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Spettacolo

Piccole donne: la versione di Greta Gerwig

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Anastasia Piperno

Il successo di Lady Bird (2017) di Greta Gerwig ha pagato: la regista nel 2016 era in trattativa con la Sony per prendere in mano il progetto, avviato nel 2013, di una nuova trasposizione cinematografica dal romanzo Piccole donne di Louisa May Alcott. Gli incassi e il favore riscossi da Lady Bird, il primo lungometraggio diretto e scritto da sé – aveva già co-diretto e co-scritto con Joe Swanberg il mumblecore Nights and Weekends (2008) – hanno confermato che il progetto di Piccole donne era in buone mani, con la preparazione avviata nel 2018. Si tratta di un ulteriore passo della regista americana dall’area cinematografica indipendente verso le grandi produzioni hollywoodiane: questa volta non è nemmeno la sceneggiatura nel cassetto, scritta, ampliata, “covata” per anni di Lady Bird, ma è un film su commissione e un adattamento da un testo letterario precedente.

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Infatti, diversi al momento dell’annuncio di Piccole donne diretto da Gerwig pensarono che fosse strano che accettasse un film dalla genesi così estrinseca, ancora più lontana dall’area indie e autoriale in cui era cresciuta, ma Gerwig riesce a coniugare di nuovo la popolarità della produzione (il budget rispetto a Lady Bird è stato triplicato), con il proprio percorso personale: Piccole donne è in ottima continuità con Lady Bird.

Piccole donne è la storia di Jo, di Louisa, di Greta

Piccole donne di Louisa May Alcott certamente si è prestato nel corso della storia del cinema a diversi adattamenti: quello della Gerwig è il settimo, venendo dopo – ad esempio – i noti Little Women (1933) di George Cukor con Katharine Hepburn come Jo, Little Women (1949) di Mervyn LeRoy, con Elizabeth Taylor come Amy, e Little Women (1994) di Gillian Armstrong, dove invece figurava Winona Ryder come Jo. Un’eredità importante, ma il romanzo di Alcott non smette facilmente di essere saturo, costituendo un patrimonio della cultura letteraria americana popolare (Alcott riscosse un notevole successo economico sin dalla pubblicazione del romanzo nel 1868) la cui importanza non può essere relegata al romanzo pedagogico per “giovinette”. Soprattutto Jo March è stata un’eroina letteraria, simbolo di indipendenza femminile, in cui generazioni di lettrici si sono identificate. La stessa Gerwig dice: «Da ragazzina la mia eroina era Jo, oggi è Louisa May Alcott». Infatti il suo Piccole donne traccia un doppio sentiero biografico: è la storia di Jo, ma dietro Jo si nasconde Louisa May Alcott e inevitabilmente, almeno in parte, anche Greta Gerwig.

Gerwig infatti, oltre che rendere il materiale dei primi due libri della saga di Alcott, aggiunge dettagli della vita personale dell’autrice, frasi dai suoi diari e lettere. E nelle movenze goffe di Jo, nella capacità di esprimersi in una maniera personale e fuori posto rispetto alle etichette mondane («It’s Capital!»), nell’interesse per la recitazione e ben presto per la scrittura si rinviene quel personaggio consolidato da Gerwig stessa. Gerwig dunque si nasconde, ma c’è: era già un suo tratto emerso da Lady Bird unire materiale narrativo finzionale a dettagli disseminati della vita reale dei propri autori. Il suo primo film, pur non contenendo nessun avvenimento letteralmente avvenuto nella vita di Gerwig, era semi-autobiografico nel suo nucleo tematico, nelle verità apprese, nelle esigenze sentite. Così Gerwig riesce ad allacciare anche con Piccole donne. Dice a Repubblica: «È un romanzo moderno, e onestamente, dentro c’è tutto ciò che penso sui temi che lo sottendono: autorialità, onore, donne, soldi, arte, ambizione». Ed era d’altronde già importante che Louisa May Alcott potesse parlare nel 1868 di temi non connessi abitualmente con le donne: l’arte, l’autorialità, i soldi. Non a caso ancora in Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, testo del 1928, si faceva presente il bisogno imprescendibile di connettere il contesto materiale alla propria attività artistica, cioè la necessità per una scrittrice di avere un fondo economico che possa considerare proprio, senza che sia un passaggio da un padrone a un altro, da un padre a un marito (una posizione ribadita ad esempio da Amy durante quest’ultimo Piccole donne). La stessa vita di Louisa May Alcott ha ispirato la regista Gerwig nella maniera in cui ha lottato tutta la vita per mantenere la famiglia, senza arrendersi al percorso più comune per una donna di trovare sicurezza economica, ovvero il matrimonio, e senza cadere nel pensiero altrettanto comune che la via di realizzazione per una donna sia tutta nell’amore.

