Per ovvie ragioni anagrafiche non ho mai avuto la possibilità di veder giocare a calcio Pietro Anastasi. Implicitamente, però, lui stesso è legato a uno dei ricordi più belli della mia (ancora oggi) breve carriera giornalistica. Un pensiero silenzioso, finora mai raccontato, che avevo sempre tenuto per me e che ora vorrei condividere con tutte le persone che lo hanno amato e rispettato in quanto persona e professionista.
Avevo iniziato da poco a lavorare con il giornalista Raffaele Auriemma e la redazione di Si Gonfia La Rete, la mia prima esperienza assoluta di un certo livello in radio, precisamente a Radio CRC. Anno 2018, un’avventura meravigliosa. Uno dei compiti che mi spettava era quello di costruire – insieme agli altri colleghi – la scaletta della trasmissione.
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Nel corso di una mattinata caldissima di inizio luglio avevamo bisogno un nome da interpellare per un intervento radiofonico. Così telefonai proprio a lui, Pietro Anastasi. Che avevo visto segnare, esultare, vincere (soltanto) in bianco e nero e (tanto) in bianconero e in Nazionale, ovviamente tramite immagini di repertorio. Ancora oggi, quando penso a lui, mi viene in mente il gol che chiuse la partita nella finale degli Europei 1968 contro la Jugoslavia. L’unico Europeo vinto dalla nostra Nazionale porta orgogliosamente la sua firma.
La risposta, un cortese «La ringrazio ma non mi è possibile», disegnava il ritratto una persona stanca, in difficoltà. Anastasi – lo scoprii poi – era già malato da tempo. Contemporaneamente, un mio collega trovò l’ultimo ospite, quindi la scaletta era comunque completata. Ero pronto a concludere la telefonata per togliere il disturbo ma, inaspettatamente, quel simpatico signore, un campione nato e vincente di professione, iniziò a scherzare e ridere insieme a me. Forse voleva compagnia, o magari semplicemente non aveva di meglio da fare.
Così restai a parlare con Pietro Anastasi per qualche minuto. E mi raccontò tante cose, seppur in poco tempo. Parlammo della Juventus, del Napoli, degli attaccanti di oggi, così uguali e diversi rispetto a quelli di ieri. Lui faceva parte di un pallone diverso, che a tratti oggi sembra quasi anacronistico. Ma che, contemporaneamente, conserva ancora alcune caratteristiche riproposte in maniera ciclica. Ci salutammo, io con grande rispetto e lui con incredibile umiltà. Quella è stata la prima, ultima e unica volta in cui ho parlato con Pietro Anastasi.
Una persona allegra, squisita, che in un mondo di merda in cui ogni primadonna fa spallucce in maniera poco collaborativa aveva scelto di dedicare qualche minuto a un signor nessuno come me. Dandomi ragione, perché avevo sempre pensato che – nonostante il cinismo dilagante in questo mestiere – si potesse ancora far leva su gentilezza, calore umano, cortesia.
Grazie Pietro. Tu potresti aver già dimenticato. Ma io non ti dimenticherò mai.
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