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Economia

In UK vincono i conservatori di Boris Johnson: Brexit entro gennaio

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Cecilia Valente

L’esito delle elezioni britanniche del 12 dicembre 2019 non lascia spazio ai dubbi. Il Regno Unito ha scelto il partito conservatore per guidare il paese fuori da uno dei periodi di transizione più difficili degli ultimi anni: quello della Brexit. Con il 43,6% dei voti, i Conservatori guidati da Boris Johnson hanno conquistato 364 seggi in parlamento. Gliene sarebbero bastati 326 per avere la maggioranza assoluta. Dopo le elezioni del 2017, che avevano dato luogo a una situazione di cosiddetto hung parliament, in cui nessun partito era in grado di governare da solo, i Tories sono riusciti di nuovo a prendersi la maggioranza assoluta. Il Labour di Jeremy Corbyn, invece, ha ottenuto solamente 203 seggi in parlamento, perdendone 59 rispetto alle elezioni del 2017. Mentre i Liberal democratici si sono fermati all’11,5% dei voti.

Una tornata elettorale, quella del 12 dicembre 2019, tra le più importanti dal Dopoguerra per il Regno Unito. I britannici non erano solamente chiamati a scegliere il loro prossimo governo, ma anche a votare per un nuovo, anche se indiretto, referendum sulla Brexit. E hanno scelto di rimanere fedeli al voto espresso nel 2016. Dopo anni di incertezza, dunque, il sistema maggioritario britannico torna ad assicurare completa governabilità al paese. Era dai tempi di Margaret Thatcher che il partito conservatore non vinceva in maniera così netta. E, d’altro canto, era esattamente da quegli anni ’80, gli anni del liberalismo, che il partito Laburista non subiva una sconfitta così disastrosa. Colpa della leadership evanescente di Jeremy Corbyn? Probabile.

Jeremy Corbyn, leader del Partito Labourista, durante il suo discorso post-voto. Foto: bbc.com

La sconfitta del Labour Party

Senza dubbio, il leader laburista non è stato in grado di assumere una posizione chiara e netta sull’argomento principale della campagna elettorale: la Brexit. Nel programma, prometteva di cancellare l’accordo concluso dai conservatori con l’Unione Europea e di elaborarne un altro da sottoporre al parlamento e poi a un referendum popolare. Altri mesi di incertezza, altri rinvii. I britannici hanno preferito, dunque, chi gli prometteva una sicura uscita dall’impasse istituzionale. Inoltre, il programma Laburista presentava anche altri punti controversi. In campo economico, Corbyn prometteva di aumentare gli investimenti e la spesa pubblica, tramite una maggiore tassazione dei redditi più alti e la nazionalizzazione di alcuni servizi essenziali. Un programma che per la sinistra continentale potrebbe sembrare normale, ma che è stato considerato troppo radicale dal mondo anglosassone. Jeremy Corbyn, dunque, non è stato in grado di cogliere l’aria di scetticismo intorno al suo partito e a tutta la sinistra europea. Poco è riuscito ad imparare dall’esperienza del Partito socialista francese, praticamente scomparso nelle elezioni del 2017, e dal pesante ridimensionamento della SPD, che ha perso la posizione di secondo partito in Germania. Per cui, il leader Laburista ha annunciato che non sarà lui a guidare il partito verso le prossime elezioni, anche se non è chiaro ancora quando si dimetterà.

Il partito nazionalista scozzese

La leader dello Scottish National Party, Nicola Sturgeon. Foto: bbc.com

A mettere i bastoni tra le ruote a Johnson, però, potrebbe però essere lo Scottish National Party. Il partito nazionalista scozzese, guidato da Nicola Sturgeon, ha fatto il boom di voti, conquistando 48 dei 59 seggi riservati alla Scozia all’interno del parlamento di Westminster. Il rafforzamento dell’SNP nell’aula di Londra potrebbe rafforzare anche la possibilità di un nuovo referendum per l’indipendenza, anche se difficilmente Johnson lo concederà. La mappa del Regno Unito è divisa da una linea molto netta: il nord è stato conquistato quasi completamente dall’onda gialla. Nonostante nel 2014 il 55% degli scozzesi si sia espresso contro l’indipendenza, dopo il referendum sulla Brexit, la situazione sembra essere cambiata. Gli scozzesi sembrano essere diventati anti-Brexit, ma pro-indipendenza. SNP, che era disposto ad allearsi con i Whigs per portare il paese fuori dal caos Brexit, potrebbe invece trovare nella vittoria di Johnson la via per portare avanti la richiesta indipendentista. Boris è il nemico da battere, Nicola Sturgeon, invece, l’eroina nazionale. E i venti nazionalisti e indipendentisti potrebbero coinvolgere anche gli altri regni, in primo luogo l’Irlanda del Nord, territorio coinvolto anche nel caos del cosiddetto backstop. Boris Johnson ha, quindi, conquistato la maggioranza assoluta e una Brexit sicura. Questo, però, potrebbe anche accrescere i rischi di disastri politici e, addirittura, di dissoluzione del Regno Unito.

