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Spettacolo

Gli ascolti di theWise: i dischi di novembre e dicembre 2019

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Luigi Buono

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A dicembre si tirano le somme sugli album usciti durante l’anno, ma nonostante ciò abbiamo ancora il tempo di valutare le ultime uscite del mese di novembre e dicembre, tra conferme, delusioni e piccole sorprese. In questa rubrica mensile andremo ad analizzare alcune fra le uscite discografiche più interessanti, deludenti, curiose e quant’altro che hanno segnato il mese appena trascorso. Quali sono i dischi che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato quest’ultima fase del 2019? Andiamo a scoprirlo insieme.

FKA Twigs – Magdalene

Se si dovesse scegliere un solo aggettivo con cui descrivere FKA Twigs, questo sarebbe “divina”. E, in questo senso, il suo secondo album Magdalene riprende in pieno la tematica religiosa: il titolo è ispirato a Maria Maddalena, uno dei personaggi più complessi e affascinanti del Nuovo Testamento. Fin dalla solennità della traccia di apertura, Thousand Eyes, si rispecchia l’ambientazione ecclesiale, dove l’introduzione corale a cappella si infrange contro un muro di bassi che si innalza maestoso. Nelle pieghe della voce di FKA Twigs, così fragile e ricolma di pathos, si riesce a percepire una vena ultraterrena, ma al contempo è il suo tratto così emotivamente forte che la carica di empatia e di sofferenza. Esemplare è Home With You, dove alle graffianti strofe dai beat frammentati si contrappone un ritornello delicatissimo in cui il canto si innalza splendido fino al sole. L’unica pecca del disco è Holy Terrain, che vede la partecipazione di Future: se sulla carta poteva essere una collaborazione interessante, la presenza di Future è del tutto incoerente con il resto del disco, per non dire inutile, per un brano pensato come potenziale hit trap per il grande pubblico che non convince. Ciò però non è altro che una piccola macchia per un album in cui tutto il resto funziona meravigliosamente bene. Forse non è ancora passato abbastanza tempo per poter parlare di capolavoro, però poco ci manca. 9/10

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Michael Kiwanuka – Kiwanuka

Dopo una continua crescita nei primi due album Home Again e Love & Hate, Michael Kiwanuka fa centro con il suo terzo disco, intitolato semplicemente Kiwanuka. Derivazioni funk intinte nella psichedelia, Kiwanuka si muove con leggerezza nell’andare a scavare nei suoni degli anni Sessanta e Settanta, fra sezioni ritmiche ricche di groove, chitarre distorte con qualche accenno di wah-wah e il suo cantato profondo ricco di soul. O almeno, così può sembrare a un ascolto distratto: l’anima malinconica del disco è in realtà preponderante e raggiunge il suo apice nella struggente Piano Joint (This Kind of Love). Dopo la traccia strumentale ricca di voci, accordi accennati e un bizzarro fruscio di sottofondo, un pianoforte ripulisce l’atmosfera e con poche, drammatiche note va ad accompagnare la voce di Kiwanuka. Quando poi entrano gli archi, la batteria e tutto il resto degli strumenti, il brano brilla di una drammatica luce, mentre Kiwanuka racconta del suo tormentato amore a cui non riesce a rinunciare. Concepito come un disco continuo, in cui la fine di un brano è legato all’inizio del successivo e in cui non sono presenti tagli netti, Kiwanuka ha un deciso gusto retrò, fra i Temptations e Jimi Hendrix, trasportato in una dimensione contemporanea e mantenendo un deciso stile personale. A distanza di sette anni dal primo disco in studio, il cantautore britannico raggiunge qui il pieno della sua maturità artistica con un lavoro solido riuscito a pieno. 8/10

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Kaytranada – Bubba

Arriva quasi a sorpresa, a metà dicembre il secondo lavoro di Kaytranada. Il produttore canadese, ha deciso infatti di annunciare Bubba solo pochi giorni prima dell’uscita, tramite le morbide vibes del brano 10% in collaborazione con la splendida voce di Kali Uchis. Ci sono sudore, divertimento, passione e culi in movimento, in Bubba: l’intero album si pone più come un continuo dj set che come un lotto di brani. La continuità e il dissolversi di un brano all’interno all’altro lungo i 57 minuti del lavoro danno un carattere liquido e sensuale alle diciassette tracce in questione: un tripudio di mine da dancefloor in cui Kaytranada decide di abbandonare le precedenti velleità hip-hop per immergersi completamente nel funk, nella disco e in bassi potenti e batterie pulsanti. Una session portatrice di gioia ed energia da ballare in ogni dove, quasi un omaggio al decennio dance appena trascorso su cui pure svettano l’ottimo singolo di apertura già citato, Vex Oh (con GoldLink) e Culture (con Teedra Moses), pezzi talmente potenti e tasty da portare con se l’unico piccolo difetto di spezzare qua e là il flusso dell’album.
Il pregio e la mano sapiente di Kaytranada stanno proprio qui: nel saper piegare samples e collaborazioni di lusso al flow dell’intero album, dandogli al contempo un caldo sapore analogico; le parole e le voci diventano suono e strumento e vanno a incollarsi armoniosamente alle basi pulsanti. Un vero e proprio inno alla purezza del ritmo e delle casse pulsanti. 7,5/10

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Leonard Cohen – Thanks for the Dance

