Perché uno dei Paesi storicamente più democratici si trova ora dilaniato dalle proteste del suo popolo? Forse perché per la prima volta proprio il popolo indiano sta riscontrando una breccia in quella corazza che durante la sua storia si è costruito. Grazie agli sforzi di grandi uomini come Jawaharlal Nehru e del Mahatma Gandhi nel 1947 è nata una nazione moderna basata sulla difesa della democrazia e dei diritti umani, troppo spesso, nella sua storia di colonia inglese, calpestati. Cosa ha potuto cambiare questo trascorso storico non così lontano e così forte? L’India in rivolta attribuisce la colpa a una figura in particolare, il Primo Ministro Narendra Modi, membro del partito Bharatiya Janata Party (tradotto, il Partito del Popolo Indiano), il quale ha scosso l’opinione pubblica non solo nel suo Paese per una legge che sembra parte di una strategia volta ad imporre al Paese una natura induista e nazionalista, che però non concorda con la realtà dell’India di oggi.
La legge sulla cittadinanza e le manovre repressive del governo Modi
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Qual è stata la molla che ha portato l’India in rivolta? Una legge recentemente emanata dal governo Modi, la Citizenship Amendment Bill (CAB), la quale è sostanzialmente un emendamento di una legge di oltre sessant’anni fa. Nell’atto pratico la legge non prevede la possibilità per gli immigrati irregolari di poter prendere la cittadinanza indiana, ma questo emendamento concede l’eccezione alla regola per gli immigrati provenienti dai Paesi limitrofi (Bangladesh, Pakistan, Afghanistan) che siano di religione indù, cristiana o sikh. Il dettaglio che ha scosso l’opinione pubblica è che questo emendamento non comprende gli immigrati di religione musulmana: nella realtà non parliamo di una piccola parte della popolazione indiana, anzi si tratta addirittura del 14% (pari a circa duecento milioni di musulmani). Questo non è il solo motivo che ha portato l’India in rivolta, poiché questo emendamento si collega direttamente alla politica del Registro Nazionale dei Cittadini d’India (NRC): questo documento risale a una recente campagna governativa che voleva identificare, all’interno della popolazione indiana, quali fossero i cittadini considerati in maniera irregolare indiani ma in realtà provenienti dal Bangladesh e trasferitosi nella regione nord orientale dell’Assam. Proprio in questo registro due milioni di cittadini indiani, la cui metà all’incirca è musulmana, non hanno riscontrato il proprio nome e hanno subito poi la minaccia da parte del governo di una espulsione dal Paese qualora non fossero riusciti a provare la loro regolarità; il governo ha fatto sapere la propria intenzione di voler estendere questo controllo censitario a tutta la popolazione entro il 2024.
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Questa campagna del governo Modi non solo sta aggravando la situazione della minoranza musulmana nel territorio indiano, dato l’aumento negli ultimi anni delle repressioni (attacchi a luoghi di culto e moschee), ma sta violando anche un principio centrale della costituzione dell’India moderna: il secolarismo, secondo cui tutte le religioni in India sono accolte con benevolenza e sono trattate in pari maniera di fronte alla legge. L’opinione pubblica internazionale definisce Modi come la figura politica indiana più influente e decisa degli ultimi decenni, che ha dato una decisa svolta alla politica indiana e tutto lascia supporre che il suo obiettivo sia quello di creare uno Stato su base confessionale come ad esempio lo è il Pakistan. Basti pensare già alla manovra di questa estate, quando il governo indiano ha privato il Kashmir del suo status di regione speciale; quella regione è abitata prevalentemente da musulmani. La reazione a questa sospetta tendenza sono state le proteste scoppiate per tutta l’India settimane fa. Delhi, Meerut, Chandigarh, Patiala, Kanpur, Aligarh, Ahmedabad (nel Gujarat, Stato d’origine di Modi), Lucknow, Varanasi, Patna, Guwahati, Tezpur, Itanagar, Dibrugarh, Imphal, Silchar, Aizawl, Manu, Shillong, Santinketan, Kolkata, Bhopal, Mumbai, Pune, Hyderabad, Kasargod, Bangaluru, Chennai, Puducherry, Mysuru, Kochi, Kottayam; tutte queste sono città dove sono cominciate le manifestazioni innanzitutto delle minoranze musulmane, successivamente seguite da un numero elevatissimo di studenti, i quali si sono scontrati duramente con la polizia, arrivando a conseguenze tragiche. I numeri delle vittime sono nei giorni sempre più salite e ora si aggirano intorno ai venti, con migliaia di feriti riportati, di cui centinaia hanno subito ferite provocate da arma da fuoco. I manifestanti hanno mostrato il loro dissenso e la loro paura per questa svolta nazionalista con cori che inneggiano a uno Stato laico, sovrano ma soprattutto democratico; qualche giorno fa Modi, durante una manifestazione a Nuova Delhi, ha provato a smorzare le violenti proteste rinnegando tutto ciò che gli viene accusato:
Da quando il mio governo è salito al potere, dal 2014 ad oggi, voglio dirlo ai cittadini, non si è discusso nemmeno della parola NRC.
