Patrick ha ventisette anni. Il suo nome completo è Patrick George Michel Zaki Suleiman. È nato a Mansura, in Egitto, ma l’interesse per la tutela e la salvaguardia dei diritti umani lo ha portato in Italia, a Bologna: Master in studi di genere e delle donne. Il 6 febbraio scorso torna a casa per una breve visita. Una piccola vacanza, il tempo di riabbracciare la sua famiglia: Patrick sa che tornerà a Bologna.
Non tornerà. Il giovane studente viene portato nell’ufficio dell’Agenzia della sicurezza nazionale all’interno dell’aeroporto, dove viene bendato e trattenuto per diciassette ore. I servizi egiziani lo trasferiscono in una sede della sicurezza nazionale della sua città di origine, a centoventi chilometri a Nord del Cairo. Viene interrogato. Denudato, minacciato, picchiato, sottoposto a scosse elettriche e rinchiuso in cella. La condivide da giorni con altre trentacinque persone e un solo bagno.
È arrestato con l’accusa di aver pubblicato notizie false per disturbare la pace sociale, incitamento alle proteste contro lo Stato e rovesciamento del regime, reato per cui è previsto l’ergastolo. Lo dimostrerebbero degli screenshot dalla sua pagina Facebook. Eppure Patrick ha il volto calmo di un giovane equilibrato e disciplinato, è impegnato nella lotta contro lo stato egiziano, sì, ma la sua è una lotta moderna, disarmata, guidata dallo sguardo pacato del ricercatore. Patrick Zaki è uno studente, ma per l’Egitto Patrick George Michel Zaki Suleiman è un terrorista. Il parallelo con un altro giovane ricercatore è automatico e agghiacciante: Giulio Regeni fu torturato a morte. Ma stavolta deve essere diverso. Questa volta deve andare meglio.
Un affare tutto egiziano?
Quella di Zaki è una vicenda che sembra seguire un copione. Nell’Egitto di al-Sisi vige una vera e propria tendenza che vede studenti, attivisti politici e manifestanti sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia.
Preso il potere nel 2013, il generale Abdel Fattah al-Sisi ha avviato una feroce repressione contro gli oppositori del regime. I difensori dei diritti umani come Zaki si ritrovano a denunciare le violazioni subite dai cittadini egiziani in un contesto in cui persino la critica più moderata è fastidiosa e suscettibile di essere messa a tacere. Chi non smette di monitorare ciò che succede ogni giorno, incluse le sparizioni forzate, le torture e le uccisioni, viene arrestato con mandati di cattura che sono uno la fotocopia dell’altro, rimanendo in carcere senza processo per molto tempo. In più, l’ordinamento giudiziario del Cairo prevede che la custodia cautelare possa durare fino a due anni, rinnovata ogni quindici giorni, ma può capitare che venga protratta anche oltre. Infatti, durante l’udienza del 22 febbraio, Zaki è apparso davanti al procuratore di Mansura stanco e con i capelli corti – tagliati senza spiegazione in carcere – e si è visto rinnovare la detenzione per altri quindici giorni.
L’Egitto ribadisce che, essendo Zaki un cittadino egiziano, il suo arresto debba seguire la procedura egiziana, ma questo non ci sgrava da ogni responsabilità e autocritica. All’interno dei meccanismi della campagna repressiva del regime di al-Sisi non vi è alcuna possibilità di protezione per il giovane studente. Per questo è importante chiamare in causa l’Italia e l’Europa. Per ora le parole riempiono l’aria di tante fumosità. L’Italia dovrebbe trovare il coraggio, la forza e la dignità di ritirare l’ambasciatore dall’Egitto, o almeno prendere una posizione per dimostrare la reale fattibilità di un aiuto al giovane Zaki.
Le relazioni economiche tra Italia ed Egitto
Perché allora l’Italia non prende posizione? Banalmente si tratta di affari. Nonostante il caso Regeni, i rapporti economici tra Italia ed Egitto si sono intensificati: è infatti in vista una fornitura di navi da guerra ed elicotteri dall’Italia all’Egitto in cambio di nove miliardi di euro. I grandi affari bellici costituiscono quindi un freno a qualsiasi mossa per liberare Zaki che possa sembrare anche solo lontanamente in grado di turbare gli equilibri economici tra i due paesi. Il ministro degli Esteri, Di Maio, non intende sciogliere gli accordi economici con l’Egitto già presi in passato. Nonostante in passato sul caso Regeni si fosse espresso più duramente nei confronti delle autorità egiziane, invocando una presa di posizione più decisa da parte del governo italiano, stavolta parla con cautela. Secondo l’ex capo politico del Movimento Cinque Stelle è importante avere l’ambasciatore italiano al Cairo sia per Zaki, sia per scoprire la verità su Giulio Regeni.
Non un altro Giulio Regeni: questa volta deve andare meglio
In questo gioco di interessi è la società civile ad abbracciare la causa del giovane ricercatore. Appare tra le strade di Roma, sui muri di Villa Ada, nelle vicinanze dell’ambasciata d’Egitto, Giulio Regeni, con un sorriso sereno, incoraggiante, abbracciato a Zaki, che gli stringe le mani. È l’immagine sognata e realizzata dalla street artist Laika. Nel murales Regeni rassicura Zaki: «stavolta andrà tutto bene», promette. In basso, in arabo, la scritta «libertà».
Mentre Zaki resta in carcere cresce il timore che l’immagine speranzosa dell’artista di strada non si tramuti, al contrario, nell’oscuro presagio che Regeni tenga tanto stretto a sé il giovane Zaki da trascinarlo amaramente dentro il suo stesso destino.
All’Italia e all’Europa il compito di proteggere questi suoi ragazzi. Questa volta devono farsi sentire di più, questa volta deve andare meglio. Patrick Zaki è l’ennesimo seme della rivoluzione nel campo sterile del regime repressivo di al-Sisi, ma affinché la rivoluzione pacata della ricerca e dell’attivismo pacifico non venga fagocitata dallo Stato senza lasciare traccia sarà necessario che l’Italia e l’Europa recuperino fermezza morale nei rapporti diplomatici con l’Egitto.