Il criterio utilizzato a livello internazionale per determinare il numero di omicidi all’interno di ogni singolo Paese è il cosiddetto tasso di omicidi e prevede, nel dettaglio, il numero di omicidi commessi ogni centomila abitanti. Tale tasso, in Italia, è in netto calo passando dal 3,5% di inizio anni Novanta fino ad attestarsi, negli ultimi anni, intorno allo 0,5%. Nonostante l’incoraggiante dato di fatto, però, nel 2019 si sono consumati 276 omicidi di cui la maggior parte fra le mura domestiche. Alcuni di questi passano relativamente in sordina, come fugaci notizie accennate al telegiornale; altri, invece, godono di una maggior attenzione da parte dei mass media e ciò a causa della particolare situazione delle vittime o dalla particolare efferatezza dello stesso delitto. Il caso di Marco Vannini, avvenuto nel maggio del 2015, si è consumato appunto all’interno di un ambiente che lo stesso poteva considerare familiare ma è salito agli onori di cronaca non per la particolare violenza del delitto bensì per le modalità, del tutto particolari, che hanno portato alla morte del giovane. A causa del susseguirsi degli eventi vi è stato un ritardo nell’intervento dei soccorsi che ha portato, così, alle note conseguenze. Detta vicenda, e in particolare il recente intervento della Corte di Cassazione, hanno spinto nuovamente la giurisprudenza a interrogarsi sulla sottile linea di confine fra il dolo, nella forma del dolo eventuale, e la colpa cosciente. Una simile distinzione, come si vedrà a seguito, è fondamentale nella distinzione fra omicidio colposo e omicidio volontario, oggetto appunto della pronuncia del Supremo consesso.
Come anticipato, il particolare fatto di cronaca in oggetto è quello dell’omicidio di Marco Vannini che ha visto coinvolta l’intera famiglia Ciontoli. Il giovane, infatti, la sera dell’evento era ospite a casa della fidanzata Martina Ciontoli e la prima telefonata di intervento al 118, partita dall’abitazione ben dopo venti minuti dall’evento, parlava semplicemente di una caduta accidentale in bagno. Gli stessi familiari della fidanzata, in seguito, contattavano nuovamente il servizio di emergenza al fine di annullare l’invio dell’ambulanza essendosi risolta, a detta loro, l’emergenza. Decorsi ulteriori cinquantuno minuti veniva effettuata una seconda telefonata, questa volta con una diversa ricostruzione dei fatti che parlava di una ferita o, meglio “un buchino” procurato da un pettine a punta e di un seguente attacco di panico del giovane. Tale fantasiosa ricostruzione, ovviamente, non corrisponde alla verità. La verità è che alle 23 di sera del 17 maggio 2015 partiva un colpo di pistola, una Beretta di proprietà di Antonio Ciontoli, padre della fidanzata di Marco, in direzione di Marco Vannini stesso. Nelle tre ore di agonia, dovute al ritardo nei soccorsi, la pallottola che aveva trafitto la spalla ha raggiunto il cuore del giovane, uccidendolo. Solo all’arrivo del personale sanitario è stata rivelata la reale natura della ferita, corredata però dalla richiesta di non divulgare la notizia per non compromettere la posizione lavorativa di Antonio Ciontoli, all’epoca sottufficiale della Marina Militare. Un intervento tempestivo, come emergerà in corso di causa, avrebbe sicuramente salvato il ragazzo. Al momento del delitto, in quella casa, oltre alla vittima e alla fidanzata Martina erano presenti i genitori di lei, Antonio Ciontoli e la moglie Marina Conte, e l’altro figlio della coppia, Federico, con la fidanzata Viola Giorgini. Il processo, in primo grado, culmina con la condanna per omicidio volontario e quindici anni di reclusione per Antonio Ciontoli che, per sua stessa ammissione, avrebbe esploso il colpo di pistola mentre la puntava “per scherzo” al genero che stava facendo la doccia. Si aggiunge una condanna più lieve di tre anni, per omicidio colposo, per gli altri familiari e l’assoluzione di Viola Giorgini. Nel processo d’appello le pene nei confronti dei familiari rimangono invariate, tuttavia l’imputazione per il capofamiglia viene derubricata da omicidio volontario a colposo e, conseguentemente, la pena di Antonio Ciontoli viene ridotta a cinque anni. Un simile risultato, come prevedibile, ha scatenato le reazioni di protesta di familiari e amici di Marco, oltre che della maggior parte dell’opinione pubblica, ormai coinvolta nel caso data la risonanza dello stesso e, in particolare, della diffusione delle registrazioni delle chiamate al 118.
