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Che fine ha fatto Julian Assange?

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Lorenzo Tecleme

Il 24 febbraio si è svolta a Londra la prima udienza sulla richiesta di estradizione di Julian Assange. Da oltre dieci anni gli Stati Uniti inseguono il programmatore e attivista australiano che, se estradato negli States, dovrebbe rispondere del reato di spionaggio: un’accusa che può portare al carcere a vita nelle prigioni federali. Nonostante l’eccezionalità dell’evento – un giornalista sotto processo in un Paese occidentale per aver raccontato fatti sulla cui fondatezza nessuno obietta – la stampa ha dato scarsa copertura al processo. Sembrano lontani i tempi in cui le rivelazioni di Assange e colleghi erano le notizie di apertura dei telegiornali di tutto il mondo. Un silenzio anomalo che, per essere compreso, richiede di ricapitolare la vicenda umana, politica e giudiziaria di Julian Assange.

La storia

Programmatore, giornalista e attivista, il nome di Julian Assange è legato a WikiLeaks, il portale da lui fondato nel 2006 specializzato in leaks, fughe di notizie che i governi normalmente vorrebbero non arrivassero al grande pubblico. Dopo anni in cui il suo operato passò sostanzialmente sotto silenzio, Assange conquistò all’improvviso le prime pagine dei giornali di tutto il globo nel 2010 con gli Iraq War Logs, documenti riservati del Dipartimento della Difesa Statunitense forniti da Chelsea Manning, militare e analista del Pentagono.

Le rivelazioni della Manning fecero il giro del mondo. I file top-secret del governo americano riguardavano la guerra in Iraq e provavano torture, violazioni sistematiche dei diritti umani, un numero enorme di civili uccisi. Particolare scalpore fece un video di diciassette minuti – soprannominato dai media Collateral Murder – che mostra due elicotteri Apache dell’esercito statunitense attaccare e uccidere diciotto iraqeni disarmati, tra i quali due giornalisti della Reuters e tre soccorritori, e ferire due bambini.

Queste rivelazioni minavano alla base la narrazione dell’intervento umanitario che dall’inizio la coalizione a guida USA proponeva all’opinione pubblica. Seguirono nel luglio dello stesso anno gli Afghanistan War Logs, più di novantamila documenti secretati che mostravano, oltre a centinaia di uccisioni non dichiarate di civili, il fallimento della guerra in Afghanistan, l’aumento degli attentati dei taliban e la destabilizzazione dell’area.

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Negli anni il lavoro di WikiLeaks non si è fermato, portando alla luce comunicazioni riservate tra ambasciatori e presidenza USA e documenti riguardanti le violazioni dei diritti umani nella prigione statunitense di Guantanamo, ma anche e-mail della dirigenza dell’AKP del presidente turco Erdogan, della campagna elettorale del primo ministro francese Macron, della casa regnante dell’Arabia Saudita.

Un lavoro che ha creato non pochi imbarazzi a governi di tutto il mondo e che ha suscitato inevitabilmente reazioni durissime. Chelsea Manning, la gola profonda degli Iraq War Logs, venne arrestata nel maggio del 2010 e tenuta in isolamento prima in Kuwait e poi negli Stati Uniti. Le condizioni della sua detenzione erano – secondo i resoconti di chi la visitò – durissime: isolamento per ventitré ore al giorno, luce sempre accesa, seminuda, quasi senza possibilità di movimento e sorvegliata a vista. Un trattamento così severo che, nel novembre del 2011, oltre duecentocinquanta giuristi americani firmarono una lettera aperta di condanna verso lo stato della sua prigionia.

Dopo sette anni fu scarcerata a seguito della grazia concessa dall’allora presidente Obama, ma nel 2019 venne nuovamente arrestata per aver rifiutato di testimoniare contro WikiLeaks e lo stesso Assange. Una detenzione anche questa contestata, tanto che le Nazioni Unite hanno accusato l’America di star «torturando Chelsea Manning» e hanno chiesto la sua immediata scarcerazione. Richiesta caduta nel vuoto.

