No di certo, non sarà questa una brillante analisi sociale sulla condizione dell’intellettuale nei tempi moderni. Non ci sarà un amarcord accorato dell’intellettuale engagée, e di questi non si farà una rievocazione mitica. Negli ultimi tempi, però, si è diffusa e ha attecchito una credenza secondo la quale gli intellettuali sono scomparsi. Dicono i più: è colpa del postmoderno, è sempre colpa dei tempi che corrono, del loro disinteresse per i problemi della società.
La lamentela continua di giorno in giorno imperterrita, non eccessivamente violenta, piuttosto sconsolata e dimessa. Sospiro lungo, scrollata di spalle, rituale «Non ci sono più gli intellettuali di una volta». Come darvi torto? Impossibile! Ancora si sente l’eco delle campane a morto che ne cantano la fine, a più di vent’anni dall’inizio del nuovo secolo – oltre che millennio. Ma questo, che per noi chiaramente è un imbarbarimento culturale, un immiserimento spirituale, sarà da considerarsi come una causa o come un effetto?
Intellettuale prima
Per dirla tutta, il concetto di comunità di intellettuali così come lo intendiamo oggi, nasce nel 1899 con la redazione del Manifesto degli Intellettuali firmato dai deyfrusardi e ispirato al J’accuse di Zola. Criticavano con veemenza la condanna nei confronti di Alfred Dreyfus, accusato ingiustamente di tradimento e spionaggio a favore della Germania. Ai nostri occhi di oggi, appaiono indiscutibilmente eroi, paladini che combattono con coraggio per la giustizia e la verità. Quello dei dreyfusardi era infatti un piccolo gruppetto di persone istruite, troppo poco consistente rispetto ai coevi intellettuali tradizionali. Ferdinand Brunetière, esponente dell’Accademia Francese, era convinto che fosse nient’altro che una strana presunzione quella di ritenere scrittori, scienziati, professori e filologi come superuomini – non differentemente, viene da aggiungere, rispetto a quanto accade oggi parlando di filosofi, tecnocrati, professori, burocrati… – che si azzardano a trattare di dati, a commentare le istituzioni, mettere in discussione le tradizioni. Se c’erano e chi erano, insomma, questi intellettuali, lo sappiamo noi oggi.
Diversamente era accaduto qualche tempo dopo, durante il periodo della prima guerra mondiale. Alcuni tra gli intellettuali in quel momento avevano dimostrato entusiasmo nell’aderire alla causa della propria nazione. Altri, invece, come per esempio Bertrand Russell, si erano detti contrari e senza esitazione condannati, reclusi, allontanati, quantomeno importunati in qualche modo. Ci si può azzardare a dire che fossero grandi intellettuali i condiscendenti, meno grandi invece i dissidenti. La seconda guerra mondiale non ha guardato in faccia a nessuno, e anzi ha saputo ben servirsi anche della cultura per perseguire il proprio fine.
Intellettuale dopo
Torna un certo fervore intellettuale al termine della guerra, con l’esigenza della comprensione, con la necessità di parlare di quello che è successo. Così si spiega il neorealismo e in generale tanta parte della produzione letteraria del tempo. Ma così si spiega anche la figura dell’intellettuale organico pensata da Gramsci. E dopo la guerra, fino agli anni settanta, l’immagine degli intellettuali conosce un punto di svolta decisivo. Quello è il momento, nel pieno della ricostruzione, in cui mai come prima la classe intellettuale viene coinvolta e assorbita dal tessuto sociale. Certo, non sempre e a tutti i livelli, ma comunque in misura piuttosto consistente. Perché questo avvenga, però, si è reso necessario sviluppare delle conoscenze specialistiche richieste dall’industria: nasce l’intellettuale integrato. Dice Calvino nel 1976 «Ciò che è avvenuto negli anni Sessanta è stata una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale».
E poi l’inizio della rivoluzione tecnologica e dunque delle comunicazioni, l’avvento del virtuale, hanno condotto a un dominio incontrastato dell’immagine, dell’apparenza e della velocità, che si protrae dagli anni settanta ai novanta. Luperini chiama quest’epoca come quella del narcinismo, vale a dire dell’unione (infelice) di narcisismo e cinismo. Tra gli esempi reali da lui proposti, inevitabilmente Craxi e Berlusconi.
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E adesso?
Da quel momento, la cultura è stata sempre più filtrata da meccanismi politici ed economici inevitabilmente connessi ai meccanismi di comunicazione di massa. Gli esponenti della classe intellettuale sono ormai visti come dei lavoratori della conoscenza. Né gli si accorda più qualche autonomia o qualche autorità. Non sono più i tempi in cui si poteva dire che l’intellettuale sa, ma non ha le prove per spiegarsi, come diceva Pasolini. Dove sta, infatti, l’autorità degli intellettuali quando di intellettuali non ce ne sono? O meglio ancora, dove sta il valore della cultura? In una società in cui la cultura è costantemente osteggiata, ridicolizzata, immiserita, mortificata, quale potrebbe essere la fiducia da accordarle?
In un momento in cui il tessuto sociale si sfibra e si lacera dirigendosi verso due estremi – uno abisso profondissimo di ignoranza nera e un Olimpo sempre più rarefatto e irraggiungibile – qualcuno si rivolgerà a noialtri con frasi fatte, ma godibili al suono e facili a ripetersi; qualche altro con perifrasi talmente complesse da istillare il dubbio: significa qualcosa? Ma dove vuole arrivare? Ma qual è il punto? Non sono mica questi gli intellettuali che cerchiamo. In un periodo storico in cui non c’è necessità di consorzio, l’intellettuale che si vede è momento di un ingranaggio che dovrebbe costruire dei valori in un sistema. L’intoppo è che è il sistema stesso a distruggere quei valori. Potremmo forse immaginare come segue la risposta di un probabile intellettuale davanti al desolato panorama circostante: «Cosa parlo a fare? Non parlo a più. Che scrivo a fare? Scrivo per pochi, principalmente per me. Di cosa parlo? Parlo di me.