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Spettacolo

Diamanti grezzi: lampi nel caos

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Anastasia Piperno

Dopo l’acclamato Good Time, i fratelli Safdie sono in salita. L’ultimo loro film, Diamanti grezzi, è stato un successo inedito per i due registi. È uscito nelle sale statunitensi, battendo record per la casa produttrice A24: nel primo weekend di uscita limitata, in cinque cinema, ha totalizzato 537.242 dollari, non solo la più alta per A24, ma il secondo miglior successo di botteghino nel 2019. Anche meglio nel giorno di Natale, quando l’uscita ormai diffusa ha consentito un incasso di un milione di dollari, costituendo un altro importante record di A24, cioè dell’incasso più alto per un singolo giorno. Con un budget inferiore ai venti milioni di dollari, che d’altronde è stato investito molto nella campagna pubblicitaria del film, l’incasso totale del film è stato di cinquanta milioni. Si tratta tuttavia di un caso statunitense, perché nel resto del mondo Diamanti grezzi è uscito tramite Netflix e non in sala.
È un film covato a lungo dai fratelli Safdie, che curavano il progetto da una decina d’anni. Ispirato all’esperienza passata del padre nel quartiere newyorkese di Diamond District, doveva succedere a un altro film legato alla loro figura paterna, Daddy Longlegs (2009). Il ruolo del protagonista Howard Ratner fu offerto nel 2012 ad Adam Sandler, il quale però rifiutò. Da lì la sceneggiatura è stata ripassata e ritoccata, trovando una produzione nel 2018 dopo il successo di Good Time che convince Sandler a entrare nel cast al posto di Jonah Hill.
Si tratta di un altro traguardo di critica anche per Adam Sandler, che un’altra volta ha dimostrato la propria bravura attoriale, com’era già successo in contesti produttivi più vicini all’art-house, in ruoli inediti, più di spessore, cioè in Punch-Drunk Love (2002) di Paul Thomas Anderson e The Meyerowitz Stories (2017) di Noah Baumbach. Ma, com’è consueto per l’opera dei Safdie, si tratta di un attore professionista tra vari non professionisti: è il caso ad esempio dell’esordiente Julia Fox, che fa l’amante di Howard Ratner, ma anche di personalità note come il cestista Kevin Garnett e il rapper The Weeknd nel ruolo di sé stessi.

Foto: inlander.com

Si corre per vincere

Ed è Kevin Garnett, probabilmente, ad aver determinato anche l’anno di ambientazione di Diamanti grezzi, il 2012, dal momento che l’atleta si è ritirato nel 2016 e c’era bisogno che il suo personaggio fosse ancora attivo nella storia. Come accennato, la città è ancora New York, costante dei Safdie, culla biografica e fonte artistica principale. Howard Ratner, gioielliere ebreo e scommettitore incallito, è in una situazione-limite: ingolfato nei propri debiti, con creditori che lo richiamano aggressivamente, cerca di risalire la china con scommesse sportive sul basket di cifre a dir poco ardite, ma che potrebbero capovolgere la sua situazione economica in un attimo. L’errare tipico del cinema safdiano, il vagare sospinti da un evento imprevisto all’altro cercando di sfangarla, si ripete ancora: come Pattinson correva contro il tempo in Good Time, Sandler qui è in un fascio nervoso, sballottato tra più forze che premono continuamente ai lati, lo assediano. Ma, come in Good Time, il senso claustrofobico di nuovo brillantemente eseguito dal punto di vista cinematografico è frutto dell’azione dello stesso protagonista: non si tratta di un mero riparare ai debiti, non vuole pareggiare ma vincere, poter dire di averlo fatto, alzando la posta e rischiando tutto (con i soldi degli altri), in una brama materialistica che fa il bello e il cattivo tempo del gioielliere. In fondo tutta la narrazione, dal punto di vista di Ratner, può essere concepita come il tentativo di vincere a dispetto di tutto: tutto dev’essere manipolato per questo fine, un tema sensibile per l’attuale America trumpiana.

