La settima arte, fin dalla sua esistenza, ha tratto grande nutrimento dalla messa in scena di situazioni di crisi, dalle guerre su scala mondiale agli avvenimenti di cronaca più circoscritti. Il tema del contagio è tra i più frequenti, particolarmente nella cinematografia horror, ed è stato affrontato in maniera diversa a seconda delle epoche e dei paesi di produzione delle opere, permettendo ai registi di esprimere argomenti spesso di natura politica o sociale circa il mondo, narrandone una versione messa alle strette da malattie più o meno realistiche. È innegabile dunque come gran parte dei progetti che abbiamo all’interno storie di epidemie siano appartenenti al cinema dell’orrore, dal momento che veicolare una paura immaginaria attraverso un timore basato su elementi della realtà è il modo più efficace per arrivare al cuore dello spettatore.
Nel 1968 George A. Romero, con La notte dei morti viventi, rivoluziona la figura dello zombie, traslandolo da mito della cultura voodoo haitiana a mostruosità creata da virus e malattie, specchio e doppio dell’uomo e della società capitalista e consumista. Dieci anni prima, Richard Matheson aveva immaginato una deriva distopica in Io sono leggenda, romanzo che ha generato diversi adattamenti, attraverso le figure di vampiri non gotici ma epidemici. I due autori sono accomunati dalla visione di una società che, di fronte ad una situazione di crisi, non riesce a far fronte comune, bensì ne viene distrutta, complice la prevalsa dell’individualismo. Le riflessioni politiche attraverso il contagio degli zombie sarà portato avanti, oltre che da Romero stesso fino agli anni 2000, da illustri registi come John Carpenter e Joe Dante, mentre il filone dei non morti, esploso negli anni ’70/’80 e prolifico tuttora, perde parte della sua vena sociale in favore di una maggiore focalizzazione sulle storie e sull’effetto orrorifico puro: esempi di pellicole italiane sono Zombi 2 di Lucio Fulci e Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi, prodotti di forte qualità artigianale negli effetti speciali e nella messa in scena ma meno centrati sulla descrizione della società. Un doppio filo legava le correnti di “cinema zombie” di America e Italia, e se oltreoceano Romero era il punto di riferimento, nello stivale Dario Argento, maestro italiano del brivido, dialogava apertamente con il tema dell’epidemia; se nelle sue pellicole, maggiormente cariche di estetica e forma che di intenzionalità narrativa, non si tratta mai l’argomento, il contagio è invece molto presente nei lavori che il regista ha curato in qualità di produttore e distributore, come Dèmoni di Lamberto Bava, in cui l’infezione genera mutati diabolici e infernali, e Zombi (Dawn of the Dead), pellicola di Romero che ha ricevuto un montaggio diverso, e più apprezzato dai cinefili, in Europa a opera di Argento stesso.
L’infezione permette di raccontare, oltre ai problemi della contemporaneità, le paturnie psicofisiche dell’individuo; il sottogenere body-horror, legato alle modifiche, cambiamenti e involuzioni dell’aspetto e, dunque, della mente di un personaggio, ha fatto ampio utilizzo della malattia come veicolo di repulsione visiva, utilizzando effetti speciali tanto curati da non percepire il limite con l’aberrante. È il caso della cinematografia di David Cronenberg, che in pellicole come Il demone sotto la pelle e Brood – La covata malefica attraversa i mutamenti mefitici della carne per significare la putrefazione dell’anima. Un rapporto tra epidemia e soggetto singolo è molto presente anche nel cinema orientale, che vede in Shin’ya Tsukamoto un maestro della rappresentazione esplicitamente grafica dell’invasione di technovirus in un corpo umano, rendendo così la saga di Tetsuo un manifesto della sofferenza patologica. Il lavoro dei due registi, svolto principalmente tra gli anni ’80 e ’90, ha raggiunto ampio consenso di critica e nelle comunità cinefile, eppure la trattazione del tema si è recentemente riavvicinata agli standard romeriani, pur meno feroce nell’attacco al pensiero dominante: fenomeni come The Walking Dead, prima fumetto poi serie tv, hanno accostato riflessioni di partito per esaminare le reazioni di una massa, inizialmente normale e addomesticata dalla vita pacifica, a contatto con un’emergenza così impattante, come un’epidemia zombie. Si è arrivati a una tale sovraesposizione del genere che, ormai, molti film affrontano il tema con vena ironica e comica, vedasi La notte dei morti viventi, omaggio satirico al primo lavoro di Romero, e veri e propri baracconi del divertimento come Zombieland o I morti non muoiono.
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Non solo tramite non morti, alcuni registi hanno provato, con successi alterni, a riportare l’orrore del contagio al cinema: M. Night Shyamalan con E venne il giorno ha provato a mettere in scena un virus invisibile, trasportato dal vento e mortale per la sua insidiosità, seppur il risultato sia decisamente altalenante dal punto di vista qualitativo. Alfonso Cuaròn racconta un mondo dove la sterilità ha imbarbarito la civiltà in I figli degli uomini, mentre Steven Soderbergh con Contagion affronta il tema nella maniera più realistica, seppur peccando dell’inserimento di volti troppo noti che poco restituiscono l’atmosfera da dramma prossimo allo spettatore. In generale, l’approccio realistico rischia di rendere l’operazione di cattivo gusto, poiché, nonostante i passi avanti della tecnologia e della ricerca, gran parte della popolazione mondiale continua a essere vittima quotidiana di malanni estremamente pericolosi; il contagio, di tanto in tanto, ricorda alla società occidentale, ciclicamente, la propria mortalità, seppur in forme lievi e meno disastrose che nel resto del pianeta. La funzione della cinematografia dell’orrore è proprio quella di metterci a confronto con le nostre paure, ridicolizzandoci e ammonendoci per le crisi, il panico e l’isteria generati non per effettiva necessità ma per senso di protagonismo ed egocentrismo, dettati da paure infondate o ignoranza, in una narrazione delle vicende puramente popolare e deviata, a sua volta, dall’immaginario filmico.