cellulare, ascoltare musica e guardare i propri programmi preferiti in diretta streaming.

Internet killed the mass media star

I mass media tradizionalmente intesi quindi appaiono in una posizione di confine: da una parte godono ancora dell’autorità attribuita loro in passato, tanto da far loro meritare l’attribuzione di media mainstream per differenziarli dalla Rete. D’altra parte, la loro collocazione in una linea temporale che vede qualsiasi azione umana passare attraverso Internet si fa giorno dopo giorno quasi anacronistica.

È proprio tale ambiguità di fondo che mina sempre di più l’autorevolezza di tali mezzi di comunicazione: il loro appartenere a tecnologie e logiche sociali di un’epoca passata, e il loro apparire espressione di cerchie ormai lontane dalla massa, li pone in una posizione d’ombra rispetto a una società che ha fatto del cambiamento la propria parola d’ordine in qualsiasi ambito della vita, in politica soprattutto. Tale fatto spinge le persone a dubitare della veridicità delle informazioni passate e a muoversi nei meandri della Rete per cercare altrove.

You are fake news!

Questo ultimo punto menzionato è l’annoso problema su cui politici, giornalisti e gestori di social media da ogni parte del mondo discutono. Il proliferare delle fake news è, a ragione, considerato il grande pericolo per la democrazia dei nostri giorni. Quando all’inizio del XX secolo infuriava la prima guerra mondiale, Walter Lippmann parlava chiaro: non esiste democrazia senza un’opinione pubblica sana, e non esiste opinione pubblica senza un’informazione corretta ed equilibrata.

Questo discorso si fece via via sempre più attuale con il trascorrere degli anni. A oggi assume una centralità strategica con il pluralismo assoluto sancito dall’avvento del Web, tanto da essere quasi giornalmente tema di dibattiti normativi, lezioni nelle istituzioni scolastiche, chiacchierate da bar e persino benzina ironica per i memini.

E se lo dice Lincoln…!

L’Osservatorio News-Italia, con la sua ricerca pubblicata l’8 settembre 2017 dal titolo Le fake news sono un problema. A renderlo più grave c’è la nostra diffusa fiducia nel ritenere di saperle riconoscere, diffonde dei dati abbastanza allarmanti riguardo l’atteggiamento degli italiani nei confronti dei media mainstream e di Internet come fonte di informazione. Sono consapevoli di poter incappare in bufale o notizie incomplete e della confusione che possono creare, eppure tendono a condividere notizie rivelatesi false a un secondo check, galvanizzati dall’altissima fiducia che ripongono nella loro stessa capacità di poterle riconoscere. Il tutto perché ognuno dà una propria interpretazione della questione in gioco.

Una definizione del problema

Effettivamente, la locuzione stessa ormai appare talmente inflazionata, a causa del largo uso che se ne sta facendo in ogni ambito della vita, da aver perso completamente di significato. Claire Wardle e Hossein Derakhshan, in un report dal titolo Information Disorder, riferiscono del pericolo dovuto alla mancanza di una definizione rigorosa per il fenomeno, la quale si riversa poi nel fallimento da parte nostra di poterlo riconoscere e contrastare in maniera efficace. Infatti, secondo questa ricerca, si possono classificare come fake news quelle notizie:

  • vere, ma di irrilevante o scarsa importanza, come per esempio i servizi di Studio Aperto sul caldo estivo;
  • manipolate per valorizzare o sminuire una parte politica;
  • costruite a tavolino allo scopo di insinuare sensazioni di dubbio e sfiducia nei confronti delle istituzioni;
  • palesemente costruite in maniera parodistica, ma che possono potenzialmente trarre in inganno. Con questo l’autrice non si riferisce a grandissimi siti di satira giornalistica – come Lercio o il Corriere del Corsaro – ma a quelle testate dal nome oscuro (corrieredisera.it o giornaleilsole.com) mirate a confondere l’utente ignaro. Esse sono tutte monitorate dalla redazione di Bufale Un Tanto Al Chilo e impresse a fuoco nella loro mirabile blacklist;
  • ritenute irrilevanti/dannose dai governanti o dai concorrenti politici a causa di opinioni sfavorevoli esposte – ricordate la diatriba scoppiata tra Trump e la CNN?
Meme satirico sul tema delle notizie sgradite bollate come fake news (Fonte: Know Your Meme)