Foto: adventuresinpoortaste.com

La forza del focolare

Possedere sé stessi, contare su sé stessi: questi sono valori cardine anche della famiglia March di Piccole donne, specialmente nel contesto storico in cui si sviluppa la vicenda, cioè la partenza degli uomini di famiglia al fronte per la guerra di secessione americana, e il bisogno della parte femminile di andare avanti da sé, nella propria comunità restante, con le proprie forze. Questo non più che risuonare nel mondo contemporaneo e nell’interesse per l’autorialità di Gerwig. Infatti il suo focus in questo adattamento cade su Jo (Saoirse Ronan) e la sorella minore Amy (Florence Pugh, ormai lanciata dopo Lady Macbeth e Midsommar), le due artiste di casa, risonanti d’altronde con il contesto attuale del movimento #meToo.

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Facendo così, sacrifica in parte quel gioco di differenze del romanzo nel portare avanti il percorso di crescita delle quattro sorelle March, ognuna con una propria distinta personalità. Non a caso le performance migliori sono proprio quelle di Ronan e Pugh, mentre cade in secondo piano ad esempio Emma Watson, interprete di Meg. Non si perde tuttavia un elemento imprescendibile: il senso della famiglia, le March nel loro complesso. È il ricordo del focolare familiare che contribuisce alla struttura narrativa del film. Si tratta dell’intervento più specifico e proprio di Gerwig rispetto alla fonte letteraria: il film infatti ha una narrazione cronologica non lineare. Parte dall’età adulta per ritornare agli episodi d’infanzia tramite flashback, proseguendo così in modo alternato. Le parti adulte hanno una tonalità fotografica fredda, bluastra, mentre l’evocazione dell’infanzia si colora di toni giallastri: una contrapposizione stilistica tutto sommato banale, ma è facilmente indicativa del rapporto tra infanzia ed età adulta.

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Anche Christine MacPherson, in Lady Bird, riscopriva i propri legami familiari e le proprie radici nel momento della separazione e della vita autonoma al college. I due film infatti dimostrano la continuità della Gerwig nell’essere racconti di formazione. Se per Jo il tornare al focolare dell’infanzia non costituisce propriamente una rivelazione né una scoperta (le March sono sempre state unite), Gerwig sceglie comunque di articolare a partire dalla separazione tutta la storia delle March, che nel romanzo, appunto, ha una progressione lineare. È in linea con quel Pilgrim’s Progress al centro allegorico del romanzo di Alcott: un percorso di affrancamento dall’infanzia, di accettazione che essa faccia parte del passato, nella necessità di “diventare donne”, di incorrere nelle responsabilità della vita adulta. Jo è quella più apertamente nostalgica del proprio nucleo familiare come indivisibile.

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Gerwig evidenzia il compromesso tra arte e denaro

In tutto questo gli uomini trovano un inserimento quasi timido, per quanto sia di primo piano il ruolo di Laurie (Timothée Chalamet, altro attore di grande fortuna dopo Chiamami col tuo nome), restano agli angoli del fermento familiare delle March e chiedono il permesso di entrarvi. Gerwig diminuisce anche l’ombra paterna così decisiva per Jo/Louisa May Alcott: non solo il rispetto dato al padre e il bisogno di compiacerlo nell’infanzia sono citati en passant, ma il finale pretendente di Jo, il critico Friedrich Bhaer (un malcapitato Louise Garrel), non è più quell’uomo di forte divario di età del romanzo, in modo non soltanto da rendere certamente più appetibile il prodotto alle grandi masse, ma anche nel segno di mettere in secondo piano tale bagaglio tematico da Alcott. D’altronde è indicativo che la stessa unione di Jo fosse una conclusione narrativa forzata per Alcott (la quale non si è mai sposata), per rispondere al suo pubblico e alle esigenze editoriali e di opinione del tempo, dovendo calibrare tra istanze coraggiose e l’esigenza, di per sé, di vendere.

Gerwig proprio in questo articola una parte metatestuale: il film infatti inizia con l’incontro di Jo e di un potenziale editore per i suoi racconti, con l’esigenza di fruttar denaro, aiutare la propria famiglia, e finirà proprio nella decisione a tavolino con il suo editore di dare un matrimonio persino alla più ribelle Jo, per patteggiare e ricavarne sostentamento, ma senza rinunciare alla propria integrità artistica. Gerwig scoperchia la riluttanza per Alcott a far sposare Jo e probabilmente la stessa riluttanza del personaggio. La costruzione del finale romantico alternata proprio alla discussione in sede editrice è significativa, per un personaggio maschile d’altonde di apparizione ben meno frequente di tutti gli altri: è un passaggio concesso al pubblico, ma minato al suo interno, reso dichiaramente una convenzione narrativa che rompe la quarta parete. Era convenzione narrativa, infatti, che una donna in un’opera narrativa dovesse entro la fine sposarsi o in alternativa morire. L’esistenza della donna nell’opera letterararia, ad appannaggio per secoli e secoli della penna maschile, è stata proprio di cancellazione di sé, come spiegano approfonditamente Sandra Gilber e Susan Gubar nel saggio The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination.

