Nel marzo del 2017 Youtube fu travolto dal cosiddetto Adpocalypse: una serie di investitori, resosi conto della forte presenza sulla piattaforma di contenuti che normalmente un’azienda non vorrebbe associati al proprio brand, ritirarono le proprie pubblicità delineando di fatto una sorta di ricatto. La richiesta era semplice: eliminare, se non disincentivare, ogni tipo di contenuto controverso, o che non si accostasse bene all’ipocrita mondo di uno spot pubblicitario. Non è ancora del tutto chiaro chi fossero tali investitori, poiché la loro posizione non è mai stata resa pubblica: abbiamo osservato solo la reazione da parte di Youtube. La piattaforma, nonostante fosse sopravvissuta a molte altre longeve realtà del web (per esempio MySpace) e a scelte decisamente discutibili (come l’integrazione con Google+), ha dovuto cedere al ricatto, entrando in una fase di crisi dalla quale è difficile dire se oggi ne sia uscito o meno. L’impatto di questo evento sulla community di Youtube è stato enorme e prorompente, ma le vere conseguenze sulla piattaforma sono state lente e silenziose e hanno stravolto uno dei più grossi siti web di sempre.
La prima conseguenza del ritiro degli investimenti è stata la demonetizzazione di tutti quei contenuti considerati scomodi per gli investitori. Per “demonetizzazione” si intende l’assenza di pubblicità in un video, e quindi l’assenza di introiti pubblicitari sia per Youtube, sia per chi quel video lo ha creato. La demonetizzazione colpì una varietà eterogenea di video: i commentari di cronaca o di politica in primis, ma soprattutto contenuti inadatti a un pubblico di minori anche per piccoli dettagli: bastava dire parole come “sesso” o “terrorismo” per essere bollati come “inadatti” dall’algoritmo che se ne occupava. Per esempio, fare divulgazione scientifica citando questioni come l’accoppiamento nel mondo animale era (ed è ancora oggi) sufficiente a far scattare il trigger della demonetizzazione. In pratica, riguardava una parte considerevole dei video della piattaforma. Oltre a una perdita di denaro non banale per Youtube, il colpo peggiore è stato per i creatori di contenuti: alcuni di loro si sono visti, da un momento all’altro, una perdita anche totale degli introiti, in modo drastico e nel totale silenzio da parte del sito sulla durata del provvedimento. Le reazioni sono state ovvie e immediate: c’è chi è migrato su Twitch (piattaforma video dedita soprattutto allo streaming di gameplay) e chi si è aperto un Patreon per cercare introiti tramite donazioni, in un clima di previsioni catastrofiste e attacchi alla gestione intera di Youtube.
In problema principale è che la demonetizzazione segue una politica “preventiva” ed è affidata a un algoritmo di intelligenza artificiale. Non si dispongono informazioni più precise, ma è verosimile che fosse basato su reti neurali e quindi con un controllo e una comprensione sul suo funzionamento solo parziali. Non solo: richiedendo un lungo processo di apprendimento, probabilmente nella sua fase di lancio era particolarmente prono ai falsi positivi. Soltanto in un secondo momento, rispetto alla pubblicazione del video, può essere richiesta da parte dell’utente la revisione umana che, per la quantità del materiale da ispezionare, arriva sempre troppo in ritardo rispetto ai picchi di visualizzazione, eliminando completamente tutti i guadagni potenziali che si sarebbero avuti con le pubblicità nel periodo precedente al benestare dell’operatore umano. La promessa era che, una volta terminata la prima e più consistente fase di apprendimento, le cose avrebbero cominciato a funzionare meglio.
La promessa era ovviamente falsa, non tanto per le prestazioni dell’algoritmo ma perché il capriccio degli investitori rimaneva tale e quale. La conseguenza è stato un cambio goffo e grossolano delle politiche su cosa fosse accettabile o meno. In realtà, i creatori possono continuare a caricare la maggior parte dei contenuti che erano leciti prima, ma finiscono per essere penalizzati nei ranking e demonetizzati, a meno di sponsorizzazioni esterne con pubblicità all’interno dei video. È cominciata quindi la fase contestata di transizione a un Youtube family friendly, con un conseguente peggioramento della qualità media dei video: buona parte di questi video considerati family friendly, nonostante attirino effettivamente un pubblico molto giovane, non sono contenuti veramente adatti a quel segmento di pubblico: si veda per esempio l’enorme successo degli youtuber Logan e Jake Paul. Questa svolta, unita alla mala gestione di diversi scandali (come appunto le reazioni alle bravate di questi youtuber, spesso poco in linea con i nuovi standard), ha mutato il volto della piattaforma ma soprattutto ha creato una differenza tra l’immagine che Youtube vuole dare di sé e quello che la piattaforma è realmente. Il culmine di questo dislivello si è raggiunto con il rewind 2018, che ha ottenuto il record di video con più dislike di sempre.