Militari americani in Afghanistan. Foto: rsi.ch

Ancora più complessa è la vicenda giudiziaria di Julian Assange. Parallelamente alle accuse che provenivano dagli Stati Uniti per spionaggio e crimini informatici, dalla Svezia partì un filone giudiziario, stavolta per stupro. I magistrati scandinavi, infatti, accusarono Assange di aver avuto rapporti non protetti con due donne, le quali avevano dato il loro consenso al rapporto sessuale ma non alla mancanza di protezione. Accusa contestata da più parti, sia per i trascorsi di una delle accusatrici (Anna Ardin, leader di un gruppo di femministe cristiane e autrice del controverso Guida alla vendetta contro il partner) sia perché ritenuta dagli attivisti vicini a WikiLeaks un escamotage per arrivare poi all’estradizione negli States, dove lo aspetta un’accusa potenzialmente da sedia elettrica.

Assange, che viveva a Londra quando seppe della sua incriminazione, si oppose alla richiesta di essere processato in Svezia e, dopo che un tribunale britannico respinse il suo ricorso, si rifugiò nell’ambasciata londinese dell’Ecuador. Il piccolo Paese sudamericano conduceva da anni sotto la guida dell’allora presidente Correa una politica di allontanamento dalla sfera d’influenza statunitense e colse l’occasione per mettere in difficoltà Washington, che nei leaks riconducibili ad Assange aveva visto visto pubblicare anche prove della sua interferenza nelle vicende dell’America Latina.

Da quel momento ha inizio una guerra di logoramento tra Julian Assange e gli Stati Uniti d’America. Da un lato intellettuali di tutto il mondo – dall’americano Noam Chomsky al greco Yanis Varoufakis, dal whistleblower  esule in Russia Edwoard Snowden agli italiani Marco Travaglio e Barbara Spinelli – si sono spesi per la sua liberazione. Dall’altro, le autorità inglesi si sono opposte a ogni ipotesi di alleggerimento della sua posizione, evitando il suo trasferimento in Paesi come l’Ecuador o la Russia.

Un braccio di ferro lungo otto anni e che ha avuto il suo epilogo l’anno appena passato. Il nuovo presidente ecuadoriano, Lenín Moreno, ha iniziato un’opera di riavvicinamento alla Casa Bianca che si è concretizzata – tra le altre cose – nella revoca dello status di rifugiato politico per Assange. Il fondatore di WikiLeaks ha dovuto lasciare l’ambasciata nell’aprile del 2019 ed è stato subito arrestato dalla polizia britannica.

Arriviamo così a oggi, con la vicenda giudiziara che si avvicina sempre più a un punto di svolta. Pochi giorni fa si è aperto il procedimento che dovrebbe portare verso dicembre all’estradizione di Assange negli USA. A lungo è rimasto poco chiaro quale processo Assange avrebbe dovuto sostenere una volta passato l’Atlantico. La richiesta di estradizione riguardava inizialmente l’accusa di crimini informatici – Assange aveva infatti provato ad aiutare Chelsea Manning a ottenere alcune credenziali interne ai software del Pentagono – che prevede un massimo di cinque anni di reclusione, ma nel maggio dello scorso anno sono arrivati diciasette nuovi capi d’accusa, incluso quello di spionaggio. La norma che Assange avrebbe violato è il famoso Espionage Act del 1917, un provvedimento approvato in piena prima guerra mondiale e mai abrogato, che può essere punito col carcere a vita.

Intanto, il padre di Julian Assange ha dichiarato che il figlio «rischia di morire in carcere». Un’opinione condivisa da oltre sessanta medici inglesi che hanno firmato un appello per la sua liberazione e dal relatore ONU sulla tortura Nils Melzer, che ha parlato di tortura psicologica nei confronti del giornalista e ne ha chiesto l’immediata liberazione. Anche per questo dal mondo delle ONG e dello spettacolo arrivano nuovi attestati di solidarietà ad Assange: Consiglio d’Europa, Reporter Senza Frontiere, Human Rights Watch, Amnesty International hanno condannato la detenzione di Assange, mentre dallo star system arriva la presa di posizione della rockstar Roger Waters.