Foto: cinevue.com

Howard tesse la rete, la struttura, e la ramifica improvvisando, nel groviglio di pulsazioni in cui gli stessi Safdie lo hanno immerso, e rischia di esserne fatalmente schiacciato. Dopotutto Diamanti grezzi non mostra il centro capitalistico americano, non è lo sciacallaggio e l’edonismo di Wall Street di The Wolf of Wall Street di Scorsese, la furia d’accumulo senza morale, il godimento materialistico in grande, ma si concentra invece su centri ben più periferici socialmente, dove peraltro ad essere protagonisti sono classi con una storia di sfruttamento nota: afroamericani, ebrei, persino una minoranza armena. Il cognome scelto per Howard si presta bene al suo personaggio: Ratner ricorda i ratti. Come i topi spesso causano ripugnanza agli uomini, così il personaggio di Sandler è di nuovo un personaggio safdiano, nella misura in cui è una miscela di caratteristiche morali inette ma allo stesso tempo ha un certo talento, una certa energia che si fa fatica a ignorare, e anche una certa sfortuna. Come i ratti, che spesso s’aggirano per la Grande Mela, corre per sopravvivere, per arrivare al suo oggetto di desiderio, cercando di scansare chi lo vorrebbe calpestare, squittendo e dimenandosi nel tentativo di salvarsi dalle grinfie dei creditori. Subentra quella passione per i propri personaggi, quell’empatia che i registi hanno sempre avuto, che consente allo spettatore di poter relazionarsi con loro, che in mano ad altri sceneggiatori avrebbero creato un più prevedibile e continuo effetto di distanziazione e disprezzo.
Dunque vivere in Diamanti grezzi è vivere in un campo minato. L’assedio è davvero cinematografico: è un buon esempio la prima scena in cui Ratner entra nella sua gioielleria, il suo covo, che ricorda una gabbia di luce artificiale. I Safdie lo pongono sin da subito a confrontarsi contemporaneamente con i due grandi fuochi della sua vicenda: un suo collaboratore, Demany (Lakeith Stanfield, altro attore professionista), che gli porta clienti, e questa volta Kevin Garnett; e Phil, uno degli amici (se non scagnozzi) del cognato creditore Arno, pronto a sconvolgere i dinamismi della scena con la sua violenza improvvisa. In più entra in scena già la sua amante, Julia, che stuzzica l’attenzione di Ratner (con cui non sappiamo ancora il legame) mentre civetta con Garnett.

Foto: filmtett.ro

In una narrazione più lineare e canonica ci sarebbe stato un confronto sequenziale tra Ratner e gli altri, uno ad uno. Qui i Safdie accavallano le battute in sceneggiatura, il caos sonoro è sovrano ed è costituito di parti che richiamano continuamente l’attenzione, dunque non di certo suoni d’ambiente, ma suoni e discorsi significativi, pressanti; l’eterno test di Ratner in Diamanti grezzi è rispondere ad essi, tant’è che se li attira continuamente. Rimbalzano continuamente i piani tra Demany e Garnett e il silenzio minaccioso di Phil, pronto ad esplodere. I Safdie pedinano Howard anche fuori in città, spesso di spalle, mentre è sempre impegnato al telefono per trattenere qualcuno, vincerne il favore oppure lamentarsi delle sue azioni: Ratner non è mai da solo, ma è sempre visto nella mischia delle strade newyorkesi. Talvolta lo sguardo registico è quello dei suoi pedinatori letterali, Phil e gli altri, che cercano di capire cosa stia facendo con i soldi di Arno. I suoni d’ambiente di Daniel Lopatin, stesso collaboratore in Good Time, vogliono rendere cosa sia la stessa New York, per sottolineare le ambizioni realistiche safdiane. Lo stesso Benny Safdie ha detto a Dazed: «Recreating a New York City Street isn’t just slapping on a New Your City ambience. It’s cars, it’s a baby crying, it’s construction, it’s a siren, it’s a freeway in the background. You layer them together, you add dialogue, and then you add music». Il direttore della fotografia Darius Khondij continua a servire la cifra safdiana con un girato in 35mm, una pellicola di effetto sgranato di nuovo riconoscibile, che aggiunge allo stesso film quell’effetto di “diamante grezzo”, di contatto più immediato, diretto con il movimento della realtà, fuori dalla nitidezza, pulizia del digitale. Lopatin dal punto di vista musicale aggiunge un commento simile a Good Time, quasi sempre presente, simile a una rilevazione delle pulsazioni del protagonista, dei suoi umori, talvolta in maniera nient’affatto scontata, tanto da dare l’impressione di andare contro il tono di una determinata scena. C’è l’eccitazione di Ratner, l’adrenalina quasi infantile, quel bisogno, ancora, di avere un “good time”, ma anche l’angoscia, l’ansia della violenza del reale – o, si potrebbe dire, del capitale.

