Definire quello che Kobe Bryant è stato per la NBA, i tifosi e il gioco del basket è un qualcosa di complesso e suscettibile di troppe variabili; nell’operazione rientrano il gusto personale, l’ideale di gioco cui il lettore tende e l’inevitabile giudizio sul giocatore dentro e fuori dal campo. Tuttavia è tranquillamente possibile affermare, senza timore di smentita, che Kobe Bryant sia stato un’icona, se non l’icona per eccellenza, della NBA nel periodo precedente all’avvento di LeBron James e immediatamente successivo all’era di Michael Jordan; mantenendosi sempre nei piani alti della classifica dei giocatori più forti del suo tempo (e probabilmente di tutti i tempi).
La retorica attorno a Kobe è sempre stata tesa verso l’ideale superomistico di un giocatore in grado di plasmare la natura e il corso degli eventi solo grazie alla sua smisurata forza di volontà. Cosa che entro certi termini si può tranquillamente condividere: si può dire, per certi versi, che nessun giocatore come Bryant ha saputo trasmettere il senso dell’abnegazione e della devozione verso la pallacanestro in un contesto professionistico, oltre che un’ossessione verso il miglioramento personale e la vittoria. Ogni tifoso ha il suo “momento Kobe” preferito e non sta a chi scrive fare una cernita su quale di essi descriva meglio il trascorso cestistico del giocatore. In un certo senso, ogni singola azione terrena di Bryant sul parquet è servita a definirlo ed è servita a lui a definire sé stesso, in positivo e negativo.
Figlio di un giocatore NBA, Joe Bryant, divenuto giramondo alla fine della sua carriera nella massima lega statunitense, il percorso di formazione di Kobe Bryant è stato molto più poliedrico e variegato rispetto a quello dei suoi coetanei. L’infanzia e la prima adolescenza vissute prevalentemente in Italia gli hanno permesso di entrare in contatto con una visione della pallacanestro di matrice prevalentemente europea che poi, integrata una volta tornato negli Stati Uniti con quella americana, ha creato una base di partenza sostanzialmente anomala per l’epoca su cui poi l’etica del lavoro e l’ossessività sopracitate hanno fatto il resto. Viene draftato giovanissimo dai Los Angeles Lakers nel 1996 a soli 18 anni arrivando in una squadra ancora in formazione che sarebbe poi evoluta in una dinasty fra le più forti della storia della NBA, trovando l’amico/nemico della sua carriera in Shaquille O’Neal. Il periodo di adattamento non è semplice, come dimostra la sua prestazione nei minuti finali dei playoffs contro Utah nel 1997, momento sapientemente tralasciato dalla mistica successiva, ma è una finestra temporale che permette fin da subito di comprendere il desiderio di arrivare ai vertici da parte di un giocatore spettacolare e spettacoloso ma ancora acerbo. Il resto è storia, come si suol dire.
Il primo three-peat e i successivi litigi con Shaq e Phil Jackson, il ritorno di quest’ultimo e gli altri due titoli da leader assoluto della squadra, con Pau Gasol in versione Robin, e un finale di carriera malinconico, ma sempre ad altissimi livelli, hanno affrescato il percorso di un giocatore vincente e irripetibile anche in una lega variopinta e multietnica come la NBA; mentre le accuse di stupro e il non sempre facile rapporto con compagni e allenatori completano il chiaroscuro di una figura non facilmente catalogabile né apprezzabile in toto. E oltre ai titoli completano il quadro svariati premi individuali e prestazioni ai limiti del surreale entrate nella leggenda: gli 81 punti in una partita contro i Raptors, il terzo quarto nella serie finale contro i Celtics nel 2010 o la striscia consecutiva di 25 partite con più di 50 punti.
Tutto ciò porta alla domanda principale di questo articolo, figlio della terribile tragedia che ha portato via Kobe Bryant a soli 41 anni: quale è il giudizio complessivo sulla figura di Kobe Bryant? Come tutte le grandi personalità il giudizio non può essere univoco né tanto meno condivisibile da una maggioranza bulgara, tant’è vero che per ogni estimatore di Kobe era facilissimo trovare almeno tre detrattori pronti a imputargli una serie di difetti tecnici e non. Chi vi scrive appartiene pienamente alla seconda categoria.
Ma al momento della sua morte tutto questo è passato in secondo piano. Negli articoli di giornale non bisognerebbe mai scrivere di opinioni personali, l’obbiettività è e deve essere il confine entro cui ci muoviamo, tuttavia permettetemi una breve parentesi. Quando ho appreso della morte di Kobe, nonostante fossi stato uno dei suoi più fieri oppositori (nel mio piccolo) per il suo modo di giocare, ho sentito come se una parte di me fosse sparita del tutto e mi è stato difficile definire se la sensazione che mi ha avviluppato fosse tristezza o qualcos’altro; so solo che ho avvertito un profondo senso di perdita, un vuoto incolmabile. E proprio in questo sta la grandezza di Kobe e il suo lascito.
Perfettamente centrato su sé stesso e spinto da una risolutezza fuori dal comune, il Bryant giocatore ha sempre avuto chiaro i suoi obiettivi sportivi e li ha sempre seguiti seguendo un solco da cui non ha mai deviato di un millimetro. Questa coerenza adamantina e questa incrollabile fiducia nei propri mezzi nel portare avanti la propria idea di gioco nel corso della sua carriera ha portato l’ammiratore verso un’idolatria assoluta e un vero e proprio appagamento dei sensi nel vederlo giocare, mentre il detrattore ha sempre avuto una figura polarizzante cui rivolgere i suoi strali, creando de facto una sorta di nemesi cestistica. La morte di Kobe rappresenta quindi un tragico scherzo del destino che spezza la vita di un uomo che aveva appena iniziato ad affacciarsi a una fase più tranquilla della sua esistenza, libera e scevra da quelle ossessioni cestistiche che l’avevano permeata fino a quel punto, troncando anche quella che stava sbocciando nella figlia che era con lui su quell’elicottero.
E viene da pensare che forse i litigi, le incomprensioni e le forzature viste nel corso di questi anni non fossero altro che semplicemente il modo di stare al mondo di un uomo che aveva deciso fin dalla più tenera età come il basket dovesse essere vissuto per lui stesso, negandosi qualsiasi passo falso o qualsiasi sbavatura; sempre coerente a sé stesso e alla sua idea di sé. Ed è questa la più grossa perdita in tutta questa storia. Si è perso l’ultimo grande esempio di un uomo che plasmato sé stesso e il mondo attorno a sé con la sua sola forza di volontà e il suo modo di giocare e che in questo modo si è consegnato alla posterità. Perché quando Kobe Bryant giocava volente o nolente ti costringeva a parlare di lui, anche quando non c’entrava nulla, e a rispettarlo per quello che era e faceva sul parquet ogni sera; per il solo fatto di esserci. Quindi Kobe grazie di averci costretti, tutti.
La terra ti sia lieve.