I rischi per la libertà di stampa

Le vicende giudiziare legate a WikiLeaks non riguardano solo la persona di Julian Assange, ma aprono pesanti interrogativi sul futuro del giornalismo d’inchiesta. L’accusa che gli viene formulata dal Dipartimento di Giustizia americano, infatti, rischia per molti di costituire un grave precedente per tutto il mondo della stampa. È l’opinione di Mathew Ingram, chief digital writer e pluripremiato giornalista del The Globe, che sostiene la tesi per cui «anche se WikiLeaks non è ufficialmente un’organizzazione giornalistica, metterla fuorilegge significherebbe che ricevere documenti classificati da una fonte e poi pubblicarli è illegittimo. Invece, è quello che i media fanno abitualmente». Sulla stessa lunghezza d’onda il New York Times, che definisce l’arresto di Assange come «un attacco al cuore del primo emendamento [della costituzione americana, N.d.R.]» e il Commitee to Protect Journalists (CPJ) che ha definito il processo in corso a Londra come «una minaccia ai giornalisti di tutto il mondo». Per Robert Mahoney, vicepresidente del CPJ, incriminare Assange per spionaggio rischia di essere, oltre che una violazione della costituzione statunitense, «un regalo ai leader autoritari di tutto il mondo», che potrebbero rifarsi all’esempio di Washington per arrestare giornalisti nei propri Paesi.

Anche in Italia – seppure meno che altrove – nomi importanti del mondo del giornalismo si sono spesi in difesa di WikiLeaks e del suo fondatore: Alessandro Giglioli, vicedirettore di l’Espresso, afferma la necessità di schierarsi in favore di Assange perché «non è in gioco lui, ma il principio del giornalismo che ha il diritto (se non il dovere) di pubblicare notizie vere e verificate proteggendo la propria fonte e indipendentemente dalla propria fonte».

Leggi anche: Il coronavirus del giornalismo italiano.

Il mondo dell’informazione, va detto, non è unanime sulla vicenda umana e professionale di Assange e, se in pochi si sono spesi apertamente a favore della sua estradizione, molte testate e giornalisti hanno preferito adottare una linea neutra, senza agitare lo spettro di limitazioni alla libertà di stampa. È la scelta di buona parte dei network televisivi americani ed europei – che raramente hanno fatto trapelare prese di posizioni ufficiali – e dei giornali di area conservatrice e centrista, molto prudenti nell’incensare l’operato di WikiLeaks. E proprio dal nostro Paese sono arrivate alcune delle voci più critiche: Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, in un editoriale sulla questione ha scritto: «Gli spioni non ci sono mai piaciuti. Pensiamo che nel rubare, nel tradire e nello spiare non ci sia nulla di eroico né di romantico». Gianni Riotta, dalle pagine de La Stampa, ha dichiarato che «il grande miraggio della lunga storia di leaks, soffiate […] è che si tratti di una campagna di libero giornalismo, quando è invece, al di là magari delle intenzioni di qualcuno, raid di spionaggio e intelligence».

Il silenzio

Tanto il risalto mediatico che i leaks e la figura di Assange hanno avuto quanto la durezza delle autorità giudiziarie rivelano le dimensioni della vicenda. Decine di governi in tutto il mondo si son dovuti nel tempo esprimere sul caso di Assange – chi favorevolmente, chi in senso negativo – e intellettuali di fama mondiale si sono spesi in elogi («Assange ci insegna cosa significa essere un eroe al giorno d’oggi», scrive il celebre filosofo sloveno Slavoj Žižek), e proprio per questo colpisce quanto poco il mondo del giornalismo stia coprendo gli ultimi avvenimenti giudiziari. Se è vero che in molti, anche dalle colonne di testate prestigiose, si sono espressi in favore della causa di Assange e della libertà di stampa, è evidente come il suo arresto e la probabile estradizione non dominino le prime pagine dei quotidiani, e che molta informazione si sia limitata alla cronaca degli eventi senza il clamore che aveva accompagnato a suo tempo i leaks incriminati.

