Per una vecchia abitudine, è uso raccontare nuovamente alcuni personaggi, che sia in concomitanza con la loro morte o molti anni dopo la loro dipartita. È stato fatto di recente con Giampaolo Pansa, giornalista controverso per il suo revisionismo storico, e ancora con Bettino Craxi. Complice l’uscita del film Hammamet, di Gianni Amelio e con Pierfrancesco Favino a vestire i panni dell’anziano e rancoroso leader socialista, le voci di chi ha sempre visto in Craxi la figura di un martire hanno ricominciato a fare rumore.
Ripristinare l’accuratezza storica richiede un lavoro d’indagine puntuale che ci spieghi chi fosse Craxi, e soprattutto cosa fosse il craxismo. Consci dell’antica disputa tra garantisti e giustizialisti, in quest’articolo sarà ripercorsa la sua vita, le sue vicende giudiziarie e sarà analizzata la veridicità dei meriti politici che gli sono attribuiti, i quali contribuirono all’eterno elogio del suo fascino autoritario.
1978, Craxi mostra il nuovo simbolo del PSI, cui fu aggiunto il garofano rosso. Foto: Wikipedia.
Benedetto Craxi nasce a Milano il 24 febbraio 1934, figlio di un avvocato milanese, Vittorio, antifascista e perseguitato politico. Subito dopo la guerra, Bettino s’interessò all’attività politica del padre, di cui curava la propaganda. Il padre, nel frattempo divenuto prefetto di Como, si presentò alle elezioni politiche del 1948 nelle liste del Fronte Democratico Popolare, una commistione di comunisti e socialisti. Sulle orme del padre, a diciassette anni s’iscrisse al PSI e all’università fondò lui stesso un nucleo universitario socialista.
Dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, dove ebbe anche la possibilità di soggiornare e toccare con mano la repressione comunista, s’impegnò in prima linea per la fine del patto d’azione stipulato tra socialisti e comunisti. Proprio per questo, nel 1957, al congresso del PSI di Venezia, Craxi fu eletto nel comitato centrale tra le fila della corrente “autonomista” facente capo a Pietro Nenni, il primo ad abbandonare ogni idea di alleanza nazionale con il PCI. Di lì, la strada fu in discesa. Nel 1960 diventò consigliere comunale di Milano, nel 1963 segretario della Segreteria provinciale milanese del PSI e nel 1966 membro della Direzione nazionale.
A soli trentadue anni, Bettino Craxi era una delle personalità politiche di rilievo nella provincia di Milano, un fattore che contribuì alla sua elezione alla Camera dei Deputati, avvenuta nel 1968. Quando divenne Vicesegretario del PSI nel 1970, le idee di Bettino e la sua linea politica erano ormai solidificate: egli era anticomunista e libertario. In virtù della sua presenza all’Internazionale Socialista come rappresentante italiano, ebbe la possibilità di stringere i primi rapporti con i vari partiti e movimenti socialisti che si battevano contro i regimi autoritari in Spagna, in Cile e in Grecia.
Purtroppo il successo elettorale nel partito socialista rimaneva esiguo e alle elezioni del 1972 non superò il 9% del gradimento. Di fronte alle sfide di un mondo sempre più globalizzato, in costante polarizzazione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, era necessario un cambio di rotta. Nel marzo del 1976, a Roma, precisamente all’Hotel Midas, si svolse il quarantesimo Congresso del Partito Socialista Italiano. La linea di Francesco De Martino, docente universitario napoletano proveniente dal Partito d’Azione, uscirà vincitore da quel congresso, con il 42,7% dei consensi. De Martino vedeva nell’alleanza di governo con il Partito Comunista una possibilità di risollevare le sorti del PSI.
Pochi mesi dopo, alle elezioni politiche, il PCI raggiunse il 34,37% dei consensi, mentre la Democrazia Cristiana e il PSI persero voti. Ciò decretò la fine prematura della reggenza di De Martino, che rassegnò le dimissioni. Il Comitato centrale del partito decise quindi di nominare un successore temporaneo, in attesa della nomina del nuovo segretario, proponendo un candidato diverso dai capi-corrente. Bettino Craxi fu eletto segretario con ventitré voti favorevoli, otto astenuti e nessun contrario. In molti credevano che la nomina mettesse tutti d’accordo poiché Craxi non contava nulla, e che per questo sarebbe stato facilmente manipolabile.
Invece Craxi cominciò subito a circondarsi di collaboratori fidati, tra cui alcuni intellettuali di prestigio, iniziando un costante dialogo con le altre correnti. Fu l’inizio di una gestione centralistica del partito che non gli risparmiò feroci critiche, che non fecero però altro che rivitalizzarlo, fino alla sua elezione a segretario del PSI nel 1978. Il suo obiettivo era costruire un’alternativa al bipartitismo imperfetto DC-PCI, svuotare di consensi il Partito Comunista e divenire la forza egemonica della sinistra italiana.
