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Il costo sociale dell’epidemia di Coronavirus

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Alessandro Rosa

Lo si era intuito già due settimane fa, quando in risposta al decreto adottato per contenere i primi focolai abbiamo assistito all’assalto dei supermercati, depredati dai beni di prima necessità (anche se per poco tempo). La scomparsa di mascherine e gel igienizzanti, come la tanto agognata Amuchina, è diventata il vero simbolo dell’entrata in vigore di una “legge della giungla” tutta italiana: ognuno per sé, tutti gli altri per conto loro. Mentre il Sistema Sanitario Nazionale è impegnato nella dura battaglia contro il Coronavirus, una battaglia sia scientifica che logistica, sessanta milioni di italiani sono diventati protagonisti di uno scontro tutti contro tutti, una guerra di trincea in cui vince chi riesce ad accumulare più risorse antibatteriche o chi si dà alla fuga.

Come (non) affrontare una crisi

Quella che sta affrontando al momento l’Italia è probabilmente la crisi più grave a cui il nostro Paese abbia mai assistito dopo la seconda guerra mondiale. Ci ritroviamo in una fase storica di per sé complicata che richiede il massimo livello di cooperazione tra enti e livelli diversi. Come era facile prevedere, non tutto sta andando nel migliore dei modi. Fin dal principio la stampa italiana ha fatto del suo meglio (o peggio) per alimentare una psicosi perpetua, sfornando tonnellate di notizie allarmistiche, smentite, contro-smentite, pareri contrari e opposti, creando una comunicazione confusa e schizofrenica che ha inevitabilmente reso altrettanto confusa e schizofrenica la popolazione. L’apice è stato raggiunto proprio ieri sera [il 7 marzo, N.d.R.], quando da qualche parte sono trapelate informazioni preziosissime riguardante la bozza di decreto, una notizia che sarebbe stata da trattare con i guanti di velluto e che invece è stata semplicemente sfruttata per fare scalpore. Il buon senso imporrebbe di non gettare benzina su una fiamma già abbastanza alta di per sé; la ricerca di click, invece, ha portato buona parte delle testate nazionali a rilanciare la notizia del decreto “zone rosse”, scatenando il terrore tra la popolazione, la quale ha inevitabilmente reagito con il panico dandosi letteralmente alla fuga.

Leggi anche: Il Coronavirus del giornalismo italiano.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante la conferenza della notte tra il 7 e l’8 marzo.

Quando gli untori siamo noi

C’era da aspettarselo? Forse. Si poteva agire meglio? Sicuramente. Quello che è chiaro è che, ancora una volta, l’Italia e gli italiani hanno perso una buona occasione per dimostrare spirito civico, senso di appartenenza e, diciamolo, sano buonsenso. Com’era facile aspettarsi, l’inizio di questa emergenza è stata caratterizzata ancora una volta dalla ghettizzazione: gli “untori” erano i cinesi e come tali sono stati immediatamente marginalizzati, con tutte le conseguenze sociali ed economiche che ne sono derivate (non per ultima, la chiusura di numerosi ristoranti). Sono bastate poche settimane affinché l’attenzione si spostasse dall’etnia alle località geografica, ed ecco comparire l’ossessione per le zone rosse, Lodi in primis. Ma cosa succede quando gli untori siamo tutti? Quando viene bloccata una regione come la Lombardia, che ospita da sola oltre dieci milioni di italiani, anche accusare qualcuno perde qualsiasi valore. Prende piede un conflitto su larga scala, una “guerra di tutti”, come qualcuno effettivamente l’ha già nominata. Un conflitto scaturito dalla situazione epidemica, ma le cui radici sono molto più profonde.

Leggi anche: Il tramonto della modernità e la guerra di tutti.

Un problema politico e sociale

Il Coronavirus è indubbiamente un’enorme sfida per il nostro Paese. Sta innanzitutto mettendo a dura prova un sistema sanitario di eccellente valore, che ha perso 37 miliardi di euro in soli dieci anni. Si arriva alla situazione paradossale di possedere tutte le capacità tecniche per gestire un’emergenza sanitaria, ma di ritrovarci impreparati perché abbiamo preferito fare come la cicala invece che come la formica, tagliando tutto il tagliabile. Nonostante questo, dal punto di vista prettamente medico pochi Paesi possono vantare una gestione dell’emergenza tanto formidabile come quella del nostro. Ma cosa succederà se, da un’epidemia più o meno circostanziata nel nord Italia, il Coronavirus si espanderà in tutto lo stivale? Basteranno le eccellenze sanitarie a compensare la mancanza di strutture e apparecchiature adeguate? È quanto mai chiaro che il problema non è più medico o scientifico, ma prima di tutto politico e sociale.

C’è poi un conflitto generale così permeante da essere quasi difficile da vedere, ed è quello che si gioca tra le istituzioni e i singoli cittadini. Un virus come il COVID-19 richiede necessariamente di evitare i movimenti e i contatti con gli altri per limitare i contagi il più possibile: è qualcosa di possibile nella società globalizzata del 2020? Stando a un reportage di Science, la Cina ha potuto reagire così tempestivamente solo perché aveva i mezzi politici per avviare protocolli estremamente aggressivi che non tengono in nessun conto la scelta personale dei cittadini. Uno scenario simile non è nemmeno lontanamente immaginabile in un qualsiasi Paese democratico.

Foto: Unsplash.

Proteggere sé stessi al tempo dell’epidemia

La corsa ai treni di ieri sera è piuttosto emblematica del fatto che, di fronte a uno scenario di epidemia dove il bene collettivo dovrebbe essere preservato, le persone se possono farlo scelgono di salvaguardare principalmente sé stesse. Se lo fanno è perché lo Stato non ha un vero e proprio potere su di loro. E se le cose stanno così dobbiamo prendere atto dello scollamento tra istituzioni e cittadini che sembrano essere due mondi che non riescono a comunicare le loro ragioni e i loro bisogni. Da una parte si richiede rigore, buon senso, restrizioni e controllo; dall’altra si rivendica il diritto inviolabile di fare come si ritiene meglio per sé stessi. Due istanze totalmente incompatibili tra di loro che si ritrovano a  dover scendere a compromessi. Ed è proprio questo il conflitto che le società occidentali stanno cercando di sanare attraverso un delicato sistema di pesi e contrappesi con cui rispettare le differenze senza esacerbarle.

La pandemia, presto o tardi, finirà. Non si può prevedere di preciso quando, ma ciò che è certo è che l’umanità non verrò cancellata con un colpo di spugna da questo virus e non ci saranno scenari post-apocalittici. Quando però sarà tutto finito dovremmo necessariamente misurarci con i costi. Ci sarà sicuramente un duro confronto politico, ed è facile prevedere che l’attuale governo riceverà non pochi attacchi dai soliti noti per le più svariate ragioni. È improbabile che accada, ma sarebbe auspicabile che la stampa italiana prendesse coscienza del proprio comportamento del tutto sconsiderato che ha alimentato una psicosi generale probabilmente più dannosa dell’infezione virale stessa. Bisognerà poi calcolare i costi economici: ancora una volta, le misure estreme messe in atto da un Paese come la Cina possono essere eseguite solo se si ha alle proprie spalle un’economia solida, ma in un paese come l’Italia, affossata dal debito pubblico, quali saranno i risvolti? E non per ultimo, ci sarà da pagare il costo sociale di tutta questa situazione: ognuno di noi dovrà rendere atto delle proprie scelte e del proprio comportamento attuato in questo momento di crisi.

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