Leonard Cohen è stato il più grande cantautore della sua generazione e, quando nel 2016 è stato pubblicato You Want It Darker appena prima della sua scomparsa, vero e proprio testamento in musica, si pensava che non avesse più lasciato nulla in sospeso. A distanza di tre anni invece ecco Thanks for the Dance, in cui il figlio di Cohen, Adam, raccoglie e mette a punto alcune registrazioni rimaste del padre. Queste operazioni possono lasciare a qualcuno delle perplessità, visto che si pongono a metà fra il lucrare su una morte e un’effettiva esigenza artistica, ma in questo caso è evidente come ci sia un sincero affetto nel voler recuperare gli ultimi nastri di un gigante della musica popolare come Leonard Cohen. Con la partecipazione di personaggi come Beck e Bryce Dessner dei National, Thanks for the Dance è un’elegante continuazione di You Want It Darker, dove la consapevolezza della morte imminente aleggia come uno spettro su tutto il disco. La voce affaticata di Cohen, ormai stanca, non si lascia sfuggire qualche ironico sorriso, mentre gli arrangiamenti chitarristici dal forte richiamo spagnolo disegnano dei delicati arpeggi nell’aria. La melodia scompare lasciando spazio a una narrazione monocorde, sofferente ma allo stesso tempo fiera. Scompaiono i toni più funebri del disco precedente, rimane la tinta drammatica di un uomo che deve affrontare la sua morte. Nel complesso è un’opera dignitosa che non va minimamente a scalfire l’immagine di Cohen, ma regala ai fan più affezionati ancora un assaggio di una figura così importante per la musica popolare. 7/10

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Coldplay – Everyday Life

I Coldplay sono il classico gruppo partito piuttosto bene a cavallo di due decenni, tra strascichi britpop e non insospettabili grandezze pop, e poi cascato male e da molti rinnegato tra echi di un pop gommoso e colorato che per noi ascoltatori italiani definire jovanottiano sarebbe estremamente calzante. Risulta doppiamente strabiliante, in casi come questo, che il gruppo in questione sia ancora capace di stupire. Questo è il pensiero che si forma ascoltando i cinquanta minuti abbondanti di Everyday Life.
Il tema mediorientale la fa da padrone lungo tutto l’album, più per contaminazione musicale che per tematiche; Chris Martin e Johnny Buckland sembrano particolamente a proprio agio, più del solito, a mischiare arpeggi country, contrappunti di pianoforte, bassi pulsanti e riff taglienti, e laddove i testi di Martin rischiano di diventare eccessivamente stucchevoli scadendo nella critica sociale vacua, gli arrangiamenti salvano l’intero brano, come accade nelle esplosioni finali di Church e Trouble in Town.
Persino la hit facilona del lotto, Orphans, assume una nuova presenza: non più urla di festa fini a se stessi, ma canti di liberazione ancora una volta dal sapore etnico, tanto da non stuccare nell’economia generale del disco.
Vetta massima del lavoro resta però Arabesque, una perla pop in cui grazie ai contributi di Stromae e Femi Kuti (figlio di Fela) si confeziona una desert jam lisergica con un crescendo orchestrale notevole. Gemma rara o nuovo ritorno a una dimensione più intima, nonostante avrebbe giovato di una maggiore selezione dei brani di sicuro Everyday Life è il disco più maturo di Chris Martin e soci da molto tempo. 7/10

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Subsonica – Microchip temporale

Già la presentazione del progetto aveva sollevato dubbi in più di un fan dei Subsonica (non nel sottoscritto): si sa, quando una band di culto ripesca un album di culto, il rischio che vada male secondo i fan più oltranzisti è sempre discretamente alto. Aggiungiamoci a questo un album, 8, buono, ma abbastanza sottotono, e le luccicanti apparizioni TV di Samuel e Boosta (rispettivamente a X Factor e Amici) e il dubbio è servito. Queste le premesse a Microchip temporale: una schiera di nomi supergiovani e superglam (da Nitro a Lo Stato Sociale, da Coez ad Achille Lauro passando per M¥SS KETA), per un progetto anticipato da una versione sbilenca di Aurora sogna in cui i Coma Cose, ospiti di turno, si son limitati ad aggiungere una strofa, non convincendo appieno. Questo giochetto, come se fossimo in pieno 2005, ci viene riproposto un po’ dovunque lungo l’album, andando a regalarci più degli estemporanei mash-up che delle reinterpretazioni. Ci avevano già provato gli Afterhours qualche anno fa, a rispolverare il loro Hai paura del buio?, riuscendo meglio, grazie al connubio tra riarrangiamenti e personalità più prepotenti. Quello che salta all’occhio subito da Microchip temporale, di contrasto, è invece la fretta dell’esecuzione: gran parte del materiale è stato nuovamente suonato senza molte aggiunte, se si escludono appunto le varie strofe extra aggiunte dall’ospite di turno. Fanno eccezione (in meglio), le performances di Cosmo, più un remix che una cover in Discolabirinto, la versione acustica (anche questa preesistente all’album come arrangiamento) di Tutti i miei sbagli di Motta e un insospettabile Coez super chill in Strade. Microchip temporale è un’occasione sprecata per uno degli album italiani più importanti degli ultimi vent’anni, un progetto usa e getta, adatto a rinverdire le playlist Spotify in attesa di vacche grasse. 4/10

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Luigi Buono

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