Le ragioni di questo parziale silenzio sono molteplici e non semplici da isolare, e hanno a che fare col processo di costruzione delle notizie – quello che gli anglossasoni chiamano agenda setting – sui quali gli studiosi della comunicazione e della scienza politica hanno speso fiumi d’inchiostro. Ma tra questo groviglio di ragioni una è peculiare nella storia di Assange: il suo difficile rapporto con la stampa progressista.

Leggi anche: “What is #Vault7?”: la CIA che ti spia.

Prima di diffondere gli Afghanistan War Logs, WikiLeaks mise le informazioni in suo possesso a disposizione di tre grandi testate – The Guardian, Der Spiegel e New York Times – perché le verificassero e contribuissero alla pubblicazione. In seguito il rapporto di collaborazione si estese a Le Monde e a El País. A lungo, buona parte dell’informazione mainstream di area progressista e liberale di tutto il mondo diede ampio spazio alle rivelazioni della coppia Assange-Manning, difendendoli dalle accuse dei governi e additandoli talvolta come modello di una nuova generazione di giornalisti.

L’idillio, però, non durò per sempre: la linea intransigente di WikiLeaks ha nel tempo messo in crisi il connubio tra whistleblower e stampa, portando giornali autorevoli come il succitato The Guardian ad allontanarsi da Assange e a criticarne alcune scelte, dalla pubblicazione di nomi di semplici membri del partito turco AKP (informazioni considerate giornalisticamente non rilevanti) fino alla scelta di non farsi processare in Svezia per le accuse di stupro.

Ma la vera rottura è avvenuta nel 2016, durante le elezioni presidenziali che portarono alla vittoria di Donald Trump: WikiLeaks diffuse nel pieno della campagna elettorale duemila e-mail ricevute e inviate dall’allora candidata democratica Hillary Clinton. Benché non contenessero niente di penalmente punibile, quelle conversazioni mostravano lo stretto rapporto tra la dirigenza dei Democrats e il mondo di Wall Street, una delle accuse che prima lo sfidante alle primarie Bernie Sanders e poi lo stesso Trump più di frequente hanno rivolto alla Clinton.

Hillary Clinton. Foto: geopolitica.info

Queste rivelazioni, arrivate in un momento cruciale della vita politica americana, hanno indignato il mondo progressista, che ha accusato Assange di aver interferito nelle elezioni, di aver favorito la vittoria del Partito Repubblicano e addirittura di essere al soldo della Russia di Putin.

Da quel momento in poi la stampa di sinistra e liberal si è allontanta sempre più dalla figura di Assange, considerato ora controverso, e con lei molte delle voci un tempo vicine a WikiLeaks – dal regista Michael Moore allo scrittore Andrew O’Hagan, dalla star hollywoodiana Oliver Stone alla cantante Lady Gaga.

Questo elemento spiega in parte perché un fatto così clamoroso – come dicevamo in apertura, un giornalista incarcerato in occidente per aver diffuso informazioni sulla cui veridicità nessuno obietta – sembra essere di così poco interesse per l’informazione e l’opinione pubblica. E proprio a questo mondo di delusi da Assange si rivolge Reporters Sans Frontiers quando scrive: «Il problema non è se amare o non amare Julian Assange. Il problema è se accettare o meno che un contributo al giornalismo venga assimilato allo spionaggio».

La prima udienza è passata, e ne sono previste cinque in totale prima della conclusione a maggio e della sentenza inappellabile attesa entro fine anno. Nel mentre, dalla Spagna arriva un terzo filone d’indagine dove Assange figura, per la prima volta, come parte lesa. I magistrati madrileni accusano l’UC Global, l’azienda iberica che doveva garantire la sicurezza di Assange all’interno dell’ambasciata, di aver spiato il giornalista per conto della CIA, tappezzando la sede diplomatica di cimici e telecamere nascoste.

Sulla vicenda umana, politica e giudiziaria di Julian Assange non è ancora stata scritta la parola fine.

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