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La brutta abitudine degli italiani di dare soprannomi agli avversari

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Stefano Cavallini

Pdioti, Grullini, PDmenoL, Mo’ vi mento, Cinque Stalle, Legaioli, Capitone, Capitan Nutella, Felpa Pig, Felpato, Selfini, Sor Tentenna, Saponetta, Toninulla, Ebetino, il Bomba, Pinocchio, il Rottamatore, Fonzie, Renzie, Shish, Morfeo, Cavaliere, Sua Emittenza, Psiconano, Caimano, Papi, Presidente (operaio), Al Tappone, Testa d’Asfalto, l’Unto del Signore, Bellachioma, Cavaliere Mascarato, Molok, il Gobbo, Divo Giulio, Belzebù, Angelino Jolie, il Mortadella, Gargamella, il Trota, Senatur, la Zucchina, la Borgatara, Uolter, Spillo, Baffino, Big Nipple. Ai politici sono sempre stati affibbiati soprannomi, ma negli ultimi dieci anni questa tendenza ha conosciuto una inquietante accelerazione, che rischia di modificare in maniera irreversibile il discorso pubblico.

Persone o personaggi?

I soprannomi sono direttamente proporzionali al potere detenuto dalle persone a cui sono affibbiati. Non è un caso che a poterne vantare di più siano Berlusconi, Salvini, Andreotti e Renzi. Appuntati come medaglie al petto, questi costituiscono una vera e propria operazione pubblicitaria involontaria. Il soggetto subisce una trasformazione e diventa, da persona complessa, una figura monodimensionale proiettata nel discorso pubblico: una bonaria macchietta, un super-villain, un incapace cronico. Per la gioia dei giornalisti, in questo modo i politici non vengono più considerati politici, cioè coloro che dovrebbero governare sensatamente la cosa pubblica, ma attori di una commedia giornaliera familiare che va in onda sui quotidiani, i social network e i salotti televisivi.

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Il soprannome fagocita i tratti reali del bersaglio e li sostituisce con caratteristiche iperboliche che trasformano a proprio piacimento le persone in personaggi e gli avversari in nemici. Chi più di altri ha perfettamente compreso questo meccanismo per cui (sopra)nominare significare dominare è Salvini, che lo applica per delegittimare i critici e gli oppositori. L’operazione è sempre la stessa: si prende una categoria o un soggetto singolo, per esempio Luciano Canfora, gli si incolla addosso una definizione, un soprannome come «professorone» ed ecco che Canfora smette di essere un essere umano normale per diventare un borioso e ricco professore di qualche incomprensibile materia. A questo punto il cambiamento è avvenuto e il nuovo soggetto fittizio si può denigrare a piacimento.

Salvini usa il termine “professorone” per trasformare Canfora in nemico e poterlo attaccare a piacimento.

Accattivarsi il consenso: rinominare è risignificare

Solitamente i soprannomi mettono in risalto caratteristiche caricaturali e negative, ma questo non significa che non possano essere usati dai diretti interessati per costruire consenso. Berlusconi è un esempio perfetto di questa dinamica. Affibbiandogli un soprannome dietro l’altro la sinistra non si è resa conto di aver favorito la sua ascesa, fornendogli numerose maschere con cui giostrare la propria identità a seconda del pubblico di riferimento. Berlusconi può essere il Presidente o il Cavaliere se il discorso è istituzionale o calcistico, Papi se si vuole sottolineare la sua abilità con giovani donne (e vellicare negli italiani la comune pratica di frequentare prostitute), Caimano se si desidera mettere in evidenza la sua spregiudicatezza nel mondo degli affari, Sua Emittenza per rimarcare le sue numerose proprietà nel settore delle comunicazioni.

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I soprannomi, disinnescando le parti oscure della persona di Berlusconi e nascondendole con epiteti buffi, quindi innocui, o che segnalano il suo successo, ci portano a guardarlo con indulgenza. Si tratta della stessa operazione compiuta dai meme. Cosa importa dei suoi innumerevoli processi, che ad Arcore vivesse come stalliere il mafioso Vittorio Mangano o che un suo intimo amico e collaboratore fosse Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, se possiamo ridere con un meme in cui allatta un agnello e Striscia la Notizia lo chiama(va) Cavaliere Mascarato? I soprannomi hanno permesso a Berlusconi di risignificare la propria persona a piacimento, evitando accuratamente le zone d’ombra più scabrose. Oggi, una buona parte degli italiani lo considera solo un innocuo anziano con la sana abitudine di raccontare barzellette e «andare a puttane», tanto che Forza Italia sta riguadagnando voti.

Uno dei famosi meme di Berlusconi con l’agnello. La funzione svolta è esattamente quella di alcuni soprannomi: una ripulitura ironica della figura di Berlusconi. Foto: www.ilmilaneseimbruttito.it.

The man with no (nick)name

La capacità dell’uomo di nominare l’esistente porta in sé anche quella di soprannominare. Sarebbe quindi inutile pensare che questa pratica possa scemare negli anni a venire. È, anzi, segno di un vitalismo linguistico che sarebbe apprezzabile se si limitasse a un ambito domestico e alla letteratura satirica; fosse confinato, cioè, al reame del discorso privato, dell’invettiva e della finzione (basti pensare ai soprannomi dati al Duce da Gadda in Eros e Priapo).  Il problema comincia a porsi quando a usare i soprannomi al posto dei nomi veri con cadenza quotidiana non sono autori satirici o comici o scrittori, ma giornalisti, cronisti e politici. Il lettore e il cittadino interiorizzano così l’immagine del soggetto veicolata dal nuovo epiteto che però, come abbiamo già detto, è un’immagine deformata e vacua, non corrispondente al vero. È ovvio, per esempio, che se nella mia mente Prodi è il Mortadella lo riterrò a prescindere un flaccido incapace, perché il salume bolognese, per quanto delizioso, non brilla certo per acume. Si costruisce in questo modo una geografia linguistica essenzialmente posticcia che rischia di inficiare il discorso pubblico, cioè il discorso che il sistema politico fa di sé stesso.

Aspettiamo con ansia qualcuno di non soprannominabile.

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Stefano Cavallini

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