Foto: nytimes.com

Diventare Christine, diventare Jo

E ancora: possedere sé stessi, contare su sé stessi. Appropriarsi della propria identità femminile scrivendo e scrivendo con voce di donna. E se il denaro chiama, almeno svincolare, che sia pure attraverso il sotterfugio della finzionalità dichiarata, dal conformismo del tempo. Lady Bird questo lo sentiva, in maniera anche caricaturale, scriteriata, e così anche Jo ha tante potenzialità dentro di sé, ma deve saperle calibrare anche nel proprio talento di scrittrice e trovare un’espressione più veritiera, meno figlia di sensazionalismi sanguinosi e più della vita a lei circostante, che conosce di prima mano. Un bisogno da cui nasce lo stesso romanzo Piccole donne. Infatti il titolo rispecchia il racconto del percorso vitale di esseri umani apparentemente dimessi rispetto alle grandi imprese di eroi della vetrina patriarcale del tempo (ricordando d’altronde il contesto della guerra di secessione), ma che trovavano la via per condursi nell’ambiente domestico e negli spazi d’azione dei comuni civili. Se l’infanzia di Jo è il racconto un po’ magniloquente e avventuroso di cavalieri, soldati e ambientazioni grandeggianti di derivazione shakesperiana (cantore proprio degli ambienti di potere), la sua età adulta è la consegna di un manoscritto semi-autobiografico, dunque sulla vita di donne, innanzitutto, e non regine né dame, ma ragazzine di estrazione povera; a partire dal legame sentito con le sorelle e dall’ammonimento ad un’arte più autentica.

Quel ricordo da cui si costituisce il film è il motore creativo della stessa Jo, nel momento più drammatico di consapevolezza che il perfetto focolare familiare così come conosciuto nell’infanzia è passato. Una storia scritta per la sorella Beth, significativamente. Così l’autorialità attuale di Gerwig, come di Jo/Alcott, è proprio un compromesso tra una voce personale e un racconto appetibile per i più, in quell’incontro tra autorialità e denaro, vincolo imprescendibile specialmente nell’arte collaborativa e industriale del cinema. E così Gerwig era nata da un contesto di scarso privilegio economico, come Christine, ed era emersa in ala indie proprio nel racconto scanzonato della propria generazione e delle proprie imperfezioni. La sua Christina cominciava con l’imitazione altrui, dando troppo valore alla ricchezza o ai privilegi materiali, per poi tornare alla scrittura, e raccontando proprio di sé, fuori da aloni mitici. E l’appropriazione di sé è lo smettere il “soprannome” adolescenziale Lady Bird per darsi nome e cognome, come Jo in Piccole donne rinuncia all’anonimato di un testo ancora fanciullesco per poi firmarsi anch’ella con nome e cognome nel finale e maturo manoscritto su di lei e le sorelle. Davvero Piccole donne è il percorso per diventare sé stessi.

In questo senso è interessante notare che la consapevolezza che la via conformista fosse la peggiore per la realizzazione di sé era sentita da tutto l’ambiente trascendentalista entro cui è cresciuta intellettualmente Louisa May Alcott. Trascendentalisti, quali il padre Alcott o il più noto Emerson, credevano che proprio il duro lavoro avrebbe permesso anche un percorso spirituale di scoperta di sé, di affrancamento dai vizi e difetti umani quali egoismo, avidità, invidia, per scoprire la parte più pura, buona e naturale dell’essere umano. Gli uomini sono al loro meglio, anzi, ritrovano la purezza della propria individualità proprio quando indipendenti e confidanti nelle proprie risorse, quando operanti, immersi nel lavoro (la stessa Alcott a quanto pare aveva un certo carattere stakanovista). Alcott era conscia di tensioni idealistiche tra i genitori e gli altri “parenti intellettuali” del trascendentalismo, cercando di coniugarla con la propria esperienza. L’esigenza era cercare un’indipendenza spirituale attuabile, considerando già il margine d’azione più ristretto delle donne, una via di realizzazione pratica di alcune istanze trascendentaliste con cui si trovava d’accordo. Quel crocevia, ancora, tra idealismo e le correlate possibilità pratiche, specialmente in un mondo dove realizzarsi come donne era decisamente più difficile che per gli uomini. In questo Piccole donne dimostra senza dubbio la sua attualità.

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