I social media, agenti di diffusione perfetti

Alla questione sulla definizione segue a ruota quella riguardante l’autorevolezza conferita a queste notizie dagli utenti. Se una notizia ha tutte le carte in regola per essere bollata come palesemente falsa, perché allora viene condivisa in massa, appare indicizzata nelle prime pagine dei motori di ricerca ed è in grado di influenzarci tanto? Riprendendo sia le ricerche sopra menzionate sia un editoriale di Arturo di Corinto pubblicato sul sito Articolo21.org il 21 gennaio 2018, possiamo dedurre la seguente dinamica:

  • le persone tendono a informarsi sempre di più esclusivamente tramite Internet, soprattutto affidandosi a ciò che appare nelle bacheche dei propri social media preferiti;
  • tali bacheche sono programmate per mostrare esclusivamente ciò che è di interesse per l’utente, sulla base delle preferenze da lui esplicitamente rese pubbliche (likes e condivisioni) e su ciò che gli algoritmi desumono dalle ricerche effettuate nel Web (fenomeno della Bolla di Filtraggio);
  • la Bolla di Filtraggio fa in modo di mostrare, dalla finestra dei social media, un mondo più vicino all’universo personale degli utenti e più accondiscendente nei suoi confronti, confermando pregiudizi e legittimando valori e modi di pensare (bias di conferma);
  • tali pregiudizi vengono a loro volta amplificati e rafforzati dalla condivisione ripetuta da parte delle cerchie sociali presenti nella Bolla di Filtraggio (fenomeno della Camera dell’Eco).

Questione di stile?

Da tali considerazioni si desumono sia un’oggettiva difficoltà per il pubblico di formarsi delle idee basate su fonti attendibili sia la poca voglia di volersi informare da parte di esso. Le fake news, infatti, sono costruite in maniera tale da presentare scenari verosimili, verità orientate il più possibile al pensiero della massa, luoghi comuni, slogan forti, narrativa accattivante e messaggi chiari. Il lettore così non ha bisogno di null’altro per procedere a un’eventuale verifica, e si limiterà semplicemente a condividere la notizia.

Parliamo in ogni caso di un fenomeno costruito: dietro a ogni fake news c’è sempre un agente consapevole del problema che può causare, il quale, secondo Wardle e Derakhshan, può essere animato da quattro motivazioni:

Financial: Profiting from information disorder through advertising; Political: Discrediting a political candidate in an election and other attempts to influence public opinion; Social: Connecting with a certain group online or off; and Psychological: Seeking prestige or reinforcement. (Wardle & Derakhshan, 2017)

Le dinamiche di creazione delle fake news hanno sempre una sola finalità.

Tali motivazioni possono inoltre essere ulteriormente interrelate tra loro, fornendo in ultima istanza il concetto-chiave su cui fanno perno l’informazione e l’opinione pubblica nel Web.

No, questione di numeri

Il numero è ciò che conferisce autorevolezza e credibilità a una notizia e a un individuo nella Rete: più si hanno numeri in termini di introiti, condivisioni, likes, followers e visite, più si avrà visibilità. Questa genera a sua volta numeri sempre più grandi, gonfiando il portafoglio del portale – grazie agli introiti pubblicitari dati dai click nelle sue pagine – e l’autostima dell’utente, il quale si sentirà gratificato dalla quantità di likes racimolata dalla sua Bolla di Filtraggio e dalla sensazione di aver contribuito alla diffusione di informazioni corrette (per lui).

I meme in pericolo

Ovviamente i meme non sono esenti dalle difficoltà presentate, specialmente quelli ormai caduti nella rete dei normaloni. Con questa mia affermazione si fa riferimento al format dei Top Text/Bottom Text, famoso per la semplicità di realizzazione e per la sua estrema versatilità: basta la giusta fotografia (o anche fotomontaggio, perché no?) e un testo in Impact per scatenare la reazione emotiva dell’utente. Tali caratteristiche rendono i TT/BT il canale perfetto per veicolare disinformazione e notizie false nel Web, in quanto i numeri generati dalla loro condivisione saranno ulteriormente motivati dal mezzo anticonvenzionale.

Tipico meme in Impact veicolo di fake news.