Foto: ft.com

Forse c’è persino un legame tra la musica elettronica di Lapatin e la colorazione dell’opale, gemma fondamentale per Ratner. Infatti il film si apre in modo inusitato per i Safdie: la prima scena è in Etiopia, nelle miniere in cui lavorano minatori sottopagati africani (ebrei), dove poi Ratner rintraccerà un tipo di opale che attrae la sua attenzione, quasi fuori posto nella povertà generale del Paese africano. Tratta l’opale come una sua nuova scommessa decisiva, o meglio, come un dispositivo cruciale per le sue scommesse sportive: è la merce di scambio tra lui e Garnett. Se Ratner nella gemma vede un ricavo danaroso spropositato, vertiginoso, per Garnett l’incredibile variazione cromatica che si nota nei riflessi della gemma è una magia, un segno. Quel senso di meraviglia tutta cava, interna, come nelle combinazioni digitali, elettroniche di Lopatin: una meraviglia artificiale. La gemma è accostata all’universo dai Safdie, in una bella congiunzione tra l’opale in Etiopia, in cui la camera entra, percorrendola, sfociando in vie immaginifiche lucenti e inusuali, nell’immensità astronomica, per poi finire in una colonoscopia di Ratner, prima sua apparizione nel film. L’antico millenario e il moderno frenetico, consumistico si incontrano. La gemma è un legame anche fra gruppi sfruttati: dai minatori africani ebrei all’ebreo americano borghese Ratner al nero Garnett, uomo fattosi attraverso lo sport e diventato importante. Per i minatori lo sfruttamento è nel presente, per Ratner e Garnett è una memoria emblematica. Garnett vede nella gemma una luce in cui si identifica, e che deciderà di prendere per sé, come portafortuna per la partita decisiva che avverrà la sera stessa – obiettivo dello stesso Ratner, il quale avrebbe voluto (nonostante il probabile teatrino di esitazioni) proprio che la sua gemma fosse investita in Garnett, nell’ottica di quindici minuti di gloria indiretti. Garnett è la sua scommessa e l’opale è il suo inserimento nel gioco del cestista, immaginando che possa caricarlo, dargli la spinta. È dunque una questione di sguardi e di capitale.

Specchio delle mie brame..

I registi Safdie hanno definito Ratner come il vero diamante grezzo, un legame suggerito dal trasferimento dell’interno della gemma allo stesso corpo del protagonista, fuoriuscendo in pixel visualizzati dallo schermo in sala operatoria. È una questione di sguardi anche in questo: il valore effettivo dell’opale è meno importante di quello attribuito dai personaggi (d’altronde in perfetto contesto capitalistico e consumistico), ognuno con il proprio trascorso e le proprie motivazioni. Conta la luce riflessa, il motore che fa scatenare, l’azione, la convinzione di essere sotto una buona luna. Ratner è diamante grezzo proprio per la miscela di caratteristiche positive e negative che porta con sé. In mezzo alla ruvidezza di tutti i suoi lati meschini, la sua brama materialistica messa sopra a tutto, c’è ancora quel grumo umano di speranza energica, l’entusiasmo soggettivo di una vita che vuole toccare la propria cima, in mezzo a un universo più grande che schiaccia i singoli e i loro brevissimi, concitati schiamazzi. È un film di visualizzazioni già annunciato: il terreno di gioco del basket, palcoscenico delle speranze di vincita, è visto solo attraverso gli schermi dello smartphone e della tv, trepidando, spasimando nell’evolversi della partita; come la pellicola sgranata ricorda, per certi versi, la stessa materia filmica, la stessa pura visualizzazione dello spettatore. Garnett per Ratner è un mito nato tra pixel visualizzati, come la gemma nei video cercati su internet.