A più di due anni dall’accensione della miccia, quali sono gli effetti? Youtube è simile solamente in apparenza, reduce dagli effetti di un circolo di reciproca influenza tra mondo reale e virtuale. Riguardando gli eventi a mente fredda, ci si rende conto che la narrazione che facciamo della transizione è inesatta. L’Adpocalypse è solo un sintomo di qualcosa che sarebbe successo comunque: Youtube non poteva restare quello degli esordi, perché è cambiato, o meglio si è ampliato, il tipo di pubblico, annettendo quello generalista che originariamente snobbava Internet, spesso per ignoranza in materia tecnologica o per un’arretratezza infrastrutturale. Nonostante gli affezionati alla piattaforma siano un nocciolo duro legato a un immaginario di Internet ormai anacronistico, la maggior parte degli introiti derivano dagli spettatori casual, che rimbalzano da un video spazzatura all’altro senza nemmeno conoscere il potenziale e le meccaniche del servizio.
Quello che è accaduto è che nella guerra tra nuovi e vecchi media, dopo una lunga fase di reciproca influenza, è l’Internet ad avere la peggio al momento. Youtube e TV si sono affrontati e influenzati portando contenuti professionali e di alta qualità nel primo e spazzatura scopiazzata e fatta in modo pigro nel secondo. Al primo posto come creatori di contenuti abbiamo T-series, un colosso dell’intrattenimento indiano. Per la paura di perire economicamente, Youtube ammicca ai suoi concorrenti televisivi, rendendosi ostica non solo per i suoi creatori di contenuti ma anche per il proprio pubblico, specialmente il nocciolo duro che frequenta il sito da anni e con sessioni molto lunghe. Dopo il fallimento di Youtube Red, che non è mai uscito dai territori di sperimentazione, nemmeno il nuovo servizio ad abbonamenti sembra decollare, o comunque competere con i concorrenti come Netflix e Prime Video. Non resta dunque che la pubblicità, territorio che rimane ancora sotto lo scacco dei capricci degli investitori, i cui interessi mal si sposano con quelli di Youtube.
In questa situazione, l’unico a guadagnarci è Patreon: sebbene il servizio già esistesse e aiutasse molti Youtuber che creano contenuti dalla lunga preparazione (per esempio corti animati), ormai è diventato l’unico mezzo di sostentamento per un’ampia categoria di creatori che prima dell’Adpocalypse potevano tranquillamente sopravvivere con i soli introiti di Youtube. Il problema di questo sistema è più o meno lo stesso delle mance obbligatorie negli Stati Uniti: significa addossare agli utenti dei costi che non dovrebbero pagare o che dovrebbero essere mascherati nei normali costi per l’accesso stesso al servizio. Iscriversi ai Patreon di diversi creatori è spesso molto più dispendioso del pagare un abbonamento e significa prendersi carico dei problemi di una multinazionale che rifiuta di affrontarli in modo serio e nel rispetto di quelle persone che rendono possibile l’esistenza dello stesso servizio. Bisogna sottolineare che con Patreon non aumentano i guadagni di Youtube, né gli utenti si liberano della pubblicità. In più, continuare a conservare sui server una grande quantità di contenuti non monetizzabili potrebbe diventare sempre di più un peso economico per l’azienda. Il tempo speso sulla piattaforma non è detto che ripaghi le spese di gestione delle infrastrutture necessarie a garantire un servizio rapido e resistente a eventuali malfunzionamenti di uno o più server.
Se ciò non bastasse, Youtube predilige senza troppo nasconderlo determinati tipi di contenuti, penalizzando anche creatori che nel rispetto delle regole precedenti hanno costruito progetti e comunità considerevoli. Serie di culto come il Filthy Frank Show oggi non troverebbero spazio, né riuscirebbero a diffondersi come era accaduto con i vecchi algoritmi. Molti hanno dovuto reinventarsi, altri hanno dovuto abbandonare la piattaforma, a volte vittime del cosiddetto youtuber burnout. Ciò è possibile perché ci stiamo abituando all’idea di piattaforme che cambiano le regole del gioco, senza preavviso e senza neanche farlo notare, spesso in modo retroattivo. Youtube fa quello che gli pare per cercare di arginare il declino, ma le sue scelte danneggiano i creatori che hanno investito in un lavoro e in un business model che rischiano di saltare da un momento all’altro, e che hanno sviluppato delle capacità difficili da utilizzare in altri modi.