Occorre premettere, per meglio comprendere l’evolversi della vicenda giudiziale nonché la determinazione delle pene, la differenza che intercorre fra l’omicidio volontario, previsto dall’articolo 575 del codice penale, e l’omicidio colposo, punito invece dall’articolo 589 dello stesso. Mentre l’omicidio volontario sanziona chiunque cagioni la morte di un uomo con la reclusione non inferiore ai ventuno anni, l’omicidio colposo prevede la reclusione da sei mesi a cinque anni per chiunque la cagioni per colpa. Oltre al differente regime sanzionatorio appare evidente che il bene giuridico tutelato sia identico per entrambe le fattispecie, così com’è identico l’evento lesivo. La vita umana, in questa norma, vede la sua più ampia fonte di tutela essendo l’omicidio, di fatto, il delitto con il più aspro regime sanzionatorio del nostro ordinamento. La differenza fra le due norme deve ricercarsi, allora, nel differente elemento soggetto in capo all’agente.
L’elemento soggettivo costituisce, insieme all’elemento oggettivo, alla condotta e al nesso psichico, uno degli elementi essenziali del reato o, che dir si voglia, uno degli elementi la cui assenza rende il soggetto non punibile. In particolare, nell’ordinamento italiano, parlando di elemento soggettivo si usa distinguere fra dolo, colpa e preterintenzione. Al di la di quest’ultima, la cui natura è tutt’ora discussa e che trova applicazione unicamente in riferimento all’omicidio preterintenzionale e all’aborto preterintenzionale, il dolo e la colpa sono riconducibili alla volontà del soggetto attivo. Il dolo, elemento tipico dell’omicidio volontario, si verifica quando l’autore del reato agisce con volizione ed è cosciente delle conseguenze delle proprie azioni o omissioni. La colpa, invece, si identifica quando l’autore, seppur agendo con volontà, non ha preso coscienza delle conseguenze eppure l’evento si verifica proprio per una negligenza, imprudenza o imperizia di quest’ultimo o, ancora, per una sua violazione di una norma o di un regolamento. Entrambe le ipotesi sono connotate da diverse graduazioni, o meglio il dolo viene misurato per intensità e va dal dolo premeditato (la forma più grave) al dolo eventuale mentre la colpa viene graduata da colpa incosciente (la più lieve) fino alla più grave colpa cosciente. Tralasciando, in questa sede, le singole e svariate ipotesi individuate da giurisprudenza e dottrina si rende necessario soffermarsi su quelle che sono le due di confine: colpa cosciente e dolo eventuale.
Mentre il dolo eventuale è ravvisabile quando l’agente ha previsto la possibilità del verificarsi dell’evento e ha accettato il rischio che questo si realizzasse, la colpa cosciente sussiste quando l’autore ha sì previsto il verificarsi dell’evento, ma agisce nella convinzione che questo non si realizzi. Il discrimine, così come individuato nella teoria, appare chiaro; tuttavia nella pratica, date le necessarie valutazioni degli intenti del soggetto, risulta particolarmente ostico. Dottrina e giurisprudenza, infatti, si sono dilungate in differenti valutazioni e interpretazioni, fino all’importante sentenza Thyssenkrupp. In tale occasione, infatti, viene dato un ruolo centrale, nella distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, alla cosiddetta prima formula di Frank. In forza di tale formula, dunque, perché si concretizzi il dolo eventuale è richiesto un quid che la colpa non può avere a livello di intenzione. Deve ritenersi, allora, sussistere il dolo eventuale se si può affermare che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta tenuta neppure se avesse avuto certezza della sicura verificazione dell’evento.
Tanto appurato, appare chiaro come l’intera vicenda processuale sia caratterizzata, in realtà, da una problematica principalmente tecnico-giuridica avendo ad oggetto, in concreto, la configurabilità del dolo eventuale ovvero della colpa cosciente. La Corte di Cassazione è intervenuta in maniera del tutto opposta rispetto alla precedente pronuncia d’appello ritenendo, invece, necessario procedere a un nuovo processo e annullando così la sentenza e rinviando il procedimento, questa volta, per omicidio volontario. La Corte d’Assise d’Appello infatti aveva ricondotto il fatto all’ipotesi di omicidio colposo principalmente per due ragioni: la prima, ritenendo il colpo di pistola partito in maniera del tutto accidentale, la seconda, sconfessando la cosiddetta formula di Frank ritenendola obsoleta e, comunque, estranea ai principi generali del diritto. La Cassazione, intervenuta sul punto, ha invece ribadito la centralità di tale formula in riferimento alla dimostrazione del confronto dell’agente con l’avverarsi dello specifico evento. La formula di Frank, dunque, si affianca agli altri indicatori rappresentati dalla lontananza della condotta tenuta con quella dell’agente modello, le pregresse esperienze dell’agente, il comportamento successivo al fatto, la durata dell’azione, la probabilità del verificarsi dell’evento, le conseguenze negative per il soggetto agente, il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione.
Sulla base di tali osservazioni la Corte di Cassazione ha appunto disposto un processo bis nei confronti dell’intera famiglia Ciontoli e, questa volta, per omicidio volontario perpetrato con dolo eventuale. Da un lato, infatti, può essere vero che la morte sia stata causata da un colpo di pistola esploso per errore; dall’altro è altresì innegabile che il ritardo nei soccorsi sia stato un elemento altrettanto decisivo. Ritardo, questo, che sulla base di quanto emerso è ascrivibile unicamente alla condotta reticente degli imputati caratterizzata da continue bugie e depistaggi.
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