Foto: variety.com. Credit: Julia Cervantes/A24

La qualità grezza è anche quella della fonte assolutamente terrena degli entusiasmi di Ratner. Non è un caso che Ratner sia ebreo (come Sandler) e che abiti in un quartiere, Diamond District, notoriamente pieno di affaristi ebrei. Pena il rischio (com’è accaduto) di polemiche da parte del mondo ebreo americano, i Safdie – a loro volta ebrei – hanno tratteggiato nel loro protagonista da una parte un classico schlemiel, che in yiddish significa un individuo sfortunato e un po’ sciocco, quale è perfettamente Ratner nei suoi reticoli; ma anche un tipo ebraico storico, quasi appartenente al filone del secolo scorso. Infatti con l’ebreo rothiano o alleniano forse condivide qualche frustrazione sessuale, ma non la centralità di essa. È il lato di capitalista, economico che impera. È la figura che d’altronde era antipatica anche ai nazisti: l’ebreo come affarista, come accumulatore avido, senza pudore del capitale, pronto a sfruttare ogni occasione per avere la meglio. Probabilmente quella luce che i Safdie vedono in Ratner è l’energia che ha accomunato, in una più semplice visione carrieristica, importanti personaggi. «The early inspirations were these titanic 20th-century Jews, these overachievers, these overcompensators, these guys with interesting perspectives based on that, trying to work their way into society: the Rodney Dangerfields, the Lenny Bruces, the Don Rickles, the Al Goldsteins» dicono a Slate. Togliendo demonizzazioni fuori luogo, il legame tra ebrei e denaro è una linea culturale, un carattere innegabile, raccontata profondamente anche dalla romanziera franco-ucraina Irène Némirovsky (David Golder, I cani e i lupi, ad esempio). Ratner è ancora l’ebreo che tenta di sfangarla, che ha le qualità sociali e la malleabilità per implorare, per sfruttare, per conquistare anche in questa eredità sanguigna: è di nuovo la parabola dell’ebreo senza nulla e l’attimo dopo in una salita verso l’oro che è nutrimento della sua infaticabile energia, un’erranza che è tutta nel popolo ebreo, un’energia per sopravvivere talvolta fuori misura, un fascio di nervi noto anche ad Allen. Ma è anche l’angoscia, l’ansia che assume una prospettiva metafisica ad essere un carattere appartenente agli ebrei Safdie: la pressione talvolta è così costitutiva per la parabola di Ratner da diventare quell’accanimento ben noto nella sua religione, pur non toccando figure ben più rette come quella di Giobbe. La figura ebrea è la figura perennemente schiacciata, non solo storicamente, ma anche religiosamente, che tuttavia non può che trovare comunque energie vitali, o proprio per questo.

Ratner specula senza remore su altri sfruttati ed è sfruttato a sua volta, in una feroce ed impietosa catena: il materialismo stesso, la merce di scambio è il termine di confronto tra più gruppi etnici perseguitati, il nero Garnett e il protagonista, all’interno della città delle opportunità di fortuna materiale con un’importante storia. Nella culla del benessere tutto contemporaneo, ancora di più di questo secolo globalizzato che del Novecento, i motivi di luce sono nell’ebbrezza consumistica livellatrice, comune a bianchi, neri, ebrei del primo mondo. E allora Diamanti grezzi ne è un racconto dall’aderenza emotiva fedele.

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