Ci sarebbe da aggiungere che, ancora oggi, tra i creatori le invettive, frecciate o analisi che vanno oltre la semplice lamentela riguardo la demonetizzazione sono all’ordine del giorno: questo mostra quanto la comunità di youtuber sia legata alla piattaforma non solo per una questione monetaria e quindi lavorativa ma per un vero e proprio affetto al brand vissuto in modo molto personale. Molti sono passati nel tempo a competitors come Twitch, molti hanno affiancato alle loro produzioni principali dei prodotti secondari con altre modalità, ma molti altri sono rimasti fedeli alla piattaforma. Nel frattempo il modello di business di molti youtuber, specialmente quelli nuovi, è cambiato: Youtube è sempre più uno strumento per fare pubblicità a sé stessi o necessario a raggiungere, insieme ad altri canali social, lo status di “influencer” per poi iniziare a guadagnare concretamente in altri modi, spesso accettando sponsorizzazioni per i loro video o attraverso attività che si svolgono fuori da Internet.
La conseguenza più visibile è un calo drastico della qualità dei video e dell’esperienza sulla piattaforma, in cui le pubblicità continuano a diventare più numerose e invadenti con anche l’inserimento di messaggi sponsorizzati non skippabili all’interno dei singoli video, alla stregua di televendite che promuovono servizi di dubbia moralità. Un ulteriore aggiornamento che sarà applicato nel prossimo futuro riguarda i contenuti per bambini (con i quali il sito ha già dovuto fare i conti in precedenza). A causa di una legge degli Stati Uniti che vieta la profilazione dei minori, Youtube ha annunciato che non appariranno più annunci personalizzati nei video rivolti ai più piccoli. Tuttavia, la vaghezza con cui sono descritti i destinatari di questo provvedimento crea un’ovvia instabilità per tutti coloro che producono materiale di qualità per i più piccoli, con una ragionevole paura di una riduzione dei ricavi. Questo provvedimento è un ulteriore indicazione del fatto che un colosso, parte di una delle più potenti multinazionali al mondo qual è Google, agisce andando a tentoni senza un piano lungimirante o una direzione precisa che intende seguire.
Ad ogni modo, la decisione spetta sempre a noi utenti finali. Dovremmo anche noi arrenderci ai capricci di poche multinazionali? Forse, come consumatori, dovremmo prendere una maggiore coscienza di questi meccanismi e iniziare a controllare il problema, per esempio non finanziando nessun Patreon ed evitando di portare traffico a quei contenuti family friendly. O forse la questione si riduce al fatto che il mondo dell’Internet “anarchico” non può durare, per lo stesso motivo per cui nessun anarchismo ha attecchito nel mondo reale, e dobbiamo semplicemente fare i conti con la penetrazione delle logiche commerciali in ogni parte di Internet. Insomma, per chi bazzica la rete da più di dieci anni, l’Adpocalyspe è soltanto un fenomeno che ha accelerato e reso noto in modo dirompente una dinamica che è più profonda e triste da ammettere: l’infiltrazione delle logiche di mercato in ogni singolo meandro di Internet. Bisogna rendersi sempre più conto che il Web e la vita reale sono basate non su semplici siti gestiti da nerd ma su aziende che, in quanto tali, hanno bisogno di far sbarcare il lunario ai propri dipendenti. Senza rendersi conto in modo completo del potenziale economico e sociale di quello che stava nascendo, Internet, con la sua sottocultura, si è fatto le ossa attraverso esperimenti più o meno ingenui: quelli sopravvissuti, insieme ai nuovi arrivati, sono realtà imprenditoriali che si comportano come tali. Il periodo degli allori dei porno e dei gattini è finito e chiunque con un briciolo di buon senso sapeva che era solo questione di tempo. Nessuno, però, credeva che saremmo finiti in una situazione così stereotipatamente distopica in stile cyberpunk anni Novanta ma con dei confini tra reale e virtuale, sempre meno delineati.
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