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Spettacolo

Il Pinocchio di Matteo Garrone: vivere il rapporto tra padre e figlio in una terra di ingiustizie

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Anastasia Piperno

Il regista Matteo Garrone torna al cinema con Pinocchio, trasposizione dell’omonimo romanzo di Collodi. È la seconda virata verso il fantastico dopo Il racconto dei racconti (2015), a sua volta trasposizione delle fiabe di Giambattista Basile. Garrone dunque attinge ancora dal bacino della tradizione italiana più illustre nel suo rapportarsi al genere, con tutto il peso che ne consegue. Le due opere garroniane infatti non sono state accolte con apprezzamenti unanimi, entrambe criticate per un carattere, tutto sommato, poco palpitante. Una linea di continuità con il Garrone nella propria comfort zone, però, c’è: il racconto degli ultimi, che sia nel presente di un Gomorra o Reality, in un passato vicino come quello di Dogman o in contesti lontani come quelli di Il racconto dei racconti o Pinocchio.

Garrone si confronta con Collodi, tra fedeltà e interventi sottili

Tornare a Pinocchio per Benigni non dev’essere stato facile: fu già regista, sceneggiatore e attore protagonista nel suo Pinocchio (2002), un flop di critica pesante, specialmente negli Stati Uniti dove aveva trionfato tempo prima agli Oscar con La vita è bella. L’attore toscano dunque si confronta di nuovo con l’opera collodiana, adottando un ruolo più adatto alla sua età: non più un Pinocchio cinquantenne, ma il padre falegname Geppetto.

Foto: larepubblica.it

La baldanza benigniana è un timido tentativo di chiedere la propria parte in un contesto di miseria e solitudine: il primo istinto annunciato è quello della fame, la cui soddisfazione richiede umile lavoro, ad esempio un pezzo di legno, e da cui inaspettatamente prenderà vita il figlio burattino Pinocchio (Federico Ielapi). «M’è nato un figlio!», dirà Geppetto, un’aggiunta garroniana rispetto al testo letterario, a sottolineare il primo tassello di un rapporto padre-figlio focale. Il legame genitoriale, insieme a quello della fata madrina, sarà nell’odissea del burattino il punto di partenza, un po’ disprezzato, e il punto di arrivo con nuova coscienza e maggiore devozione. L’avventura fuori dalla bottega è un giro lungo e denso di tipici errori di ingenuità del racconto di formazione, in cui forse si sente più una dabbenaggine contadina nel burattino, più che quell’anticonformismo sistematico della versione seriale di Comencini; accentuando la storia di piccoli uomini, marionette in una landa in cui a tenere le fila sono ingiustizie più radicate, più strutturali di una società ormai senza ricostituzione.

Non c’è la speranza di un’Italia in via di unificazione, come quella di Collodi, ma piuttosto la corruzione senza redenzione da cui proviene il disincantato cinema garroniano. Il regista, pur rimanendo sostanzialmente fedele alla materia letteraria, dà la propria versione tramite oculate omissioni, se non sottili modifiche: è proprio nell’ottica della sua più fosca visione della società, in un’Italia che ha fatto e fa l’esperienza di Gomorra, che Pinocchio verrà incarcerato esplicitamente perché innocente. In un mondo tracciato con un attacco all’autorità giudiziaria, non è un caso che Garrone non sottolinei tanto il principio di obbedienza e sincerità tramite il proverbiale naso lungo del burattino, tanto che elimina l’episodio dove Pinocchio impara a fare il cane da guardia e aggiunge il dettaglio dell’insensibilità delle braccia di legno alle bacchettate del maestro di scuola.

È in questo senso che il rapporto filiale, l’aiuto al padre, oltre che la collaborazione tra oppressi, che diventa più importante, un territorio più fertile per la maturazione del burattino (e qui si può citare anche il dettaglio aggiunto del bacio al tonno nell’episodio della balena). Il fil rouge con Dogman non può che sentirsi, nonostante questo Pinocchio sia meno feroce e rivolto a un pubblico probabilmente diverso, negoziando tra una consapevolezza più adulta e una certa infantilità (con un risultato incerto, non a torto per chi lamenta di una confusione di target). Quest’ultima apre parti di comicità buffa, con capitomboli sulla scia bavosa di lumache e con il contributo dell’attore Ceccherini, qui la Volpe, e già forte di altre rielaborazioni del testo collodiano, e a un’occasione di progressione insolitamente avventurosa per le abitudini del regista. Alcuni accenni più impietosi dello stesso Collodi alla morte, ad esempio, sono tolti, come la morte di Lucignolo. Tuttavia il direttore della fotografia è proprio lo stesso di Dogman, Nicolaj Brüel, che vi replica un grigiore tenue, malinconico, di nuovo per una commistione fiabesca – qui chiaramente dichiarata – e un fondo sociale nero.

Foto: panorama.it

E della fiaba si mantiene una curiosa sospensione temporale nell’ambientazione: il regista ha rintracciato ambienti periferici, rurali toscani apparentemente intatti rispetto all’azione travolgente della modernità, permettendo dunque un relativo intervento sul territorio per la scenografia. I costumi invece riprendono le illustrazioni di Enrico Mazzanti, che curava la prima edizione di Pinocchio. In una poetica di piccoli uomini che sopravvivono con le proprie risorse, per quanto racimolate, si sente fortemente l’impatto di una fattura artigianale: un lavoro massiccio di trucco dal make-up artist Mark Coupier, più che di effetti speciali. Paradossalmente tanto è integrato una sospensione temporale tra i vari comparti cinematografici, tanto è incerto un importante effetto del tempo in luogo di sceneggiatura. È giusta la nota fatta in ambito critico su un territorio della storia ove non solo, a livello metacinematografico, passato e presente si uniscono fluidamente, ma tutto sembra vicino e lontano allo stesso tempo, fisso e mobile, tra pregi e difetti. Il padre Geppetto partito in mare pare a due passi, ma Pinocchio stesso ha una maturazione dove il peso del tempo che passa, dove il valore dell’odissea come spazio di separazione lungo dal padre, non è evidente. Complice probabilmente il tempo di produzione insolitamente breve per il modus operandi del cineasta, solo di un anno circa, e la forma consueta di compressione richiesta dalla durata media di un lungometraggio, un punto spinoso che Comencini aveva saputo evitare con la forma seriale, con il suo sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio (1972).

Complessivamente non si può negare che L’imbalsamatore, Gomorra, Dogman e altri lavori del regista siano migliori di questo Pinocchio, ma un percorso autoriale, che aggiunge punti, immagini, tasselli al proprio discorso è in vista, passando per il lavoro della trasposizione, rilettura degli avi nazionali.

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Anastasia Piperno

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