Il meme sopra riportato, per esempio, sfrutta la (blanda) somiglianza fisica tra l’attrice Scarlett Johansson e l’ex ministro Maria Elena Boschi per generare quello che evidentemente vuole essere un effetto comico. Infatti, ciò che tale immagine vuole rendere oggetto di satira è la credulità dell’utente medio. Egli non si curerà del paradosso dovuto al labile collegamento tra le due donne, e sarà spinto alla condivisione esclusivamente per via della forza dello slogan intriso di gentismo e complottismo. Ennesimo esempio di come la Meme Magic renda, a volte, così sottile il confine tra realtà e ironia da poter generare effetti distorti.

La via verso una nuova teoria dell’opinione pubblica

Ma effetti distorti nei confronti di quali individui? Alla luce di quanto esposto negli articoli precedenti, tali negatività sembrano non investire quella larga fetta di utenti avvezza alla socialità nel Web e alla comunicazione tramite meme. Con ciò non ci si riferisce esclusivamente ai giovani o ai mematori: anche gli adulti possono essere abituati a comunicare tramite queste unità basilari, così come anche i giovani possono essere facilmente influenzati dalle fake news, se si avvicinano abbastanza ai loro bias.

Dipende tutto dalla predisposizione personale e dalla conoscenza delle dinamiche proprie del Web. La condivisione di fake news in Impact da parte dei mematori, infatti, sarà sempre accompagnata da didascalie spiritose inneggianti all’ignoranza umana, e tutt’al più può generare schiere di sub-memes sempre più elaborati e intrisi di metaironia.

Metameme? (post Facebook di Bombo Reported del 29 novembre 2019)

Si evince quindi che non ha più senso parlare di opinione pubblica nel complesso. Esistono, infatti, molteplici opinioni pubbliche, le quali prendono vita da differenti fruizioni dei mass media e risultano esposte a messaggi differenti, generando conseguentemente dei modelli politici, sociali e comunicativi loro propri. Per essere più accurati, se ne possono distinguere tre.

Opinione Pubblica di Massa: l’ignoranza al potere

La prima opinione pubblica è quella che si può chiamare Opinione Pubblica di Massa. I suoi esponenti utilizzano prevalentemente il Web come mezzo di informazione (si parla di un 90% di notizie cercate attraverso i motori di ricerca). Possiamo identificarla con quelle persone che tendono a condividere fake news e meme satirici non ironicamente, convinti dal fatto che «lo dice Internet, io non credo ai TG», e circondate da amici e utenti che seguono la loro stessa linea di pensiero.

L’opinione pubblica di massa si interessa di questioni legate a politica e società, ma è animata da una tendenza populistica à la “rottamiamo tutto/tutti a casa/condividi se sei indignato”. La sua Bolla di Filtraggio sarà quindi caratterizzata da una gamma molto ristretta di fonti informative, le quali si dimostreranno essere solo quelle più vicine al suo universo di pensieri e valori. È inoltre costituita da persone estremamente litigiose, sospettose nei confronti di chi la pensa in modo diverso, di mentalità chiusa, inclini al cyberbullismo e alle azioni violente online – dal più innocuo trolling fino al doxxing. Prediligono frasi a effetto, slogan urlati e spiegazioni semplicistiche, in quanto colpiscono in modo diretto il loro microcosmo personale.

E c’è pure gente che ci è cascata. (Post Facebook di Gianluca Hetfield Brandas‎ del 31 agosto 2018)

Una società (quasi) tribale

L’opinione pubblica di massa si suddivide in tante minuscole “tribù” caratterizzate da linee di pensiero precise (gentisti, terrapiattisti, complottisti), i cui membri si scambiano informazioni tra loro per poi condividerle con i membri di altre tribù. Il tutto per il puro gusto di ottenere in ritorno feedback positivi e l’impressione di aver fatto qualcosa di buono per il mondo, portando un po’ di (loro) verità alla luce. Informazioni che proverranno dagli eminenti “capitribù”, ovvero quelle persone che si occupano di creare, diffondere e propagare le psicosi in cui l’opinione pubblica di massa trova la sua linfa vitale, persone che acquistano credibilità e autorevolezza proprio in virtù del fatto di condividere contro-informazioni, di cui “in giro non si parla”.

