Mattia Perin sale sulla sua auto e imposta il navigatore con destinazione Genova. Il portiere classe 1992 nato a Latina lascia la Juventus, solo temporaneamente, per vestire di nuovo la maglia del Genova, il club che lo ha lanciato in Serie A. Perin è stato acquistato dalla Juventus nel 2018 attraverso un’operazione a titolo definitivo di dodici milioni di euro. Una scelta che ha cambiato la sua carriera, che gli ha permesso di vincere il campionato italiano (lo Scudetto) e di partecipare alla competizione più importante del mondo per club: la Champions League. Il trasferimento alla Juventus ha avuto un doppio effetto, sia positivo sia negativo, sull’estremo difensore. L’aspra concorrenza dei compagni di reparto ha reso difficile la vita di Perin alla Juventus, tanto da relegarlo in fondo alla lista dei portieri: la terza scelta dopo Szczęsny e Buffon. Una fine che non si addice a un ragazzo di appena ventisei anni nel giro della Nazionale, tra i più brillanti talenti del calcio italiano nel suo ruolo.
L’acquisto di Perin da parte del club bianconero viene ufficializzato attraverso un comunicato stampa l’8 giugno 2018. Un’operazione dal valore di dodici milioni di euro più tre di bonus dalla durata quadriennale, con scadenza nel giugno 2022. Senza dubbio una delle operazioni che hanno cambiato la vita di Mattia. Con la maglia bianconera Perin ha avuto un rendimento che non ha rispettato quelli che erano gli standard qualitativi del giocatore. Nella stagione 2018-2019 Perin ha collezionato appena nove presenze, tutte in Serie A, subendo otto reti e solo cinque clean sheet, per un totale di 810 minuti. Nemmeno una volta Perin è sceso in campo con la maglia bianconera in una competizione europea (Champions League) o in Coppa Italia. Numeri che fanno rabbrividire, se si considerano i dati delle presenze in campo di Perin con la maglia del Genoa. Lo scarso rendimento e le presenze che si possono contare con il contagocce hanno fatto perdere al giovane portiere di Latina anche la maglia azzurra della Nazionale italiana. L’ultima gara da titolare con la Nazionale di Mattia Perin risale al 4 giugno 2018, nell’impegno nazionale tra Italia e Olanda, finita sul risultato di 1-1. Perin gioca tutta la gara partendo dal primo minuto, evento che non si ripeteva dal 2014, dalla partita Italia-Albania vinta dagli azzurri per 1-0. In quella gara Perin scende in campo dal primo minuto ma non disputerà tutti i novanta minuti di gioco in campo: per una scelta tattica l’allenatore Antonio Conte lo sostituirà al 73′ con Salvatore Sirigu. La lunga assenza dal campo da gioco di Perin è senza dubbio collegata a un grave infortunio. Infatti, nell’aprile del 2019 Perin ha riportato un problema alla spalla che lo ha costretto a non poter scendere in campo per quasi sette mesi – esattamente 216 giorni di stop – fino a novembre, mese nel quale, probabilmente, ha maturato la decisione di lasciare la Juventus.
Dopo una stagione nella penombra Perin decide di uscire allo scoperto e di riprendersi ciò che gli appartiene: il campo. Non appena la sessione di mercato di gennaio, quella di riparazione, si apre, Perin, d’accordo con il suo procuratore Alessandro Lucci, decide di tornare al Genoa. Un’operazione di prestito secco fino a fine stagione che rilancia Perin nel calcio che conta, quello dei grandi; soprattutto, il portiere di Latina riconquista una maglia da titolare. Genova non è una scelta presa su due piedi ma rappresenta una solida realtà per il portiere di Latina. Infatti proprio con la maglia del Genoa Perin fa il suo esordio in Serie A, il 22 maggio 2011, ad appena diciotto anni, nella partita Genoa-Cesena (3-2) dell’ultima giornata di campionato. L’8 luglio, dopo appena due mesi, passa in prestito al Padova, in Serie B, con il quale esordisce il 1 ottobre nella vittoriosa trasferta di Empoli per 4-2, sostituendo l’infortunato Ivan Pelizzoli. A quel tempo Perin sembrava essere un predestinato, colui che avrebbe fatto della Nazionale la sua casa e dell’azzurro la sua seconda pelle.