Un’impresa impossibile: da un lato la DC era saldamente ancorata alle istituzioni e godeva del consenso della destra cattolica, dall’altra il PCI era radicato nel territorio e sfruttava solidi punti di riferimento, in primis le realtà industriali finanziate direttamente dall’Unione Sovietica. Durante le trattative per il rilascio di Aldo Moro, Craxi manifestò la sua contrarietà alla politica della fermezza, che il PCI e la DC avevano condiviso riguardo al sequestro del democristiano, dichiarando di voler trattare con le Brigate Rosse. Craxi cercò più volte, durante i suoi sedici anni da segretario socialista, di intaccare l’egemonia democristiana dentro e fuori dalle istituzioni, senza mai riuscirci.
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Nel 1983, dopo la crisi del Governo Fanfani, si svolsero le prime elezioni che videro la DC in caduta libera, di quasi cinque punti percentuali. Con il Partito Comunista al 29% e il PSI all’11,4%, Ciriaco De Mita, segretario nazionale della DC, lasciò il campo a Bettino Craxi per evitare un accordo di governo tra PCI e PSI; Craxi divenne quindi Presidente del Consiglio. Formò un governo con tutti i partiti tradizionalmente facenti parte del centro-sinistra (la DC, il PSI, il PSDI, il PRI e il PLI), in una maggioranza che fu denominata Pentapartito.
Un Presidente del Consiglio socialista dopo trentacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e altrettanti di centralità democristiana furono il punto più alto del successo politico dei socialisti in Italia: tale successo fu tutto da imputare a Craxi. Nei quattro anni della sua presidenza del Consiglio (1983-1987) Craxi vide avvicendarsi vittorie e sconfitte. Dopo che cadde il consenso al governo guidato dal segretario socialista si avvicendarono a Palazzo Chigi ben cinque governi a guida democristiana, in cui la maggioranza del Pentapartito perdurò ma si rivelò fragile.
Fragile come il sistema politico e sociale italiano che fu sconquassato dalla vicenda Mani Pulite (1992), che portò all’incriminazione nei confronti di Bettino Craxi. Lui, invece di accettare la decisione della giustizia italiana che considerava “politicizzata”, si rifugiò, da latitante, nella sua villa tunisina a Hammamet. Da lì continuerà a partecipare alla vita politica italiana, incapace di sentirsi tagliato fuori, con articoli a firma Edmond Dantes (come il Conte di Montecristo dell’omonimo romanzo di Dumas) che inviava al giornale L’Avanti!, o con note via fax ai principali quotidiani italiani, il più delle volte mai pubblicate.
Con quelle inchieste, con i processi che ne seguirono e con le sentenze che a essi posero fine, i magistrati milanesi riaffermarono il primato della legge e tentarono di porre un freno al sistema dell’illegalità diffusa e di sostanziale impunità per molti reati legati al finanziamento dei partiti politici. Denaro in cambio di favori: questa era da molti anni una pratica diffusa in Italia già prima di Tangentopoli, una ferita endemica del sistema. Secondo uno studio dell’economista Mario Deaglio il sistema delle tangenti, al tempo, gravò sui cittadini italiani per diecimila miliardi di lire l’anno: in media la realizzazione delle opere pubbliche costava circa quattro volte di più che negli altri Paesi europei.
Alla sua morte, il 19 gennaio 2000, Bettino Craxi aveva collezionato due condanne definitive per un totale di dieci anni di reclusione: cinque anni e sei mesi per corruzione nell’ambito dell’inchiesta Eni-Sai e quattro anni e sei mesi per finanziamento illecito della metropolitana milanese.
In più, egli ricevette altre condanne provvisorie, per un ammontare di circa quindici anni, molte delle quali estinte per decesso dell’imputato: tre anni per l’inchiesta della maxitangente Enimont (finanziamento illecito); cinque anni e cinque mesi per le tangenti Enel (corruzione); cinque anni e nove mesi per l’inchiesta sul Conto Protezione (bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano); una condanna in primo grado, cui era sopraggiunta la prescrizione, nell’ambito dell’inchiesta sul finanziamento con fondi occulti da parte della società All Iberian di Silvio Berlusconi al PSI. Non solo: due procedimenti finirono con l’assoluzione e altri riguardarono misure di custodia cautelare, ma la sopraggiunta morte di Craxi non permise una chiara definizione del procedimento.
Nella caccia ai tesori di Craxi sparsi per il mondo, il pool di Mani Pulite accertò introiti per almeno 150 miliardi di lire, pilotati grazie a dei prestanome: uno su tutti, Maurizio Raggio, ristoratore proprietario del locale Gritta di Portofino. Piercamillo Davigo, giudice del pool milanese, indagò a fondo sulla relazione tra i due, e in particolare sugli spostamenti di Craxi, che passò dalla Francia per poi far perdere le proprie tracce e fu ritrovato, solo in seguito, in Tunisia. Secondo Davigo, egli raggiunse il Messico, dove si sarebbe recato per recuperare del denaro ricavato dalle tangenti.