Tali capitribù costituiscono tra loro la Pseudoélite: si tratta di una cerchia intellettuale, politica e sociale interamente retta sul concetto espresso dalla radice “pseudo-”, cioè pseudo-scienziati convinti che i vaccini causino autismo, o anche pseudo-filosofi che gonfiano di parole intricate discorsi retti sul nulla.

Alcune persone rappresentative di queste categorie sono Andrew Wakefield, il medico radiato dal Medical Register per aver presentato il famoso report sui vaccini che causano autismo, e Diego Fusaro, opinionista celebre per i suoi monologhi filosofici intrisi di nulla puro, ma linguisticamente degni del conte Lello Mascetti. Con scappellamento a destra, per due.

Tale élite comprende inoltre particolari organizzazioni internazionali interamente dedicate alla mistificazione e all’inganno, come per esempio la Flat Earth Society.

Andrew Wakefield e Diego Fusaro.

Il modello a binario: Harold Lasswell è ancora fra noi

Si può quindi notare che il modello comunicativo che può spiegare efficacemente l’interazione tra tale opinione pubblica e il proprio media di riferimento presenta un rapporto di tipo orizzontale-verticale. Le tribù immerse nella grande Rete condividono tra loro informazioni provenienti direttamente (e, soprattutto, subìte passivamente) dalla Pseudoélite, la quale si dedicherà a sua volta alla condivisione e propagazione di notizie all’interno del proprio ambiente sociale per poterne discutere insieme e per poter stabilire quale azione alla “tutti a casa!” intraprendere.

Tale interazione, chiamata modello a binario, è pensata come un’evoluzione in chiave virtuale della teoria ipodermica elaborata da Harold Lasswell negli anni Quaranta, in quanto quest’ultima non prevedeva né una relazione tra gli individui atomizzati esposti ai messaggi dei mass media, né tantomeno una loro compresenza all’interno dei media stessi: ricordiamo sempre che il Web vive di partecipazione attiva, e non lo si può quindi pensare solo come un agente attivo su un pubblico inerte.

Teoria ipodermica di Harold Lasswell e modello a binario a confronto.

L’Opinione Pubblica di Divulgazione: sapere è potere

La seconda opinione pubblica, caratterizzata dall’uso e consumo prevalentemente di media mainstream (con integrazione eventuale ma non necessaria di informazione dal Web), è l’Opinione Pubblica di Divulgazione o tradizionalmente intesa. È il classico modello di opinione pubblica a cui i grandi teorici di tutto il mondo si sono appellati per anni (e per questo chiamata “tradizionalmente intesa”). È costituita prevalentemente da persone di mentalità aperta alla discussione, che si informano confrontando più fonti, formando successivamente un’idea propria rispetto a una certa notizia.

La discussione tra i membri è per la maggior parte delle volte caratterizzata da toni civili e cordiali, in essa la fanno da padrone citazioni ad articoli specialistici (per questo quest’opinione pubblica è chiamata anche “di divulgazione”) e vengono evocate spesso le parole dette dai grandi opinion leaders di settore. Per esempio, se si parlerà di vaccini si farà sicuro riferimento al celebre medico Roberto Burioni. Le persone immerse in questo ambiente prediligono come fonte di informazione giornali blasonati, penne autorevoli, trasmissioni televisive di approfondimento, documentari storici e scientifici e siti Web monografici mantenuti da grandi organizzazioni scientifiche di tutto il mondo.

Lazarsfeld, is that you?

Gli opinion leaders impegnati a fare da tramite tra tale opinione pubblica e l’intricato mondo dei mass media (Web compreso) costituiscono l’Élite Mainstream, ovvero quell’ambiente sociale al di sopra delle parti in cui si confrontano politici, giornalisti, militari e membri dello star system. Per capirci, è quell’alta società, descritta da Charles Wright Mills in The Power Elite, di detentori del potere politico, militare e comunicativo.

Il modello che la descrive più efficacemente è quello del flusso di comunicazione a due stadi già elaborato da Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, con la sola aggiunta del fatto che, grazie all’accorciamento delle distanze tra opinione pubblica e opinion leaders di spicco prodotta dal Web, l’interazione tra queste entità è diventata di tipo dualistico: infatti, se previsto dalla mentalità stessa dell’opinion leader, il lettore/utente può direttamente discutere con lui ottenendo anche un eventuale feedback.

