Traduzioni poetiche: tirare le somme

Siamo in Italia, è il ’46, neanche vale la pena ricordare le difficoltà dei tempi. Senza dilungarsi più di tanto, a un certo momento Cesare Pavese tira le somme degli ultimi anni, specie per quanto riguarda il suo lavoro di redattore in Einaudi. E non solo il suo, a dirla tutta: al suo fianco anche Cecchi e Vittorini. Il decennio precedente, dagli anni ’30 agli anni ’40, è definitivamente considerato come il decennio delle traduzioni. Forsennato il lavoro sui testi che alcuni intellettuali svolgono sulla letteratura, americana prevalentemente. Questo è stato il preciso momento in cui l’Italia si è aperta alle traduzioni, in cui i traduttori hanno eliminato ogni distanza geografica e semantica.

Da un lato, quindi, contribuiscono alla creazione di una cultura un po’ più democratica, di un sapere più accessibile.  D’altro canto la lettura di testi tradotti, per dirla banalmente, ha sempre rappresentato un problema. Senza considerare le varie teorie linguistiche del caso, arriviamo direttamente al punto in cui Chomsky dichiara la traduzione impossibile, poiché impossibile è riproporre esattamente il significato di una parola in un’altra lingua.

Ancora più ostica è diventata poi la situazione quando poi qualcuno si è accorto che restringendo il campo ai testi poetici, i meccanismi da analizzare sono diversi da quelli della prosa. Da un lato, infatti, c’è il dominio della prosa. Si costruiscono significati, si mandano messaggi precisi. La poesia, invece, costruisce immagini a tinte tanto forti che Sartre la affianca alle arti narrative. Insomma, c’è questo intoppo dell’inscindibilità tra forma e contenuto, questo fatto che il senso ha radici in questo binomio, che alla fine complica non poco la questione. Ma si procederà con calma.

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Traduzioni?

In primo luogo, cosa si intende per traduzione? Si prendano a prestito le parole di Claude Esteban:

La traduzione consiste a produrre nella lingua d’arrivo l’equivalente naturale più vicino al messaggio nella lingua di partenza, sia sotto il profilo del significato che sotto quello dello stile.

Ancora Chomsky avverte che il senso di ogni nostra frase giace da principio nella nostra psiche profonda. A questo livello, tutte le frasi possiedono una medesima struttura, o nessuna. Il problema si manifesta quando bisogna trasferire il senso in un messaggio. L’informazione e la maniera in cui viene espressa rimangono divise da una distanza che determina una polarità perenne tra il piano dello stile e quello del contenuto. In questo senso l’unica traduzione possibile sembra essere però quella del contenuto, a cui la forma dell’espressione si assoggetta. Se qualcuno ricorda la divisione fatta da Eco tra testi aperti e testi chiusi, diremo insomma che solo la traduzione di testi chiusi pare in qualche modo possibile. Questo è il primo punto di partenza per capire dov’è un punto in cui le traduzioni, con la poesia, falliscono.

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Opacità

Non è nata da molto la filosofia della poesia. In Italia, ad esempio, non è arrivata affatto, se non come eco di filosofi stranieri. Tra questi, nel 2015, Gibson ha deciso di scrivere The philosophy of Poetry, per tirare le somme anche lui. A un certo momento, superati introduzione e primo capitolo, si arriva al punto in cui si definiscono i caratteri della poesia. Chiaramente, si badi, nessuna delle caratteristiche prese in considerazione è peculiare ed esclusiva del testo poetico. Tuttavia, è nel testo poetico che questi aspetti funzionano sinergicamente.

Il primo carattere individuato è la difficoltà nella lettura. La densità semantica del testo poetico quasi mai permette una comprensione totale del significato al primo approccio. Le altre due sono l’opacità epistemologica e l’opacità estetica. L’opacità epistemologica è quella caratteristica per cui, sostituendo un termine a un altro, avviene inevitabilmente una perdita di significato. Quella estetica, invece, guarda all’alterazione non solo del significato, ma del contenuto insieme artistico e semantico cui la poesia incorre in caso di modifiche e sostituzioni. Prendendo a prestito le parole dello stesso Gibson, possiamo dire che
«changing a line in a poem is a bit like changin a line in a picture». Siamo ritornati, in pratica, a quando Sartre aveva  assegnato la poesia al dominio delle arti figurative.

Traduzioni impure, ostacoli invalicabili

Sarà a buon diritto, quindi, che lo studioso Etkin, cercando di classificare le possibili traduzioni poetiche, ne crea addirittura sei classi. Si parla nello specifico di traduzione/informazione; traduzione/allusione; traduzione/interpretazione; traduzione/approssimazione; traduzione/imitazione; traduzione/ricreazione. Si badi che l’impurità o la parzialità di ognuna di queste possibili traduzioni è ben evidente e si accusa da sé nel far richiesta di un altro sostantivo che ne specifichi la natura.

Senza giocare una carta facile, ci azzardiamo a prendere in esame due versi delle Ariette Dimenticate di Verlaine

Il pleure dans mon couer
Comme il pleut sur la ville.

Questa è la precisa esemplificazione di quello di cui si è parlato fino ad ora. Il verbo piangere è costruito come il verbo piovere, che in francese è impersonale. E così la sovrapposizione del pianto sul cuore come la pioggia sulla città è perfetta – l’immagina si è manifestata e rintanata in quella psiche profonda in cui giacciono i significati prima di farsi messaggi. La potenza di soli due versi trova le proprie ragioni non solo in una densità semantica, ma anche fonica, sintattica, lessicale, impossibile a riprodursi.

Che ne concludiamo? Che due sono le possibili traduzioni di un testo poetico, se vogliamo restringere il campo. Una orientata al testo, che cerca di avvicinarlo più che può; l’altra orientata al destinatario in modo da comunicargli nel migliore dei modi il senso del componimento adattandolo ad una nuova lingua e a un’altra cultura nazionale. Ma non sembra che sia possibile una traduzione che contempli tanto la riproduzione stilistica quanto il mantenimento e il veicolo del messaggio.  Ahinoi!

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