Dopo una breve parentesi in Serie A con la maglia del Pescara, con la quale colleziona 2.519 minuti in ventinove presenze e sessantasei gol subiti, con quattro clean sheet, Perin ritorna al Genoa, casa sua. L’ascesa nel calcio dei grandi è facile. Dalla stagione 2013-2014 Perin resta uno dei pilastri inamovibili del Genoa, simbolo di garanzia e professionalità, tanto da attirare l’attenzione dei grandi club, tra i quali proprio la Juventus. Sarà il 2020 l’anno del riscatto, della rinascita, del rilancio. Il ritorno a Genova di Perin viene subito battezzato con una vittoria nella gara contro il Sassuolo. Prima da titolare e prima vittoria. Un risultato positivo per il Genoa e per Mattia Perin, un po’ meno per il secondo portiere del Genoa Radu che, dopo una splendida stagione disputata fino a questo punto, è stato relegato in panchina, in attesa di conoscere il suo futuro: probabile un suo ritorno a Milano, esseno Radu di proprietà dell’Inter.
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Le decisioni che prendiamo nel corso della nostra vita ci segnano profondamente. Cosa ci spinga a prendere una decisione non lo sappiamo con precisione: a volte l’istinto, a volte le pressioni, altre volte l’ambizione. Ambizione, che strana parola. La sua definizione è molto semplice: desiderio di potere, di onori, di grandezza; vanità, orgoglio smisurato. Insomma, l’ambizione ci spinge ad andare avanti, a fare di più, a uscire fuori dalla nostra comfort zone, perché, lo sappiamo, non ci basta mai ciò che abbiamo, desideriamo avere sempre di più. Gli esseri umani agiscono d’istinto, seguono la propria natura e il desiderio di arrivare sempre più in alto. La ricerca della realizzazione personale, il raggiungimento di un traguardo sognato da bambino. E parliamoci chiaro: giocare per la Juventus non è il sogno di qualunque bambino? Diventare membro di un club di livello mondiale non farebbe piacere a chiunque?
Quel bambino di Latina avrebbe finalmente coronato quel sogno: diventare il portiere del club più forte d’Italia. Tuttavia, non sempre le decisioni che prendiamo si rivelano essere quelle giuste. Spesso finiamo per incappare in intoppi o scelte sbagliate che ci danneggiano. Il giovane Perin è incappato proprio in questo: un incidente di percorso che lo ha bloccato e paralizzato, momentaneamente. Non è stato il solo: tutti sbagliamo, se può essere considerato errore l’aver scelto di diventare portiere della Juventus. Tuttavia, al di là della gloria, della fama e di qualche premio vinto, non da protagonista, la carriera di Perin ha avuto una battuta d’arresto. Ha smesso di essere protagonista, ha smesso di crescere, ha smesso di fare ciò che tanto amava fare, restando nell’ombra. Gli è davvero convenuto scegliere la Juventus? Ci poniamo questa domanda e la poniamo anche a voi: gli è davvero convenuto? Il ritorno a Genoa ha un fine specifico: tornare ad essere protagonista. Tornare sulle prime pagine. Perin, come altri, ha fatto la scelta più coerente: rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro. D’altronde la vita è fatta anche di questo, di scelte. La voglia di rilanciarsi ha sovrastato l’ambizione.
Nel film Ricomincio da tre di Massimo Troisi, il buon Lello Arena recita una battuta filosofica sempre attuale: «Chi parte sa da che cosa fugge ma non sa che cosa cerca», importante citazione di Michel De Montaigne. Molti giocatori nel corso della loro carriera hanno preso strade diverse, hanno lasciato porti sicuri in certa di venti migliori o che credevano fossero migliori. Dopo sbagli, sofferenze e rimpianti, alcuni hanno scelto di tornare a casa, riabbracciare quella famiglia che si aveva tanto amato e riprendersi il calore di quei tifosi. A volte va bene, a volte va male. Ecco alcuni dei ritorni della storia che hanno segnato la carriera dei giocatori, di un club, di una città, di un tifo.
Il primo Cruijff di Amsterdam è forse uno dei dieci giocatori più forti della storia del calcio: dopo la trafila giovanile, l’olandese esordisce in prima squadra nel 1964 e vi rimane per nove anni ininterrotti, fino al 1973. Con i Lancieri vince tutto: campionati, coppe nazionali, tre Coppe Campioni, una Supercoppa Europea e una Coppa Intercontinenale, fino a consacrarsi uomo simbolo di un’intera generazione. Vince anche due Palloni d’Oro (più un altro, quando si sarà da poco separato dall’Ajax) mettendo a segno la bellezza di 251 gol in 319 apparizioni. Passato al Barcellona nell’ottobre 1973 all’età di ventisei anni (in tempo comunque per vincere una Liga), si ritira dal calcio giocato ad appena trentuno anni, nel 1978, dopo gravi contrasti con l’allenatore Hennes Weisweiler (poi esonerato) e in seguito alla sconfitta alle elezioni presidenziali di Augustì Montal. Torna a giocare più di un anno dopo, nel 1980, nei Los Angeles Aztecs, quindi torna in Spagna, al Levante, poi passa ai Diplomats di Washington. Il 6 dicembre 1981 torna a vestire la maglia dell’Ajax (dopo aver fatto un provino in estate addirittura con il Milan), a trentaquattro anni, per fare da chioccia a una nuova generazione di fenomeni – da Marco van Basten a Frank Rijkaard – vincere un altro campionato e poi passare al Feyenoord, dove chiuderà la carriera nel 1984. La sua seconda esperienza all’Ajax si chiuderà con sedici gol in quarantasei presenze.