Modello del flusso di comunicazione a due stadi applicato all’opinione pubblica di divulgazione.

L’Opinione Pubblica 2.0: la Meme Magic in azione

Il terzo e ultimo tipo, chiamato Opinione Pubblica 2.0, è costituito per lo più da ragazzi e giovani adulti, è interamente imperniato intorno al meme come linguaggio e alla figura del mematore, la quale verrà approfondita in pagine successive.

In tale contesto, creatori ed appassionati di meme si riuniscono in gruppi chiusi e usano tali unità non solo come pretesto per scatenare ilarità, ma come topic per conversazioni riguardanti questioni politiche, culturali e sociali di attualità. Inoltre, i membri di queste aggregazioni si confrontano tra di loro e con gli admin sui nuovi memini in uscita sia a livello internazionale che a livello del gruppo vero e proprio, diffondendoli tra di loro e dando vita a interi filoni di sub-memes successivi.

Il meme come crescita culturale

I mematori sanno perfettamente che la linfa vitale per la propagazione del meme risiede soprattutto nella sua attualità rispetto al mondo circostante. Se ne desume quindi che il loro modo di tenersi informati deve necessariamente integrare fonti dal Web (comprese fake news e tesi complottiste, in quanto costituiscono la benzina perfetta per scatenare l’incendio di ironia veicolato dai meme) e stampa mainstream, per avere così un quadro più completo possibile di come sta andando il mondo e farci successivamente dell’ironia.

Per quanto riguarda i fruitori, essi sanno perfettamente che un meme, per scatenare una reazione ilare in loro, deve essere ricostruito nella sua rete di significati e references. A tal proposito prendiamo come esempio il seguente meme di Logo Comune.

Espedienti narrativi di classe (post Facebook di Logo Comune dell’8 marzo 2018).

Per poter comprendere dove risieda l’ilarità, l’utente effettuerà una ricerca sui riferimenti usati, in questo caso su cosa sia il MacGuffin, e li ricollegherà all’universo ironico del meme, in questo caso alla piattaforma Rousseau vista più come l’espediente narrativo del Movimento 5 Stelle, data la sua relativa inutilità pratica.

Così, l’effetto nel fruitore sarà duplice: non si sarà solo fatto due risate, ma avrà ampliato la sua cultura generale e la sua conoscenza dei fatti attuali. Tutto ciò rende l’opinione pubblica 2.0 il tipo sociale più illuminato nel panorama della Rete.

Il modello di Lazarsfeld-Berelson-Gaudet a doppio filtro, motore dell’opinione pubblica 2.0

Per quanto riguarda il collegamento tra media, memers come opinion leaders e fruitori, sono state apportate alcune modifiche al flusso di comunicazione a due stadi, in quanto si può intervallare tra essi il meme come entità concreta di filtro e passaggio dell’informazione, arrivando infine all’elaborazione del modello di Lazarsfeld-Berelson-Gaudet a doppio filtro.

Modello di Lazarsfeld-Berelson-Gaudet a doppio filtro.

L’informazione oggetto del meme, nel passaggio mediato dai memers verso i membri dell’opinione pubblica 2.0, subisce un primo filtraggio, detto Meme come attitudine, dovuto a una sensazione o al potenziale umoristico in essa percepito. Tale filtro, a cui è unicamente soggetto il memer al momento della ricezione dell’informazione, è univoco e aiuta a stabilire quale persona o fatto siano degni di essere resi oggetto del codice della Rete, svolgendo quindi una sorta di funzione di gatekeeping.

La sensazione umoristica viene poi concretizzata nel meme vero e proprio, il quale a sua volta diviene un filtro interattivo (Meme come attuazione) tra l’utente e l’informazione di partenza. Infatti egli, come anzidetto, sceglie quali retroscena approfondire in base alla reazione ilare suscitata dal meme, uscendone arricchito sia per quanto riguarda la sua stessa cultura generale sia riguardo alla comprensione del codice stesso. L’utente reagirà infine con eventuali feedback (o sub-memes) inoltrati al memer. Si ricorda, infatti, che tale fase è necessaria, in quanto i meme vivono della comprensione degli inside joke racchiusi in essi.


Parte nona >>>

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