Vedi anche: Cos’è il backstop e perché sta creando problemi alla Brexit.

Cosa succederà sul fronte Brexit?

Get Brexit done il motto che ha accompagnato Boris Johnson in questi mesi di campagna elettorale e che è stato ripetuto dal leader britannico anche durante la conferenza stampa post voto. Dunque, il Regno Unito lascerà ufficialmente l’Unione Europea il prossimo 31 gennaio 2020. L’uscita effettiva, poi, ci sarà alla fine di dicembre 2020, dopo un “periodo di transizione”. Il nuovo parlamento britannico si insedierà la prossima settimana, ma probabilmente il voto sull’accordo sarà rimandato al 2020. Il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, congratulandosi con Boris Johnson, ha chiesto una rapida ratifica dell’accordo da parte del parlamento britannico. Con una maggioranza così schiacciante, il partito conservatore non avrà problemi a far passare il deal nella Camera dei Comuni, i problemi arriveranno dopo.

Il leader del partito conservatore e attuale premier britannico, Boris Johnson. Foto: vox.com

Gli accordi successivi

Il Regno Unito e l’Unione Europea, infatti, dovranno concludere stretti accordi di partenariato per regolare i loro rapporti nel post-Brexit. Undici mesi di transizione, dunque, potrebbero non essere abbastanza per risolvere tutte le questioni. La priorità è, sicuramente, quella di siglare un accordo sul commercio e sulla libera circolazione di beni e capitali. Il Regno Unito tenterà di ottenere il maggior accesso possibile al mercato comunitario, nonostante i conservatori abbiano chiarito il fatto che UK sarà fuori dall’area europea di libero scambio e, quindi, dalla giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Teoricamente, le negoziazioni potrebbero iniziare non appena il deal verrà votato dal parlamento britannico, ma ci vorrà del tempo per elaborare delle proposte e affinché i leader europei trovino una posizione comune. Dunque, verosimilmente, il tavolo negoziale non si aprirà prima di Marzo e dovrebbe chiudersi entro Giugno 2020.

A quel punto, le possibilità potrebbero essere due. O il Regno Unito chiederà un’estensione del periodo di transizione, cosa che Johnson non sembra aver intenzione di fare. O il Parlamento britannico dovrà ratificare l’accordo entro dicembre, ma la discussione alla Camera dei Comuni potrebbe prendere più tempo di quanto ce ne sia effettivamente. Per cui, in caso di mancata ratifica, il Regno Unito uscirebbe comunque dall’Unione Europea a dicembre 2020, ma lo farebbe senza un accordo economico. Il pericolo hard Brexit non è ancora scongiurato. Inoltre, l’accordo commerciale non è il solo che si dovrà negoziare: l’integrazione europea ha ormai raggiunto livelli talmente elevati, che i nodi da sciogliere saranno diversi. Si pensi solamente alla stretta collaborazione tra gli Stati membri nell’Area di libertà, sicurezza e giustizia. Il Regno Unito sarà fuori dal sistema di Mandato di arresto Europeo, da organi di scambio di informazioni come EuroPol o EuroJust.

I problemi da risolvere sono tanti, sia sul fronte interno sia sul fronte Brexit. I tempi previsti per l’uscita dall’Unione Europea sono molto stretti: l’UE non ha mai concluso un accordo così complesso con uno stato terzo in così poco tempo. Il fatto che il Regno Unito diventerà un ex Stato Membro potrebbe aiutare in negoziati, ma potrebbe anche renderli ancor più complessi. In più, l’incognita delle spinte nazionaliste interne non può sicuramente essere tenuta nascosta. La strada per il nuovo governo dei Tories non sarà dunque facile.

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Cecilia Valente

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