Si presenta al Milan come miglior giovane dell’est Europa nel 1999, pagato la bellezza di venticinque milioni di dollari da Silvio Berlusconi: le aspettative su di lui sono enormi e il giovane attaccante ucraino non le delude, entrando di fatto nella leggenda rossonera. Dal 1999 al 2006 Ševčenko mette a segno la bellezza di 165 gol e vince montagne di trofei: uno Scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, una Supercoppa Europa ma, soprattutto, una Champions League contro la Juventus nel 2003, mettendo a segno il rigore decisivo nella finale di Manchester. Nel 2006 cede alla richieste del Chelsea di Roman Abramovič. A Stamford Bridge però Ševčenko, pagato a peso d’oro, sembra la copia sbiadita del giocatore visto a Milano: segna quattordici gol nel primo anno e appena otto nel secondo (vincendo comunque due coppe nazionali). Torna quindi al Milan, ma non è più la stessa cosa: innanzitutto, la maglia non è più la medesima. La leggendaria numero 7 dei gloriosi trascorsi rossoneri, passata nel frattempo al giovane Pato, lascia il posto a un’anonima numero 76 (il suo anno di nascita). Soprattutto, però, Ševčenko non è più lo stesso giocatore capace di incidere: a trent’anni il meglio pare essere alle spalle per lui e, dopo una decina di gol in due stagioni, torna alla Dynamo Kiev, lì dove tutto era cominciato (altro glorioso déjà-vu della sua carriera) prima di chiudere col calcio nel 2012.
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A proposito di Milan, sono tanti i ritorni alla squadra. Nel 2013-2014 Balotelli aveva vissuto una grande annata in rossonero prima di andare al Liverpool. Nel 2015 è tornato, ma questa seconda avventura non è andata bene come la prima.
Un altro ritorno sbiadito è stato quello di Kaká. «I grandi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano», canticchiava Galliani mentre riportava a casa il brasiliano che aveva giocato e vinto coi rossoneri tra il 2003 e il 09 prima di andare al Real Madrid. Nel 2013-2014 il brasiliano è tornato a Milano per una stagione: trenta presenze, sette gol e poi l’addio definitivo per volare negli States.
Scrivere la storia di un club a digiuno di trionfi da un po’ di anni non è semplice, ma ci riesce la punta ivoriana, arrivata al Chelsea non giovanissima, a ventisei anni, nel 2004. L’allora allenatore José Mourinho gli promette di farlo diventare una leggenda: sarà di parola. Drogba, che si era messo in risalto con le maglie di Guingamp e Olympique Marsiglia, resta a Londra otto lunghi anni, fino 2012, realizzando 157 gol e segnando un’epoca d’oro. Riporta la Premier League in casa dei Blues dopo cinquant’anni (vincerà poi altri due campionati) e, al termine della sua prima esperienza londinese, metterà a segno la rete che porterà il Chelsea ai supplementari contro il Bayern Monaco in finale di Champions League: finirà con la conquista della prima storica coppa dalle grandi orecchie del club inglese nella sua storia. Si allontana dunque un paio di anni: va in Cina, allo Shanghai Shenhua, e al Galatasaray (anche lì da vincitore), prima di tornare insieme a José Mourinho in tempo per vincere un altro campionato con sette gol in quaranta presenze (molto spesso spezzoni di partita). Non è più l’attaccante da sogno di un tempo, ma un rincalzo chiamato dal tecnico portoghese per tenere a bada le nuove leve e a galla lo spogliatoio. Lascia dopo una sola stagione per approdare ai Montreal Impact, il resto è storia recentissima.
Quando Maradona debutta con il Boca Juniors nel 1981, appena arrivato dall’Argentinos Juniors, è impossibile non capire di che pasta è fatto. Un ragazzo con un dono, un talento smisurato. Mette a segno ventotto gol in quaranta partite stagionali. Poi viene notato dal Barcellona: quello che succederà dopo è storia. Il Maradona che torna a Buenos Aires nel 1995 non è più la stessa persona. È profondamente cambiato come uomo e, purtroppo, anche come calciatore. Gli eccessi, i problemi con la droga, la misteriosa squalifica per doping ai Mondiali del 1994, un primo tentativo di farla finita con il calcio giocato, lo rendono un lontano parente del fenomeno che aveva cambiato il mondo del pallone. Il tocco di palla, però, è lo stesso: fino al 1997 Maradona regala ancora qualche gioia ai tifosi argentini, con sette gol in non molte presenze prima di smettere, stavolta per sempre. Un ritorno, il suo, memorabile più per ciò che ha rappresentato che per ciò che è effettivamente stato.