Il ruolo di Raggi nella gestione dei fondi messicani è chiaro: quello curato dall’imprenditore era uno dei molti conti riconducibili al PSI, aperti all’estero per finanziare movimenti di ispirazione socialista minoritari. Altro esempio è il racconto che fece ai giudici Mauro Gianlombardo, segretario di Craxi, a proposito di un conto corrente aperto in Lussemburgo con una giacenza, nel 1993, di 17 miliardi di lire: da quel conto poteva attingere direttamente Zubari al Khatteb, tesoriere di Arafat, leader dell’OLP.
Bettino Craxi, secondo i giudici, era l’unico responsabile dell’apertura dei conti esteri, nonché unico amministratore del denaro che ne confluiva. Il partito, si legge nella sentenza All Iberian, non aveva alcun accesso al denaro. Nel 1999 i difensori di Craxi ricorsero davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel tentativo di cancellare la sentenza del processo per il finanziamento illecito della metropolitana milanese. La risposta che seguirà dai giudici di Strasburgo, il 31 ottobre 2001, fu che l’iter dibattimentale seguì i canoni del giusto processo e che il ricorrente fu condannato per corruzione, non per le sue idee politiche.
Oggi la figura di Craxi è rivalutata anche in virtù dell’ideologia liberista di cui è impregnata la nostra struttura sociale ed economica. Anche i suoi più grandi detrattori omettono spesso di ricordare come lo stimolo innovatore del craxismo, oltre a rappresentare la comparsa sulla scena del primo progetto presidenzialistico della politica italiana, fu l’attacco alle garanzie dei diritti sociali a totale vantaggio del mercato dei capitali.
Già l’esecutivo precedente a quello in cui Craxi ricoprì il ruolo di Presidente del Consiglio aveva abbattuto il numero delle aliquote fiscali, da trentadue a soltanto nove, comprimendo il principio costituzionale della progressività fiscale. Craxi stesso, nel 1986, apportò nuove modifiche all’Irpef, comportando un enorme sconto a tutti i redditi elevati.
Parallelamente a questo, Craxi fu famoso per il decreto sul taglio di tre punti della scala mobile, il meccanismo automatico d’indicizzazione dei salari all’inflazione. Agli industriali italiani non interessava tanto combattere l’inflazione quanto recuperare sul costo del lavoro. Per questo, di fronte alle proteste del PCI e della CGIL nei confronti del decreto (evento che portò alla rottura sindacale), Craxi s’impose come unico interlocutore di Confindustria, che si dichiarò a favore del progetto di riforma. L’inflazione, in effetti, negli anni successivi scese, ma è importante notare come questa fosse già in calo negli anni precedenti, dal 21,2% del 1980 al 10,8% del 1984, dimostrando la sua sconnessione dal costo del lavoro. Essa era derivante piuttosto da uno shock esogeno, come ebbe a dimostrare l’economista Augusto Graziani.
Per quanto riguarda il debito pubblico italiano, dal 1981 al 1987 esso ebbe un’impennata, crescendo di oltre trenta punti percentuali. Una spirale che molti tendono a far coincidere con un eccesso di spesa laddove, al netto degli interessi sul debito, la spesa pubblica italiana non era cresciuta di molto negli anni Ottanta. È innegabile che il sistema di corruttela generalizzata abbia creato un immorale e improduttivo sperpero di denaro pubblico, ma non è da individuare in questo la ragione della crescita del debito. Il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro e l’orientamento restrittivo della politica monetaria, nell’atto di mantenersi entro i vincoli di cambio fissati dal Sistema monetario europeo (SME), sono i principali colpevoli del boom del debito pubblico.
La Banca d’Italia rappresentava il prestatore di ultima istanza dei titoli di stato che il Tesoro produceva, a un basso tasso d’interesse, chiudendo così la strada a ogni possibile speculazione finanziaria. La separazione delle due istituzioni portò a un aumento dei tassi d’interesse sui titoli, non esistendo più il paracadute della Banca d’Italia sull’invenduto. La crescita del debito è stata determinata, per circa il 70%, dai maggiori oneri per interessi, sui quali hanno pesato le politiche restrittive dello SME. La completa liberalizzazione dei movimenti di capitale richiesti dall’unione monetaria è stata uno dei capisaldi della politica economica di Craxi, considerato un modernizzatore in tal senso: il primo liberista a Palazzo Chigi. Craxi stesso, nella seconda metà degli anni Novanta, si pronuncerà per una rinegoziazione dei parametri di Maastricht. Parametri che lui stesso aveva contribuito a fondare.
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