Il premier ha dunque smentito le accuse di una svolta pro-induista a discapito del pari trattamento di tutte le religioni, aggiungendo anche che all’interno del suo Paese nessun cittadino deve sentirsi in pericolo, poiché egli lavora per il bene del popolo indiano.
Purtroppo le parole di Modi non sono state supportate dai fatti: oltre ai dati già riportarti sulle vittime e sui feriti che sono già sufficienti a mostrare la repressione forte e decisa del governo, fatto che già contraddice la democraticità che il premier indiano sostiene di adottare, vi sono anche altre forti misure restrittive. Il governo ha disposto plotoni di polizia in tenuta anti sommossa, emanando il divieto di assembramento (la Sezione 144 del codice di procedura penale indiano, che vieta il raduno di più di cinque persone) per la popolazione, bloccando anche i mezzi pubblici (metropolitana inclusa) e riuscendo così ad arrestare migliaia di manifestanti. Il provvedimento più forte è stata la sospensione di internet e delle comunicazioni in molte zone di Nuova Delhi, manovra inedita per la nazione indiana, in modo da impedire la diffusione di immagini e video che testimonino le violenze che sta permettendo il governo; questa degenerazione della situazione politica indiana non ha sicuramente buoni effetti sul partito del BJP e del suo leader Modi.
La decisione della Corte suprema dell’India e i primi risvolti per il futuro dell’India
La situazione già abbastanza deteriorata rischia di non trovare una soluzione in un tempo breve, anche per la decisione che il 18 dicembre è stata presa dalla Corte suprema indiana: il massimo organo giuridico della nazione asiatica ha rifiutato di bloccare l’iter legislativo di questa legge che sta letteralmente squarciando l’India in rivolta. Nel frattempo Modi sta già pagando le prime conseguenze della sua politica nazionalista che a tutti gli effetti appare il tentativo di creare una nazione induista: il partito nazionalista del premier aveva vinto nettamente le elezioni di maggio, mostrando tutta l’influenza che il premier sta avendo nel Paese, ma le decisioni prese negli ultimi mesi da Modi, con il Kashmir e poi questa contestata legge, stanno impattando duramente con la reazione del popolo. Il consenso del BJP sta difatti lentamente sgretolandosi, poiché i recenti sondaggi statali hanno mostrato la perdita della maggioranza anzitempo già nell’importantissimo Stato del Maharashtra (regione ad alto turismo per la presenza di Mumbai e dunque rilevante nell’economia indiana) e ora il consenso è scomparso anche nello Stato di Jharkhand (regione con altra concentrazione di risorse minerali).
Nonostante questo evidente ostacolo, la posizione di Modi è forte grazie alla rielezione di pochi mesi fa ma, come in ogni Stato moderno che si rispetti e a cui sia attribuito l’aggettivo democratico, la volontà popolare è sempre sovrana, pur volatile che sia. Dunque, il prossimo futuro per l’India è molto incerto, ma sicuramente in questa violenta leva che si è creata da Modi e il popolo indiano in qualche modo una delle due parti dovrà tornare sui propri passi, altrimenti si rischierà che questa leva “spezzi” l’India stessa.