La prima volta di Antonio Cassano a Genova è storica: arriva nell’agosto del 2007 dal Real Madrid. Dopo un’esperienza non proprio positiva Cassano sente l’esigenza di rilanciarsi. La Sampdoria è l’unico club in Italia a puntare sul barese e gli dà un’occasione. A venticinque anni e dopo più di una scorribanda alle spalle, sono in molti a reputare Fantantonio come un ex talento sulla via del tramonto. In tre anni e mezzo con la maglia blucerchiata Cassano mette a segno 41 gol, ma più di tutto trascina la Sampdoria fino ai preliminari di Champions League. Nell’ottobre del 2010, però, c’è una discussione tra Cassano e l’ex presidente della Sampdoria Edoardo Garrone. La discussione sarà così grave che l’attaccante viene spedito fuori rosa e venduto alla riapertura del mercato al Milan. Da lì un peregrinare lungo oltre quattro anni: dopo il Milan, l’Inter, quindi il Parma, infine il ritorno a Genova.
Neanche a dirlo Buffon e Bonucci sono due simboli storici della Juventus. Il portiere, tra i più forti di sempre, rappresenta il capitano del club bianconero dopo l’addio di Alex Del Piero. Il difensore è uno dei perni principali del club piemontese. Quando nel 2018 Leonardo Bonucci è passato a sorpresa dalla Juventus al Milan, in pochi avrebbero scommesso su un suo ritorno in bianconero. Quando successivamente ha segnato (ed esultato di gusto) nella partita all’Allianz Stadium contro la sua ex squadra, probabilmente nessuno avrebbe scommesso un solo centesimo sul clamoroso dietrofront. Bonucci, però, di tutte queste considerazioni si è curato ben poco e, sorprendendo tutti, ha chiesto e ottenuto di poter tornare indietro, dal Milan alla Juventus.
Anche Buffon, dopo una breve parentesi al Paris Saint Germain ha scelto di rivestire la maglia bianconera della Juventus. Una scelta di cuore, sicuramente. Una maniera per rientrare nel mondo Juventus con la speranza – fondata – di diventare dirigente in futuro. Ma ci sarebbe anche un’altra ragione se Gigi Buffon ha deciso di accettare la proposta del club bianconero rinunciando a quelle – ricche e prestigiose – di Barcellona e Porto. L’addio di Perin ha segnato comunque il futuro di Buffon che passa inevitabilmente a essere il secondo portiere dopo Szczęsny. Piuttosto, è interessante il ruolo che Buffon potrebbe avere in futuro alla Juventus. Non dirigente… o meglio, non ancora. Piuttosto, uomo spogliatoio, chioccia del nuovo corso, miglior garanzia per Maurizio Sarri. Il nucleo storico – Buffon più Barzagli, Bonucci e Chiellini – si riformerebbe dopo un percorso da film. Leo tornato dal Milan, Barza nello staff tecnico, Chiello con la fascia ereditata da Gigi.
Forse uno dei ritorni più romantici di sempre è quello di Tierry Henry all’Arsenal. Il giovane francese arriva nel 1999, ad appena ventidue anni, al club londinese. Henry, che viene dall’esperienza al Monaco, la sua casa madre, e dal breve fallimento alla Juventus, segna un’epoca meravigliosa. Dopo un duro periodo di adattamento al calcio inglese, riporta i Gunners alla vittoria della Premier League e poi ne conquista un’altra al termine di un campionato condotto dall’inizio alla fine senza subire nemmeno una sconfitta. Davanti al suo nuovo stadio, l’Emirates, l’Arsenal gli dedica una statua, ma Henry non si è ancora ritirato: va al Barcellona, dopo 226 gol in quel di Londra, per vincere la Champions, quindi emigra negli USA, nei New York Red Bulls, per concludere la carriera. Nel gennaio 2012 l’occasione di una vita: Wenger, alla ricerca di un attaccante per fare numero, lo richiama e i Red Bulls gli accordano il prestito breve. Nel suo nuovo debutto in Inghilterra, contro il Leeds in FA Cup, Thierry fa quello che meglio gli riesce: la butta dentro. L’Emirates esplode davanti al suo monumento. E stavolta non è più solo un modo di dire.
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